spari nella notte del conformismo

Mese: Novembre 2020

La lunga transizione

 

In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.

La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.

Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.

Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.

Il rapporto tra sapere politico e competenza tecnica

 

 

In questi tempi difficili, dove si accende lo scontro tra “esperti”, torna alla ribalta il tema del rapporto tra competenza tecnica e sapere politico. Il problema non può essere descritto con semplificazioni. Mettiamo da parte la dura realtà, il livello rasoterra di buona parte della classe dirigente e riportiamo la discussione nella giusta direzione.
Aristotele, Weber, Schmitt, Pareto e altri pensatori, nelle loro elaborazioni teoriche hanno sempre precisato come la politica abbia il compito di prendere decisioni di carattere generale sugli obiettivi e i valori della comunità. La competenza tecnica è richiesta per questioni particolari, dove è richiesta l’applicazione di un sapere specifico, mentre tempi, modi spettano alla politica che per definizione non può essere imbrigliata in una conoscenza tecnica perché attinge a quello che Max Weber definì il politeismo dei valori.

A partire dal Diciottesimo secolo, con l’accrescersi dei diritti e della rappresentanza degli interessi particolari e con il rapido processo di innovazione e industrializzazione, la politica si è mossa su due livelli: da una parte le decisioni prese dai governanti e dall’altro lo sviluppo di una burocrazia neutrale con il compito di tradurre in pratica l’indirizzo politico. I burocrati, infatti, non scelgono, ma applicano il proprio sapere indipendentemente da quale sia la decisione della politica, non possono e non dovrebbero, anche se a volte lo fanno, oltrepassare quel limite. Come ha spiegato Pareto, la tecnica elimina forse il problema della competenza, ma non quello della decisione a carattere generale e della rappresentanza di interessi.
La politica è il regno della decisione, mentre la burocrazia è il dominio della competenza. Le decisioni generali prese da governo e parlamento vengono tradotte dalla burocrazia in norme di dettaglio che riguardano gli interessi in gioco.

Il politico deve scegliere l’orizzonte della società, indicare la direzione, ordinare valori e preferenze. La tecnica è neutrale, si nutre di dettagli e specializzazioni, la politica pensa alla dimensione più vasta. Tecnici e politici non sono assimilabili, le continue sovrapposizioni dei ruoli, sono causa di decadimento della funzione politica.
L’epistocrazia, il governo dei sapienti, è un’utopia affascinante originata dal “governo dei filosofi” di Platone o nelle visioni della Nuova Atlantide di Francis Bacon. Portare la decisione politica all’interno di una dimensione tecnocratica significa depotenziarla, si riduce il potere di controllo e si rischia di formare classi dirigenti sempre più tentate ad imporre una pedagogia massificante.

Felice Beato, fotografo e avventuriero

Il 2 febbraio 1870 il Japan Weekly Mail di Yokohama pubblicava un curioso annuncio: “Signor F.Beato, “ha il piacere di annunciare al pubblico di Yokohama e ai viaggiatori in visita in Oriente di avere appena completato una bella collezione di album di varie dimensioni, con la descrizione delle scene, degli usi e dei costumi della gente; realizzato dopo aver visitato tutti i luoghi più interessanti del Paese durante un soggiorno di sei anni”. In basso, l’indirizzo dello studio fotografico dove acquistare i souvenir.

Felice Beato era un veneziano con passaporto britannico, un gaudente pieno di talento, il precursore di un’arte che ha cambiato il mondo di vedere il mondo. Nato nel 1832, in Giappone dal 1863, di professione fotoreporter di guerra, uno dei primi al mondo in un’epoca nella quale la tecnica fotografica muoveva i primi passi. Avventuriero, giocatore d’azzardo, Beato è uno dei tanti le cui vite furono segnate dall’epopea bella e dannata dell’espansione coloniale inglese.

Nessuna biografia ufficiale, non ha lasciato diari o corrispondenze che possano aiutarci a cogliere pienamente la sua personalità. Anne Lacoste, curatrice nel 2010 di una mostra fotografica sulle sue opere presso il Getty Museum di Los Angeles ha confermato questo difficoltà, stesso discorso fatto dallo scrittore Sebastian Dobson: “Beato è un soggetto al tempo stesso interessantissimo e frustrante: le fonti primarie scarseggiano”.

La storia del veneziano può essere ricostruita per lo più attraverso la sua attività di fotografo e viaggiatore. Quanto sappiamo di lui è spesso desunto da lettere e citazioni di personaggi che l’hanno conosciuto e ci raccontano qualche aneddoto.

