REVOLVER

spari nella notte del conformismo

Dalla parte di John Fante

 

 

 

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di “io plurali”, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente de-siderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi”.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.

Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

La “battaglia di Roma” dei futuristi al teatro Costanzi

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Il futurismo “conquista” Roma nel 1913, riuscendo a fare breccia nell’ambiente della capitale con le serate al Teatro Costanzi, l’attuale teatro dell’Opera; ma il terreno è stato preparato negli anni precedenti, grazie alla presenza di un gruppo di artisti attrattati dall’orbita di Marinetti, il quale aveva contatti con l’ambiente da molto tempo.

Marinetti prima delle serate al Costanzi, non ha ancora organizzato manifestazioni eclatanti, però ha dedicato alla capitale la potente invettiva: Contro Roma passatista, in cui la città, con Venezia e Firenze veniva presa e definita una delle “tre piaghe purulente della nostra penisola”. Accusa infamante, nata dalla considerazione che, in assenza di una moderna struttura economica, la città vivesse da parassita sulla cosiddetta industria dei forestieri, il turismo. Del resto, la Roma clericale, sede del Vaticano, da cui si sprigiona il potere spirituale della Chiesa e la Roma di Montecitorio, crocevia di traffici e intrighi politici, fanno da sfondo al poema romanzo in versi liberi L’aeroplano del Papa (1912), dove Marinetti, spinto da irrefrenabile fantasia e altrettanta sfrontatezza, immagina addirittura di compiere un volo rocambolesco per rapire il Papa.

La “battaglia di Roma”

La mattina di del 21 febbraio 1913, i lettori del quotidiano romano Il Messaggero, leggono un annuncio di una manifestazione culturale e mondana che si terrà quel giorno, alle cinque del pomeriggio, prima matinée interamente dedicata al futurismo al Teatro Costanzi.

Marinetti illustrerà l’esposizione di quadri di Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo e Soffici, inaugurata nel foyer; leggerà i versi di alcuni poeti futuristi e infine l’orchestra del teatro eseguirà, sotto la direzione dell’autore, un pezzo sinfonico del maestro futurista Francesco Balilla Pratella. Il capo del movimento è riuscito a ottenere la disponibilità dei locali di via Nazionale grazie all’amica Emma Carelli, ex cantante e ora direttrice artistica del teatro, dove il marito Walter Mocchi, amico di Marinetti, è diventato agente teatrale e ha organizzato lo spettacolo.

Invece, dell’esposizione, si è occupato Peppino Giosi, ex coloraio di via del Babuino, che nei primi anni del secolo faceva credito a Severini e Boccioni, fornendo gratuitamente tele e colori. Durante il “five-o’-clock tea” Marinetti, “parlatore simpatico quando non posa a nazionalista mangiapopoli”, viene ascoltato da una sala gremita, dicono le cronache, di “gente molto per bene” e dunque il dissenso resta limitato a qualche grida di protesta. Molto diverse sono le reazioni del pubblico all’ingresso di Papini – nuova recluta del Futurismo  assieme a Soffici – che, nel presentarsi col volto quasi nascosto da una folta capigliatura, legge il suo Discorso contro Roma con molto impaccio. Le sue parole in mezzo a quella compagnia di facinorosi – nota Fausto Maria Martini su “La Tribuna” – sono una stonatura, anche perché l’occhialuto scrittore fiorentino ha una “voce di gattina bastonata”, vorrebbe esprimere parole audaci, oscenità, ma le dice timidamente, e se ne sta lì in equilibrio instabile sulle lunghe gambe. Insomma, rappresenta “un numero che un impresario di troupe avrebbe dovuto protestare”.

La défaillance papiniana viene confermata da Marinetti in una lettera subito inviata al futurista Cangiullo: “quanto a Papini, non ha ni le physique, ni le voix du role”. Miope, con una voce acido-flebile-monotona, egli lesse male, molte male il suo discorso”. Lo stesso Papini, quasi a scusarsi, dirà poi che s’è trattato d’un “discorsaccio sgangherato e improvvisato” (…) in fretta e furia in poche ore, proprio all’ultimo momento, un po’ a casa mia, un altro po’ in un caffè di Firenze, un’altra parte in casa di Palazzeschi e la fine in un caffè di Roma”.

