REVOLVER

spari nella notte del conformismo

Ritratto di Saint Just: il rivoluzionario intransigente e il dandy politico

Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.

Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.

Gli esordi

Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.

Jorge Luis Borges, il Labirinto e la Biblioteca

 

Parlare di Jorge Luis Borges significa evocare un profondo conoscitore e utilizzatore di simboli. In un’epoca in cui i grandi archetipi umani, veicolati dalla mitologia, rischiano di essere oscurati o ridotti a caricature da certi discorsi mistificanti, abbiamo bisogno di rimettere le idee in ordine con la sguardo rivolto verso Buenos Aires, grandiosa e vertiginosa come molti scritti del suo illustre cittadino.

L’Aleph e Finzioni, sono le raccolte più conosciute di Borges, in essa ricorrono spesso due costruzioni simboliche, entrambe imitazioni umane della Struttura per eccellenza – il Mondo, l’Universo – e due archetipi estremamente significativi: il Labirinto e la Biblioteca.

I personaggi de Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel tentativo di comprendere che tipo di labirinto sia stato progettato dal cinese Ts’ui Pen, scoprono che esso non è un edificio, ma un enorme romanzo, intitolato come il racconto che ne parla e formato da un’immensa quantità di “manoscritti caotici” con una “trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, che comprende tutte le possibilità”.

Il labirinto di Ts’ui Pen coincide con le innumerevoli possibilità dello svolgimento di un testo e una trama. Nello scritto La Biblioteca di Babele, invece, il labirinto coincide con un’immensa e incalcolabile moltiplicazione di libri, è l’intero universo dei testi edificabili con i caratteri alfabetici occidentali, così da fondere Biblioteca e Labirinto che simboleggiano l’universo e le numerose interpretazioni da parte della mente umana. La legge fondamentale di questo smisurato microcosmo è che “tutti i libri, per diversi che fossero, constatavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Inoltre (…) non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identitici”.

Borges appare come una figura archetipica: il Poeta cieco, simile all’Indovino e al Profeta, che non può vedere la realtà con gli occhi del corpo ma è dotato di una vista metafisica, altra e differente. Un richiamo alla figura mitologica di Tiresia, cieco ma capace di prevedere il destino di Ulisse. Lo scrittore e bibliotecario argentino era un incrocio da un punto di vista letterario, a metà strada tra il poeta e il filologo, l’erudito e l’esoterista.

Il Labirinto resta una struttura che presuppone un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta.

Noi moderni, invece, siamo troppo spesso presi dalle emozioni superficiali e dal desiderio di liberarci di qualsiasi struttura capace di ricordare che la libertà è qualcosa di limitato, rigettiamo ogni corridoio ideologico per evitare il Labirinto ed eventuali mostri, ma abbandonando tutto, restiamo dispersi e smarriti in un nuovo labirinto “dove – ricorda Borges – “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. (I due re e i due labirinti).

Suggestioni: la celtica Cerridwen e la Janara di Benevento

Le fonti classiche non ci dicono molto sul ruolo delle donne nella società celtica. Popolo di agricoltori, allevatori e abili mercanti con una rete commerciale molto estesa, avevano un senso del sacro molto elevato, con un pantheon di divinità popolari legate ad ogni clan (Tauath), e, ad un livello più elevato, una religiosità esercitata dai Druidi, incentrata sul culto delle forze naturali. Alcune saghe e dei reperti archeologici ci restituiscono un’immagine della donna celtica dotata di libertà rilevanti e in alcuni casi, di un potere enorme. Sarebbe un errore dedurre che quello celtico fosse un mondo matriarcale ma, quello che si riscontra, è un sostanziale equilibrio di gerarchia, ruoli definiti e ampi margini di libertà.

La dimensione religiosa era quella che esprimeva la più alta considerazione delle donne. L’élite celtica era composta da Druidi e Druidesse forgiata da venti anni di studio di letteratura, poesia, storia, astronomia, erboristeria e medicina oltre allo studio dei riti e della dimensione del sacro. Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione di figure sacerdotali femminili, solo nel I secolo d.C., è Tacito a scrivere che “I Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine”. Essendo una cultura prevalentemente orale, è difficile comprendere se ci fosse una commistione tra potere religioso e politico. Alcune tracce confermano l’esistenza di un potere politico da parte di alcune donne, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a descrivere la presenza di druidesse e “donne sagge nel mondo celtico: incantatrici, veggenti e persino esecutrici di riti sacrificali. Nella ricca strutturazione religiosa celtica, oltre certe rielaborazioni romanzesche, c’è una figura divina interessante, portatrice di luce e ombra.