Nella piccola comunità straniera di Yokohama era diventato un personaggio in vista. Amante della compagnia e del buon cibo, racconta il capitano Sydney Henry Jones-Parry che lo aveva conosciuto durante la guerra in Crimea e ritrovato dopo una sosta a Yokohama. Beato dopo averlo insistentemente invitato presso il club che gestiva, gli aveva fatto conoscere degli amici. “Sono stato presentato a un russo come uno che ha trucidato centinaia di suoi connazionali a Sebastopoli e insieme abbiamo concordato che bere buon champagne con Beato fosse meglio che combattere in Crimea”.

Questo è uno dei tanti aneddoti che aiutano a dissipare la nebbia che avvolge la vita del fotografo che sappiamo da ragazzo visse a Corfù e nel 1844 era con la famiglia a Costantinopoli dove c’è stata la prima importante svolta della sua vita. In mezzo all’opulente decadimento dell’Impero Ottomano, Felice Beato aveva conosciuto l’inglese James Robertson, impiegato alla Zecca imperiale turca che si dilettava nella fotografia.  Tra i due si consolida un’amicizia rafforzata dal matrimonio della sorella di Beato con l’inglese. Felice, insieme al fratello Antonio, iniziano come apprendisti nello studio fotografico del cognato che si trovava a Pera, il quartiere fondato dai mercanti genovesi e frequentato dagli occidentali, dove aveva sede il distretto finanziario della capitale.

Negli anni ‘50 dell’Ottocento cominciano una serie di viaggi in Grecia, a Malta e a Gerusalemme. Ormai l’Oriente era tornato a suscitare il fascino per molti europei e se nei decenni passati erano i pittori a descrivere e riprodurre quei luoghi fantastici, adesso con la fotografia i ricchi europei potevano avere un’istantanea di quelle terre senza lasciare il salotto di casa.

La svolta nella carriera di Beato arriverà con il conflitto in Crimea, iniziato nell’ottobre del 1853 che vedeva contrapposta la Turchia sostenuta da Francia e Inghilterra e la Russia imperiale.

Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché vanno presi sul serio

Negli anni Sessanta la parola “accelerazionista” come come riferimento a un gruppo di rivoluzionari che voleva trasformare la mentalità con la quale la società approcciava alla tecnologia. A ispirarli, un romanzo di fantascienza, Lord of Light di Roger Zelazny, pubblicato nel 1967.

Molti anni dopo a riprendere quel termine, sarà Benjamin Noys analizzando le teorie eccentriche di Nick Land, filosofo e animatore del CCRU, Cybernetic Culture Reserach Unit che a partire dal 1995 si riuniva all’Università di Warwick in Inghilterra. Il gruppo informale si occupava soprattutto di intelligenza artificiale e dell’impatto dominante della tecnica sugli individui. I resoconti delle riunioni e delle conferenze del CCRU sembrano usciti da un romanzo: musica elettronica, proiezioni, anfetamine in un clima poco accademico. Quell’esperienza durerà qualche anno tra confronti dialettici e rotture insanabili, ma quelle idee non sono scomparse, hanno trovato un terreno fertile tra i ceti dell’economia digitale e gruppi disparati come nuovi reazionari e utopisti rivoluzionari. 

 

Il Populismo come recupero della dimensione politica

Nel lessico e nell’immaginario politico da qualche anno è ricomparso il populismo. Parola non nuova, fenomeno e sentimento che si manifestano in momenti di forte crisi o di passaggio verso qualcosa di nuovo. Illusione, minaccia, deriva, tentazione autoritaria, sono alcune delle espressioni che ricorrono maggiormente nel discorso pubblico dominante quando si parla di populismo. La descrizione del piccolo diavolo tentatore che stimola i cattivi comportamenti dei ceti popolari, serve alle classi dirigenti per stigmatizzare chi rimprovera loro di aver confiscato il potere utilizzandolo senza freni. Si vorrebbe gettare il populismo nella pattumiera della storia, definirlo come un corpo estraneo per evitare di fare i conti con il sostanziale fallimento della democrazia rappresentativa liberale, ridotta a semplice sequenza procedurale che si adatta per inerzia all’interesse economico-finanziario dominante.

A partire dallo schianto finanziario del 2008–2009, il forte desiderio di contestazione del sistema di rappresentanza è aumentato sempre di più. E quando il popolo ha espresso un parere deviando dal percorso definitivo e gradito dalle classi dirigenti, è iniziato lo stato d’agitazione.