Soffici confesserà di aver provato di fronte al pubblico urlante l’irrefrenabile desiderio di diventare Gargantua, avanzarsi alla ribalta e “allagar tutta quella carne in delirio con una lunga, lunga pisciata”. Dopo il teatro, i futuristi, ebbri per quella prima serata romana, se ne vanno in giro di notte, raggiungono il Vittoriano, ridono e schiamazzano su quel monumento imponente.

Il 9 marzo alle ore 21, i futuristi calcano nuovamente la scena del Costanzi di fronte a un pubblico numeroso. C’è grande ressa ed eccitazione, le cronache parlano di quattromila persone. In programma: l’esecuzione della sinfonia di Petrella, Inno alla vita, letture di poesie di Buzzi, Aldo Palazzeschi, Folgore “parole in libertà” di Marinetti, una conferenza sulla pittura di Boccioni e, per finire, un “consiglio ai romani” del capo del futurismo. Solo che lo spettacolo degenera in un lancio di frutta e ortaggi, tanto da costringere i musicisti ad abbandonare la fossa d’orchestra; una grossa mela centra un violino in pieno e lo sfonda. Marinetti non si abbatte e continua a recitare, coperto da urla e invettive. Allora provoca: “Ora vi accontento; ascoltate La vispa Teresa, poesia adatta al pubblico romano”. A quelle parole in platea e sui palchi si scatena la tempesta, mentre il poeta grida. “È canaglia prezzolata dalla bestialità dorata quella che è venuta a far baccano!”. Parte un lancio d’oggetti anche dalla barcaccia del circolo degli scacchi, vicina al palcoscenico, dove si intravedono il principe Boncompagni, il principe Altieri e il marchese Cappelli.

“Buffone!”, gridano gli aristocratici. “Figli dei preti!”, replica Marinetti.

A quel punto il poeta abbandona la scena, ma si imbatte nell’Altieri, a cui rivolge parole di fuoco; segue una scarica di pugni e l’intervento delle forze dell’ordine. Sembrerebbe finita lì e invece Boccioni, messosi sulle tracce dello stesso principe, all’angolo di via Torino con via Nazionale, lo colpisce con una bastonata. Altra rissa, sedata dall’intervento di una guardia che trascina Boccioni in commissariato. Marinetti intanto ha raggiunto il caffè Aragno, nella confusione dei disordini ha perso il cappello e una scarpa. A mezzanotte, tra il fumo delle sigarette nella terza saletta cala il sipario sulla “battaglia di Roma”.

20 Febbraio 1909. Il Futurismo irrompe sulla scena dell’Europa

Il 20 febbraio 1909 è una giornata fredda e lievemente piovosa. Un uomo poco più che trentenne si aggira tra i giganteschi carri colmi di verdure del mercato di Parigi. È impaziente, ha atteso con fervore l’apertura dei chioschi di giornale per potere acquistare una copia di “Le Figaro” che ha appena pubblicato in prima pagina uno scritto esplosivo intitolato Le Futurisme. Un autentico fuoco incrociato contro ogni conformismo. In calce una firma che diventerà leggenda F.T. Marinetti. La redazione del quotidiano ha ritenuto opportuno far precedere il testo da una presa di distanza nei confronti del “giovane poeta italiano e francese dal talento notevole e focoso”, lasciandogli tutta la responsabilità “delle sue idee singolarmente audaci e d’una violenza spesso eccessiva per delle cose eminentemente rispettabili”. Quello che sembrava solo uno scritto ad alto tasso di provocazione, segnerà l’inizio dell’avventura di una delle più dirompenti avanguardie artistiche del Novecento.

Il proclama, nelle intenzioni di Marinetti, serve ad innescare la miccia per fare esplodere i conformismi, il culto del passato e la tirannia delle accademie che opprimono la letteratura contemporanea. Ma il Futurismo andrà oltre l’arte, diventerà azione nella società.

In quel febbraio del 1909 sono ancora in pochi a comprendere l’irruenza sibillina di quel grido rivoluzionario. “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestato su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture”.