Cerridwen o Kerridwen (si pronuncia Kerriduen) è una delle più antiche divinità del mondo celtico, dea del fuoco che alimenta la coscienza trascendente nel suo calderone magico. Come la greca Demetra e l’egizia Iside è grande fonte d’ispirazione dell’intelligenza e della conoscenza, il fuoco della luce interiore. Tuttavia porta con sé anche degli aspetti oscuri e violenti che ritroviamo nella dimensione della Natura. Il lato ombroso, un po’ ambiguo di Cerridwen si trova nelle descrizioni come donna “bella e spaventosa” ma anche di “strega sorridente”. A dimostrazione delle conoscenze magiche e divinatorie. In una duplice dimensione di luce e ombra, nascita e morte soprattutto in senso spirituale.

Figure del genere sono presenti in tutte le antiche tradizione europee, c’è un flusso suggestivo che attraversa i territori del vecchio continente e si intreccia nel folklore e nelle leggende popolari come quella della Janara della tradizione di Benevento.

Non è divina ma è una figura femminile che aveva conoscenze di erboristeria e arti magiche e come tale, è una donna carica di contraddizioni, portatrice di bene e male. Nella tradizione contadina la Janara è quasi sempre una figura malefica. Secondo la tradizione, infatti, bisognava posizionare davanti alla porta una scopa capovolta o un sacchetto con grani di sale così lei li avrebbe contati fino al sorgere dell’alba, quando la luce, sua nemica, l’avrebbe costretta a scappare, lasciando tranquilli gli abitanti di quella casa.

Ma questa descrizione negativa risente di un’interpretazione troppo condizionata dal Cristianesimo e da una non corretta descrizione dei riti sabbatici. Il suo nome deriverebbe da Dianara, sacerdotessa di Diana o secondo altri, da Ianua, letteralmente “porta”, quella tra la dimensione fisica e metafisica. In quanto donna dotata di saggezza, esiste anche una forma positiva della Janara, dove ritroviamo benedizione, guarigione e benessere spirituale.

E se provassimo ad immaginare una somiglianza tra Cerridwen e la Janara? Entrambe dotate di saggezza, espressione di luce e oscurità, dell’intreccio del bene e del male, del sottosopra tra materia e spirito. Può darsi che la nostra sia solo una suggestione, ma chi ci può vietare di intraprendere percorsi ancora non battuti?

Gli esordi della cultura psichedelica: una variopinta compagnia

 

Gli apologeti della cultura psichedelica la definiscono “la storica giornata del 1943”. Tutto era cominciato nella severa Svizzera, nei laboratori della Sandoz di Basilea, quando il dottor Albert Hoffman stese il resoconto dell’assunzione involontaria in corpore vili, cioè il suo, di una dosa minima di una sostanza che già aveva sintetizzato anni prima e che per la sua struttura molecolare e le proprietà fisiche aveva denominato “Acido dietilamidico dextro tartrato 25, dove venticinque era il numero di registro in una serie di composti sintetici della Sandoz. “Nel pomeriggio del 16 aprile 1943 fui costretto a interrompere il mio lavoro di laboratorio e a tornare a casa. Ero stato preso da una strana agitazione insieme con una leggera vertigine. Giunto a casa, mi stesi e caddi in una specie di delirio che non era affatto spiacevole e che era caratterizzato da una grande attività della mia immaginazione. Fui invaso da una serie ininterrotta di immagini fantastiche di un’intensità straordinaria, accompagnate da colori caleidoscopici della maggiore vivacità”.

Facciamo un salto fino al 1961. Aldous Huxley e Timothy Leary partecipano al quattordicesimo congresso internazionale di psicologia applicata a Copenhagen. Da qualche anno, sempre il dottor Hoffmann, era riuscito a sintetizzare in laboratorio la psylocibina, l’alcaloide dei funghi allucinogeni. Da anni, in alcuni centri di psichiatrici, si sperimentavano queste sostanze per il trattamento di alcune forme gravi di psicosi e dipendenza da alcol.