Messa in tutte le salse, la parola populismo perde ogni significato, sfugge alla diagnosi e alla corretta definizione del fenomeno. Coloro che accusano i partiti populisti di genericità o demagogia, sono i primi a comportarsi allo stesso modo perché utilizzano il populismo come una parola passepartout che apre le porte a qualsiasi interpretazione, il più delle volte peggiorativa. Sembra di assistere ad un’attività tesa a scoraggiare ogni teoria del populismo, quindi è più semplice oltraggiarlo che studiare la natura del fenomeno.

Roger Eatwell e Matthew Goodwin nel saggio intitolato “National Populism — The Revolt Against Liberal Democracy, rimproverano questo atteggiamento: “molti di noi hanno troppa fretta nel condannare più che nel riflettere rimanendo aggrappati agli stereotipi che corrispondono al loro punto di vista più che affrontare le rivendicazioni basandosi su prove concrete”.

Il termine populismo per le classi dirigenti è sinonimo di patologia, siccome se ne dà sempre una definizione poco chiara, si ricorre a termini medici come “cura” o “rimedio” per inculcare sempre qualcosa di negativo, suscitare repulsione morale e alzare il muro del recinto dove segregare i cattivi e proteggere i bravi cittadini. Concretamente, si è sviluppato una specie di cordone sanitario che permettesse di separare nelle menti e ai seggi elettorali, i partiti “perbene” e quelli “infrequentabili”. Una tattica “morale” che ha fatto cilecca. Il populismo ha spezzato il recinto e ha costretto gli altri a mettere in discussione molte certezze.

Borderless di Lauren Southern

Lauren Southern è una giornalista canadese e attivista politica dell’ambiente conservatore-identitario.

Lo scorso anno ha realizzato un documentario intitolato Borderless, sul tema scottante dell’immigrazione come forma di sradicamento. Southern ha percorso l’Europa, non ha risparmiato critiche alla gestione del fenomeno da parte delle ong, ha raccontato le incertezze dell’integrazione e delle problematiche riguardanti il governo del fenomeno migratorio.

Qui potete vedere il documentario con i sottotitoli in italiano (se non si attivano cliccate in basso a destra del video)

Buona visione.

Omero, l’Iliade e l’Odissea, il nucleo dell’essenza europea

François Jullien, filosofo e sinologo famoso per gli studi comparatistici sul pensiero europeo e cinese, anni fa dichiarò: “Mi sono sempre più convinto che se cerchiamo le categorie decisive del pensiero europeo, è in Omero che occorre farlo, molto prima di Platone”.

L’Iliade e l’Odissea sono il nucleo della civiltà europea, della nostra letteratura e parte del nostro immaginario. Passano i secoli e le domande esistenziali sull’essere e sul senso della vita sono ancora lì e Omero, offre una prospettiva all’uomo europeo, aiuta a distinguere la nostra civiltà dalle altre. Se vogliamo ritrovare la fonte originaria dell’identità europea, la troviamo nell’Iliade e nell’Odissea.

Siamo confusi e turbati dai cambiamenti provocati dal dominio della tecnica, dalla mutazione degli stili di vita, della religione, vediamo il decadimento e mentre degradiamo verso un mercantilismo senz’anima, Omero è la bussola arcaica che ci consente di orientarci in mezzo al disordine.

Iliade e Odissea esprimono l’originalità del nostro stare nel mondo, il nostro modo di essere uomini e donne, di fronte alla vita e alla morte, in rapporto con la comunità e il destino. Insomma, il contenuto della nostra esistenza. Le storie di questi antenati così lontani e così affini, mostrano un’ideale di vita che agisce sulla parte migliore di tutti i popoli europei: greci, latini, celti, germani, slavi.

Ci dicono tutto su coraggio, speranza, gioia e dolore. L’avventura in un mondo bello e inquietante, il coraggio stoico dinnanzi all’ineluttabile, il fascino di ciò che è nobile e bello, il disprezzo per la bruttezza.

Omero non illustra teorie, mostra esempi concreti, insegna le qualità giuste per essere uomini e donne, dotati di forza d’animo e coraggio. Saggi e attenti, giovani e talvolta impetuosi. Le azioni dei personaggi non sono valutate sulla base di categorie astratte, come di un bene o di un male morale assoluto, ma secondo coordinate come generosità, equità, astuzia, indegnità, abiezione.

Da Omero ricaviamo il rispetto per la sacralità della natura, l’eccellenza come ideale di vita, la bellezza come orizzonte. In un celebre passo dell’Iliade, il poeta descrive la falange achea: “Come siepe stipando ed appoggiando, scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo, guerriero a guerriero”.