La nascita del Futurismo viene narrata in chiave mitico-allegorica con una tecnica di comunicazione innovativa. Il salotto orientale è quello del poeta a Milano, arredato con i mobili della casa paterna di Alessandria d’Egitto, dov’è nato il 22 dicembre 1876. Il bivacco di giovani ha un duplice significato autobiografico e simbolico: è una specie di veglia funebre attorno al cadavere del passato culturale da cui l’autore intende sganciarsi, rifiutando una buona volta quella concezione dell’arte come attività separata dal flusso della vita. Leggiamo:

“Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

 

Ernst Jünger

Ernst Jünger (29/03/1895–17/02/1998)

«Dobbiamo riconoscere che siamo nati in una plaga di ghiaccio e di fuoco. Il passato è tale che non si può mantenere legami con esso, e la realtà in divenire è tale non ci si può preparare ad essa. Questa plaga presuppone in chi vi dimora, come atteggiamento, il massimo grado di scetticismo pronto alla guerra. Non è concesso trovarsi in quelle parti del fronte che sono da difendere; occorre essere là dove si attacca. Per disporre delle riserve sufficienti, occorre essere consapevoli che sono riserve invisibili, al riparo, più sicure che se fossero protette da una volta blindata. […]

È possibile possedere una fede senza dogma, un mondo senza dèi, un sapere senza massime, una patria che non corra il rischio di essere occupata da alcuna potenza mondiale? Sono domande che impongono all’individuo di verificare il livello di qualità del proprio armamento. Non c’è carenza di militi ignoti; più importante è il regno ignoto, sulla cui esistenza non sono necessarie informazioni»

I palestinesi come pedine da sacrificare nella partita politica del Medio Oriente

Nel corso dell’incontro con il primo ministro israeliano Netanyahu, il presidente Donald Trump, ha ribadito la volontà di prendere il controllo del territorio di Gaza, rimuovere le macerie e organizzare il trasferimento della popolazione palestinese in altri territori. La striscia di Gaza, nelle intenzioni del presidente americano, andrebbe ricostruita trasformata in una specie di area urbanistica rinnovata, una zona speciale nel segno della prosperità.

Ovviamente questa idea dal sapore umanitario, è senza giri di parole un piano di esilio forzato di un’intera popolazione verso non si sa dove, dato che come era ovvio, i paesi arabi non hanno mostrato disponibilità. Un progetto del genere poteva trovare il consenso solo negli ambienti messianici e fanatici della politica e della società israeliana.

Negli Stati Uniti, diverse organizzazioni ebraiche e politici hanno criticato duramente la proposta per Gaza, definendola irresponsabile e scollegata dalla realtà. Altre voci dissidenti da tutto il mondo si sono espresse in negativo. Un’indignazione ancora debole rispetto alla determinazione di chi invece continua a soffiare sul fuoco del Medio Oriente. Provare disgusto è il minimo, ma non basta per un’azione politica di dissuasione davvero efficace.

Dietro la proposta americana c’è la necessità per gli Stati Uniti di blindare il controllo delle aree strategiche, e Gaza, affacciata sul Mediterraneo, evita a una forza nemica di minacciare il Canale di Suez e Israele. Inoltre è ripresa da parte di Washington la pressione verso l’Arabia Saudita per normalizzare i rapporti diplomatici con lo Stato Israele e mantenere un atteggiamento ostile nei confronti dell’Iran, l’altro importante competitore mediorientale.

Si sta giocando una partita politica per ridefinire gli equilibri di potere nell’area, marginalizzando la questione palestinese e allo stesso tempo si rafforza la posizione del governo israeliano deciso a fare il bello e il cattivo tempo, continuando a violare ogni regola internazionale, con l’accondiscendenza e la complicità delle nazioni che avrebbero tutto il potere per bloccare la politica arrogante del governo di Tel Aviv. Prepotenze, distruzione di villaggi, deportazioni di popolazione, occupazione e smantellamento sistematico dei territori assegnati ai palestinesi, vanno avanti dal 1948 con una determinazione spietata.

L’attacco militare di Hamas del 7 ottobre 2023 ha offerto la scusa perfetta al governo israeliano e ai nazionalisti, per liquidare la questione palestinese, già compromessa e tradita da anni di occupazione illegale e tribalismi interni alla società araba.