Aldous Huxley

Huxley non era uno psichiatra ma un romanziere e saggista che aveva descritto le sue esperienze allucinogeni. Autore di molti libri, come storico aveva investigato sul rapporto tra esperienza mistica, teologia e potere. Due testi particolari, il primo, “L’eminenza grigia”, dove si narrano le vicende di François Leclerc du Tremblay, un aristocratico francese entrato nell’ordine dei Cappuccini con il nome di padre Giuseppe e divenuto celebre come ministro degli esteri e capo del servizio segreto sotto il governo di Richelieu nella Francia del Diciassettesimo secolo. L’altro libro controverso,“I Diavoli di Loudun” ricostruiva la vicenda di una presunta possessione che nel Seicento aveva coinvolto un prete, Padre Urbain Grandier e un intero convento di Orsoline.

«La comunicazione teologica di una visione o anche di un’esperienza mistica spontanea è “grazia gratuita”. Queste cose sono una grazia, esse ci sono date, noi non facciamo nulla perché ci arrivino e sono gratuite, il che significa che non sono sufficienti per la salvazione o l’illuminazione, comunque vogliamo chiamarla. Ma se sono usate in modo giusto, se sono assecondate, se il ricordo di esse è considerato importante e chi le ha vissute lavora secondo le vie che gli stono state indicate, esse possono essere di grande importanza nel cambiare la vita di una persona”. Così Huxley chiudeva il suo discorso al congresso danese, convinto che le esperienze mistiche attingessero a una regione del nostro cervello non in contatto con la realtà quotidiana.

Molto più mondano e pop, fu l’intervento di Leary, professore di Harvard che Richard Nixon ebbe a definire “l’uomo più pericoloso d’America”. Una vita controversa: nel 1965 si becca un’assurda condanna a trent’anni di reclusione per possesso di marijuana, evade nel 1970 con la complicità del gruppo radicale armato dei Weather Underground. Latitante prima ad Algeri, ospite di Elridge Cleaver, capo del cosiddetto governo in esilio delle Black Panther e poi da lì entrato in Svizzera dove sposa una donna ricca. Fuggito dalla terra elvetica, viene arrestato da agenti americani dopo essere atterrato a Kabul, dove un manipolo di giovani in fuga dall’Occidente l’aspettava per festeggiarlo al Siegi’s il bar dove per farsi una canna bastava raccogliere l’hashish rimasto nelle venature consunte dei tavoli di legno.

 

Timothy Leary

 

Timothy Leary da anni si vantava, senza aver provato nulla, dei suoi trattamenti con droghe psichedeliche agli alcolizzati e ai criminali. Erano esperimenti che all’inizio venivano tollerati dall’Università di Harvard e dalla stessa CIA che in quegli anni diffondeva queste sostanze. Leary in un primo momento non aveva un afflato mistico, poi quando la psylocibina e l’LSD vennero inclusi nell’elenco degli stupefacenti, fondò una specie di chiesa denominata League for Spiritual Discovery, solo per utilizzare legalmente a scopo di culto le sostanze psichedeliche che la legislazione statunitense garantiva alla chiesa nativa americana.

Immigrazione, società multietniche e ipocrisie dei “buoni”. Appunti per un futuro di tensioni

Un nuovo neologismo si è fatto strada nel dibattito politico: “remigrazione”. L’espressione ha cominciato a circolare negli ambienti della destra identitaria tedesca e austriaca, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti politici fino ad entrare nel campo del dibattito politico con una notevole forza d’urto.
L’espressione si riferisce al progetto di rimpatrio forzoso di tutti quegli immigrati irregolari, la cui mancata integrazione è causa di problemi di ordine economico e sociale in molti paesi europei e alla costruzione di meccanismi di incentivo al ritorno nei propri paesi d’origine a chi rifiuta forma di integrazione nella nazione che li ospita.
Il tema suscita reazioni contrastanti, provoca scontri e divide. Sarebbe più facile evitare gli argomenti sgradevoli e pericolosi per il consenso generale, piuttosto che affrontarli, è una forma di moderata viltà. Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riconnettersi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo di politici, intellettuali, opinionisti con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Parole e affermazioni che agiscono soprattutto sull’emozione.