A che punto è la notte?

La situazione è più tranquilla ma allo stesso tempo drammatica anche nella Cisgiordania, con un territorio spezzettato da colonie ebraiche illegali e zone di presidio militare. Lo stato palestinese semmai si dovesse formare a queste condizioni, si troverebbe sopra un territorio sfrangiato, dove sarà complicato esercitare un minimo di sovranità.

E l’Europa? Assente, indolente e arrendevole, erosa dai suoi stupidi sensi di colpa, impegnata più a sprecare carta in appelli e dichiarazioni piene di sdegno che non sortiscono alcun effetto. Più grave è l’atteggiamento remissivo dell’Italia che dovrebbe recitare un ruolo più incisivo nel Mediterraneo, invece di limitarsi ad accodarsi alle scelte del più forte e in questo caso più prepotente. I palestinesi esistono e soffrono come popolo e sono diventati la pedina da sacrificare in questo gioco politico e diplomatico coperto di sangue.

Semplicemente Drieu La Rochelle

 

Pronunci il nome e sai di toccare un nervo scoperto. Pierre Drieu la Rochelle; suona così bene, peccato che una superficialità diffusa lo abbia liquidato con un epitaffio: il fascista morto suicida.

Ai paranoici di chi è sempre in cerca di eretici da fustigare e di eroi democratici da santificare, si consiglia di sbirciare il catalogo di Gallimard. Ci sono le opere complete nella Bibliothèque de la Pléiade, mai comparse nella versione italiana Einaudi-Gallimard, e poi romanzi, racconti, poesie, saggi.

Insomma, neanche una virgola della produzione di questo normanno è stata trascurata. Nel 1963 il regista Louis Malle lo consegna all’olimpo degli immortali girando il magistrale “Le feu follet”, tratto dal capolavoro di La Rochelle, in Italia disponibile con il titolo “Fuoco Fatuo”. Tuttavia, è opportuno evitare di trasformare questo autore in oggetto per tifoserie letterarie.

Pierre Drieu la Rochelle, nato nel 1893 a Parigi in una famiglia borghese e nazionalista di antica fede napoleonica, è uno dei figli migliori della generazione perduta. È vissuto tra le due guerre: è stato ferito nella prima e si è tolto la vita sul finire della seconda, per l’esattezza il 15 marzo 1945, dopo aver ingerito una dose letale di Fenobarbital.

Tutto ciò che lo riguarda, come letterato e come uomo, è accaduto durante quella pace “fatua” andata in scena a Parigi tra le due guerre. Amico di Louis Aragon e André Malraux, dei dadaisti e dei surrealisti, dandy delle serate alla moda, marito difficile, amante di donne belle e ricche, Drieu in fondo è passato nel secolo breve senza legarsi ad alcuno, fedele alla sua spietata coerenza.

Coerenza nello stile, innanzitutto. Nei suoi romanzi – tra i più importanti si ricordino “Gilles”, “I Cani di paglia”, “Le memorie di Dirk Raspe” “Strano viaggio”, la “Commedia di Charleroi” e il già menzionato capolavoro, Fuoco fatuo – non si sa bene se per indole o per scelta, egli non sperimenta. Niente a che vedere con un altro irrequieto, Céline: il francese è per lui una bandiera di continuità con la storia e con il passato della patria adorata, servita stando dalla parte sbagliata perché in fondo quella giusta non c’è. Un periodare breve e schietto, punteggiatura immacolata, idioma pulito, intelligibile.

Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Nelle scorribande notturne questo biondo alto, elegante e attraente, aveva scelto di vivere e di morire per il suo paese e per l’Europa intera. Credeva che soltanto un “romanticismo fascista” avrebbe potuto arginare la mentalità americana in cui, veggente involontario, vedeva profilarsi l’imperialismo e la fine della civiltà del vecchio continente.

Quindi, dove rifugiarsi? In un meditato nichilismo, in un anarchismo individualista che lo pone all’avanguardia – lui, che era conservatore – nella letteratura e nel pensiero a livello internazionale. Spietatamente moderno, con La Rochelle si realizza l’identità tra arte e vita.

Divagazione tra le nuvole di fumo

lo scrittore milanese Andrea G. Pinketts con l’inseparabile sigaro toscano

 

Quando Sir Walter Raleigh, portò il tabacco dall’America all’Inghilterra nel XVI secolo, fu come aprire la porta di un passaggio segreto che conduceva in un raffinato territorio di piaceri terreni e vita indipendente. Ma senza saperlo, scatenava la lotta interiore ed esteriore prodotta dal fumo che è ancora in corso, tra il dire “sì” e il dire “no”. Il fumo è ozio. Privo di qualsiasi funzione pratica e per questo odiato dagli esaltatori del tempo produttivo. Può, nel silenzio, attivare un’energia creativa oppure stimolarci a praticare la nobile arte della conversazione. La “pipa – scrisse William Thackeray – “estrae saggezza dalle labbra del filosofo e chiude la bocca allo sciocco; produce uno stile di conversazione contemplativo, pensoso, benevolo e non affettato”.

La propaganda antifumo, unita alle tasse punitive sui fumatori con tanto di avvertenze dei ministeri della Salute e brutte immagini che rovinano l’estetica dei pacchetti, descrive bene il carattere dei moralisti della domenica. Esiste una forma di sottile segregazione dei fumatori da parte dei non fumatori che trasforma questi ultimi in orgogliosi predicatori puritani pieni di sé.

Noi ci dilettiamo nelle terre del tabacco mentre loro, desiderano solo un paradiso asettico, carico di redenzione, ordinato e tremendamente tedioso. Tocca a noi amanti del sigaro diventare dei cospiratori per rimettere le idee a posto.

“L’uomo misura il vago tempo con il sigaro” scrisse Jorge Luis Borges

Il sigaro è il risultato di una scelta, non è popolare, né democratico, nasce come prodotto di massa ma poi diventa altro. Il sigaro è aristocratico ma chi lo fuma ha il piacere di stare in mezzo al popolo. Il panegirico sulla cultura del tabacco non ci interessa, noi coltiviamo una libertà beffarda che si prende gioco dei volti corrucciati e degli sguardi disgustati. Più che metafisico, il nostro discorso è “metà fisico” perché c’è un momento in cui avverti la fisicità del sigaro e un altro in cui si verifica l’astrazione.

Il sigaro richiede un profondo rispetto. Esiste un momento in cui lo scegli e contemporaneamente sembra che sia lui a sceglierti. Il sigaro dovrebbe fumarselo solo chi lo merita, ma non possiamo esagerare. Il sigaro è indipendente, la sua cenere, di un colore grigio ferro, è solida come se opponesse una cordiale resistenza alla propria fine. Il sigaro ti consente di osservare il mondo con il giusto distacco, di viverci dentro e di prendere la giusta misura di tutto quello che ti sta intorno. Il sigaro ha un odore che resta, ti consente di allontanarti temporaneamente dal mondo restandovi saldamente, ti permette di uscire dalla scena che poco prima avevi allestito.

Il sigaro ti crea un involucro di nebbia, di profumi e di aromi molto personale. Sviluppa un inedito pathos della distanza e tiene lontani i salutisti molesti. Prometeo ha donato il fuoco agli uomini sfidando gli Dèi. Le vestali custodivano a Roma il fuoco sacro nel Tempio di Vesta. Noi sacerdoti del sigaro celebriamo una liturgia gaudente con una precisa ritualità di gusto e tatto.

 

Pensieri e parole sull’Occidente

 

Occidente. Mito di fondazione, un riferimento che parte da lontano quando l’Europa era ancora silenziosa e non cominciava a muoversi nel territorio suggestivo della Storia. Erodoto racconta che gli spartani chiamati in soccorso dagli Ioni minacciati dal re persiano Ciro, inviarono al Gran Re un messaggero per intimare: “Che della terra greca nessuna città egli danneggi, perché essi non lo sopporteranno”. L’imperatore, informatosi su chi fossero gli interlocutori rispose di non temere uomini “che hanno un luogo in mezzo alla città, scelto appositamente e che in esso si ritrovano”.
Ciro il Grande non capiva il senso e il significato dell’agorà, piazza e centro vitale che nei secoli ha ininterrottamente indentificato il cuore pulsante dell’Occidente. Da qui la vocazione “dinamica” dell’Europa, spazio geografico e di civiltà, con un profilo identitario definito che si rinnova ma che non può essere alterato e deformato troppo. Il tempio come struttura architettonica, luogo simbolico di ciò che sta dentro l’Europa e ciò che è estraneo ad essa.
L’Occidente è la civiltà della visione. Oggi esistono molti “occidenti” e quello che chiamiamo “sistema occidentale” è probabilmente la degenerazione dell’Occidente.