La prima critica generale posta sulla esagerata centralità del tema dell’immigrazione, riguarda la comunicazione. Gran parte dei maître à penser ostili alla destra politica sostiene che l’emergenza sia qualcosa di costruito per favorire le forze populiste europee e che sia in corso una specie di manipolazione mediatica, una circonvenzione del cittadino ignorante e rabbioso.
Tuttavia, la comunicazione è efficace quando c’è una presa nella società, nella sua profondità razionale e sentimentale. La questione dell’immigrazione è presente da parecchi anni, non può essere il risultato di una comunicazione ben congegnata, ma qualcosa di persistente che mette a disagio e preoccupa anche gli stranieri che si sono integrati bene. È qualcosa di profondo.
I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale.
Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito flusso di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.

Letture e riletture. Una “sfida nel Kurdistan” di Jean Jacques Langendorf

 

“Epperò non sono mai mancati i selvaggi ebbri della vita, mai gli aristocratici del sogno, sereni e cupi, i guerrieri, i lanzichenecchi e gli avventurieri; in poche parole, non sono mai mancati coloro per i quali il mondo dei datori di lavoro e degli stipendiati, degli affari e del denaro è del tutto indifferente”.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso

 

C’è un libro di Jean Jacques Langendorf, “Una sfida nel Kurdistan”, esemplare di un certo modo di essere e di stare al mondo. Racconta di una giovane spia tedesca in Medio Oriente durante la seconda guerra mondiale, un terreno di manovra in apparenza secondario rispetto al campo di battaglia europeo, dove egli ha la possibilità di giocare la sua partita della vita. Con il passare dei giorni, il protagonista si rende conto che quel a lui interessa, non sono tanto le implicazioni politiche della missione, ma la sensazione di essere artefice del proprio destino e non una semplice pedina di un gioco. Langendorf da storico aveva scritto un perfetto romanzo di avventura, senza aver dovuto provare necessariamente quell’esperienza per raccontarlo. Aveva definito un modo di porsi nei confronti della vita, un antidoto contro quest’ansia di successo, consumo e denaro, dove l’insignificante è portato a livelli esasperati. Testimonia come nelle pieghe del quotidiano si può provare l’inebriante libertà dell’avventuriero.

 

 

In un’intervista del settembre 2022 pubblicata sulla rivista Livr’Arbitres a proposito di questo libro, Langendorf aveva dichiarato:

Romanzi come Una sfida nel Kurdistan, o non se ne fanno più, o gli editori non li vogliono più. Perché la vena si è inaridita?

“La vena si è inaridita perché si è riversata su altro, giallo, fantascienza, romanzo storico, ecc. E poi la fonte si è prosciugata, drenata dallo psicologismo, dall’introspezione, dall’estetismo. Non ci sono più avventurieri politici. In un’epoca sprofondata, si può solo scrivere dello sprofondamento. Ma forse c’è ancora un orafo che lavora nel suo angolo (…)

 

 

Dalla parte di John Fante

 

 

 

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di “io plurali”, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente de-siderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi”.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.

Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

La “battaglia di Roma” dei futuristi al teatro Costanzi

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Il futurismo “conquista” Roma nel 1913, riuscendo a fare breccia nell’ambiente della capitale con le serate al Teatro Costanzi, l’attuale teatro dell’Opera; ma il terreno è stato preparato negli anni precedenti, grazie alla presenza di un gruppo di artisti attrattati dall’orbita di Marinetti, il quale aveva contatti con l’ambiente da molto tempo.

Marinetti prima delle serate al Costanzi, non ha ancora organizzato manifestazioni eclatanti, però ha dedicato alla capitale la potente invettiva: Contro Roma passatista, in cui la città, con Venezia e Firenze veniva presa e definita una delle “tre piaghe purulente della nostra penisola”. Accusa infamante, nata dalla considerazione che, in assenza di una moderna struttura economica, la città vivesse da parassita sulla cosiddetta industria dei forestieri, il turismo. Del resto, la Roma clericale, sede del Vaticano, da cui si sprigiona il potere spirituale della Chiesa e la Roma di Montecitorio, crocevia di traffici e intrighi politici, fanno da sfondo al poema romanzo in versi liberi L’aeroplano del Papa (1912), dove Marinetti, spinto da irrefrenabile fantasia e altrettanta sfrontatezza, immagina addirittura di compiere un volo rocambolesco per rapire il Papa.