Secondo Harold Bloom, l’Occidente è soprattutto un “canone” che collega autori, pensatori, le opere, i classici che fanno la tradizione. Il carattere dominante di questo “canone occidentale” è il suo essere arte della memoria, dignità estetica, esuberanza espressiva, capacità di rigenerarsi e di aprirsi alle possibilità. Il tutto tenendo presente che esiste un confine che definisce la fisionomia di quel territorio chiamato “civiltà occidentale”. È un campo di gioco e trasmissione, non un elenco rassicurante di autori e opere, ma una struttura con una base stabile, capace di mutare in senso dinamico senza alterarsi al punto di sgretolarsi.

Il linguaggio originario dell’Occidente è quello dell’Europa. Coincide con un’identità dinamica e non fossile, una fucina sempre attiva a partire dalla storia di Roma, del Mediterraneo, fino alle remote terre del Nord. L’auspicio è di ritrovare lo spirito autentico dell’Occidente e depurarlo da ogni scoria distruttiva.

Jack Kerouac, il fenomeno “beats” e l’accoglienza in Italia

 

Ezra Pound una volta disse, “Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade”. Negli anni ‘50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: “Nomadi con il sacco sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondizia, tutti prigionieri di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”, ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino”. Un discorso che vale più di un manifesto politico. In queste parole si scorge il tratto caratteristico della beat generation: fenomeno esistenziale e culturale molto vitale, apparso nella giovane America del dopoguerra e trasmesso a un’Europa disincantata.

Jack Kerouac è stato uno dei profeti  di questa generazione, il più controverso e contraddittorio, il più amato e disprezzato. Il migliore, forse il più lucido, nonostante le sue mastodontiche bevute. Tanto per cominciare, come precursore riconosciuto del movimento beat, Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Nato il 12 marzo 1922 a Lowell, nel Massachussets, ha espresso in pieno lo spirito dell’epoca, il senso di ribellione e le contraddizioni di un ambiente giovanile irrequieto. Sebbene non avesse la patente, adorasse il baseball, l’America e sua mamma e fosse sarcastico con i “capelloni”, rappresenterà sempre l’icona di una vita profondamente inquieta e sfrontata. On the road (sulla strada), il suo romanzo più famoso, raccontava in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno scrittore, Sal Paradise, che attraversa gli Stati Uniti con l’autostop.

Il fenomeno beat fu meravigliosamente caotico. In mezzo c’è di tutto, spinte utopiche ed edoniste con un tratto di conservatorismo libertario: Ginsberg, per dire, fondeva l’erotismo di Walt Whitman al nichilismo buddhista; Burroughs era un dadaista lisergico; a Gary Snyder piacevano i canti dei nativi americani, qualcuno “giocava” con il marxismo, quasi tutti adoravano David Thoreau (quello di Walden) e ascoltavano il jazz. E Jack Kerouac? Era un buon cristiano. Cresciuto in una famiglia profondamente cattolica, disprezzava tuttavia quel bigottismo assai diffuso nell’America degli anni Trenta e Quaranta. Che tipo di rivolta è stata quella dei beats? Sicuramente non era interpretabile con le categorie classiche della politica. Quando in un’intervista televisiva chiesero a Kerouac che cosa stesse cercando, lui semplicemente rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. Anche se poi si finiva per cercarlo nei paradisi artificiali, nella libertà sessuale o nel sax di Charlie Parker, la meta ultima del viaggio in stile beat generation era la ricerca del Divino e dell’Assoluto.

Arriviamo

Stiamo lavorando per voi

 

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