La “battaglia di Roma”

La mattina di del 21 febbraio 1913, i lettori del quotidiano romano Il Messaggero, leggono un annuncio di una manifestazione culturale e mondana che si terrà quel giorno, alle cinque del pomeriggio, prima matinée interamente dedicata al futurismo al Teatro Costanzi.

Marinetti illustrerà l’esposizione di quadri di Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo e Soffici, inaugurata nel foyer; leggerà i versi di alcuni poeti futuristi e infine l’orchestra del teatro eseguirà, sotto la direzione dell’autore, un pezzo sinfonico del maestro futurista Francesco Balilla Pratella. Il capo del movimento è riuscito a ottenere la disponibilità dei locali di via Nazionale grazie all’amica Emma Carelli, ex cantante e ora direttrice artistica del teatro, dove il marito Walter Mocchi, amico di Marinetti, è diventato agente teatrale e ha organizzato lo spettacolo.

Invece, dell’esposizione, si è occupato Peppino Giosi, ex coloraio di via del Babuino, che nei primi anni del secolo faceva credito a Severini e Boccioni, fornendo gratuitamente tele e colori. Durante il “five-o’-clock tea” Marinetti, “parlatore simpatico quando non posa a nazionalista mangiapopoli”, viene ascoltato da una sala gremita, dicono le cronache, di “gente molto per bene” e dunque il dissenso resta limitato a qualche grida di protesta. Molto diverse sono le reazioni del pubblico all’ingresso di Papini – nuova recluta del Futurismo  assieme a Soffici – che, nel presentarsi col volto quasi nascosto da una folta capigliatura, legge il suo Discorso contro Roma con molto impaccio. Le sue parole in mezzo a quella compagnia di facinorosi – nota Fausto Maria Martini su “La Tribuna” – sono una stonatura, anche perché l’occhialuto scrittore fiorentino ha una “voce di gattina bastonata”, vorrebbe esprimere parole audaci, oscenità, ma le dice timidamente, e se ne sta lì in equilibrio instabile sulle lunghe gambe. Insomma, rappresenta “un numero che un impresario di troupe avrebbe dovuto protestare”.

La défaillance papiniana viene confermata da Marinetti in una lettera subito inviata al futurista Cangiullo: “quanto a Papini, non ha ni le physique, ni le voix du role”. Miope, con una voce acido-flebile-monotona, egli lesse male, molte male il suo discorso”. Lo stesso Papini, quasi a scusarsi, dirà poi che s’è trattato d’un “discorsaccio sgangherato e improvvisato” (…) in fretta e furia in poche ore, proprio all’ultimo momento, un po’ a casa mia, un altro po’ in un caffè di Firenze, un’altra parte in casa di Palazzeschi e la fine in un caffè di Roma”.

Soffici confesserà di aver provato di fronte al pubblico urlante l’irrefrenabile desiderio di diventare Gargantua, avanzarsi alla ribalta e “allagar tutta quella carne in delirio con una lunga, lunga pisciata”. Dopo il teatro, i futuristi, ebbri per quella prima serata romana, se ne vanno in giro di notte, raggiungono il Vittoriano, ridono e schiamazzano su quel monumento imponente.

Il 9 marzo alle ore 21, i futuristi calcano nuovamente la scena del Costanzi di fronte a un pubblico numeroso. C’è grande ressa ed eccitazione, le cronache parlano di quattromila persone. In programma: l’esecuzione della sinfonia di Petrella, Inno alla vita, letture di poesie di Buzzi, Aldo Palazzeschi, Folgore “parole in libertà” di Marinetti, una conferenza sulla pittura di Boccioni e, per finire, un “consiglio ai romani” del capo del futurismo. Solo che lo spettacolo degenera in un lancio di frutta e ortaggi, tanto da costringere i musicisti ad abbandonare la fossa d’orchestra; una grossa mela centra un violino in pieno e lo sfonda. Marinetti non si abbatte e continua a recitare, coperto da urla e invettive. Allora provoca: “Ora vi accontento; ascoltate La vispa Teresa, poesia adatta al pubblico romano”. A quelle parole in platea e sui palchi si scatena la tempesta, mentre il poeta grida. “È canaglia prezzolata dalla bestialità dorata quella che è venuta a far baccano!”. Parte un lancio d’oggetti anche dalla barcaccia del circolo degli scacchi, vicina al palcoscenico, dove si intravedono il principe Boncompagni, il principe Altieri e il marchese Cappelli.

“Buffone!”, gridano gli aristocratici. “Figli dei preti!”, replica Marinetti.

A quel punto il poeta abbandona la scena, ma si imbatte nell’Altieri, a cui rivolge parole di fuoco; segue una scarica di pugni e l’intervento delle forze dell’ordine. Sembrerebbe finita lì e invece Boccioni, messosi sulle tracce dello stesso principe, all’angolo di via Torino con via Nazionale, lo colpisce con una bastonata. Altra rissa, sedata dall’intervento di una guardia che trascina Boccioni in commissariato. Marinetti intanto ha raggiunto il caffè Aragno, nella confusione dei disordini ha perso il cappello e una scarpa. A mezzanotte, tra il fumo delle sigarette nella terza saletta cala il sipario sulla “battaglia di Roma”.

20 Febbraio 1909. Il Futurismo irrompe sulla scena dell’Europa

Il 20 febbraio 1909 è una giornata fredda e lievemente piovosa. Un uomo poco più che trentenne si aggira tra i giganteschi carri colmi di verdure del mercato di Parigi. È impaziente, ha atteso con fervore l’apertura dei chioschi di giornale per potere acquistare una copia di “Le Figaro” che ha appena pubblicato in prima pagina uno scritto esplosivo intitolato Le Futurisme. Un autentico fuoco incrociato contro ogni conformismo. In calce una firma che diventerà leggenda F.T. Marinetti. La redazione del quotidiano ha ritenuto opportuno far precedere il testo da una presa di distanza nei confronti del “giovane poeta italiano e francese dal talento notevole e focoso”, lasciandogli tutta la responsabilità “delle sue idee singolarmente audaci e d’una violenza spesso eccessiva per delle cose eminentemente rispettabili”. Quello che sembrava solo uno scritto ad alto tasso di provocazione, segnerà l’inizio dell’avventura di una delle più dirompenti avanguardie artistiche del Novecento.

Il proclama, nelle intenzioni di Marinetti, serve ad innescare la miccia per fare esplodere i conformismi, il culto del passato e la tirannia delle accademie che opprimono la letteratura contemporanea. Ma il Futurismo andrà oltre l’arte, diventerà azione nella società.

In quel febbraio del 1909 sono ancora in pochi a comprendere l’irruenza sibillina di quel grido rivoluzionario. “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestato su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture”.

La nascita del Futurismo viene narrata in chiave mitico-allegorica con una tecnica di comunicazione innovativa. Il salotto orientale è quello del poeta a Milano, arredato con i mobili della casa paterna di Alessandria d’Egitto, dov’è nato il 22 dicembre 1876. Il bivacco di giovani ha un duplice significato autobiografico e simbolico: è una specie di veglia funebre attorno al cadavere del passato culturale da cui l’autore intende sganciarsi, rifiutando una buona volta quella concezione dell’arte come attività separata dal flusso della vita. Leggiamo:

“Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

 

Ernst Jünger

Ernst Jünger (29/03/1895–17/02/1998)

«Dobbiamo riconoscere che siamo nati in una plaga di ghiaccio e di fuoco. Il passato è tale che non si può mantenere legami con esso, e la realtà in divenire è tale non ci si può preparare ad essa. Questa plaga presuppone in chi vi dimora, come atteggiamento, il massimo grado di scetticismo pronto alla guerra. Non è concesso trovarsi in quelle parti del fronte che sono da difendere; occorre essere là dove si attacca. Per disporre delle riserve sufficienti, occorre essere consapevoli che sono riserve invisibili, al riparo, più sicure che se fossero protette da una volta blindata. […]

È possibile possedere una fede senza dogma, un mondo senza dèi, un sapere senza massime, una patria che non corra il rischio di essere occupata da alcuna potenza mondiale? Sono domande che impongono all’individuo di verificare il livello di qualità del proprio armamento. Non c’è carenza di militi ignoti; più importante è il regno ignoto, sulla cui esistenza non sono necessarie informazioni»

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