Non è la semplice descrizione di una formazione militare, ma l’espressione di quella comunità solidale e organica, in cui ogni individuo può contare sull’altro, dove la diserzione altera quell’unità indissolubile. Non uno sciocco contratto sociale materiale, ma un patto tra uomini liberi che accettano dei doveri in funzione di un ideale più grande, con la tribù, la polis e la falange.

Al centro dei poemi omerici ci sono l’armonia degli uomini con l’ordine cosmico, lo sforzo di ricongiungersi con la propria parte divina, il contare principalmente su stessi e le proprie forze. Immagini potenti, parole di un suono che sono in grado di comprendere solo gli europei di antica tradizione.

Avete già perso

 

È andata a pezzi l’illusione di avere sotto controllo ogni aspetto, compreso il più insignificante, della vostra vita quotidiana. L’ansia e la paura hanno preso il sopravvento di fronte a un dramma collettivo. Non posso biasimarvi tanto, vorrei farlo, ma a cosa serve? Il mondo è sempre lo stesso, si vive, si rischia e si muore, ma in questa parte dell’occidente europeo, fate finta di averlo scoperto solo adesso. Al resto ci ha pensato il circo mediatico e un ceto politico che invece di trasmettere coraggio, ha ceduto alla tensione, insieme alle spettacolari risse tra medici e scienziati che si azzannano in tv invece di stare in laboratorio, tutti promossi a scienziati sociali.

Ha ragione Chantal Delsol: “Siamo svenevoli come tante suore e non più abituati al pericolo. Siamo le prime generazioni nella storia a non aver vissuto la guerra, la miseria o il dispotismo. Educhiamo i nostri figli che nulla è serio e tutto è possibile. Siamo i figli viziati della storia. Ma tutto questo è un sogno. La guerra, la miseria, il dispotismo possono sempre accadere”.

Un dibattito intelligente, libero dalle scorie ideologiche come quella nuova dell’estremismo igienista, in Italia e forse altrove, sembra diventato impossibile. Chi espone dubbi sulle chiusure forzate viene bollato col marchio infamante di “negazionista”, non importa se non sta negando niente e sta dalla parte di quelli che invitano a leggere e interpretare correttamente i dati, a spiegarli, a chiarire la differenza tra malato e positivo asintomatico. Invece no, si alimenta lo scontro farlocco tra allarmisti e negazionisti e chi non sceglie questa falsa contrapposizione resta ai margini.

Il problema del virus è nel comportamento dei singoli, nella curva di diffusione e nella potenza virale, nella stagionalità e in quel fattore fondamentale nella vita di tutti, il caso. Non è una scoperta di oggi, l’avete dimenticato?

Il decantato modello Italia che tanti castelli di chiacchiere aveva costruito, non c’è, non è mai esistito. Ci sono state risposte più o meno efficaci a seconda dei decisori politici locali. Invece di fare tesoro degli errori, proseguiamo sulla stessa strada: scazzi tra governo ed enti locali, regole che cambiano a ritmo costante, in pieno stato di diritto “enigmatico”. Un modello di disordine e improvvisazione con un sistema di test e tracciamento che già è andato in tilt, con il rischio concreto di assaltare gli ospedali al minimo sintomo e tanti saluti a chi soffre di patologie più gravi.

L’ho già scritto: lo stato d’emergenza prepara una trasformazione più vasta. Si sperimentano nuove forme di distacco e si trasferiscono più mezzi di produzione dal mondo delle relazioni fisiche, a quelle mediate dalla tecnologia.

Pensate di continuare con una mentalità passiva? Molti di voi, soprattutto i più garantiti, sognano di rintanarsi in casa in una putrida e alienante comodità. Cosa sognate? La vita asettica, il mito delle perdite zero, l’allucinatoria speranza di evitare gli imprevisti della storia, lo stato etico che tutto sa, nulla sbaglia e tutto dispone. Fatevene una ragione perché con il pericolo si convive tutti i giorni.

Il gesuita che scrisse il primo trattato sul Giappone del XVI secolo

Il 25 luglio 1579 nel porto di Kuchinotsu in Giappone, un uomo sbarca con un seguito di persone, è un gesuita che conosce bene l’Asia, si chiama Alessandro Valignano, è stato inviato in missione da Everardo Mercataro, terzo successore di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

Tre anni dopo, sarà il responsabile di tutta l’attività di evangelizzazione a Est del Capo di Buona Speranza: l’Africa, l’India, Malacca (odierna Malesia), la Cina e il Giappone sono sotto la sua giurisdizione “spirituale”.

Nato a Chieti nel 1539 da una nobile famiglia di origine normanna, destinato a entrare nella Curia romana, si reca a Padova per studiare giurisprudenza e nel 1557, consegue la laurea in utroque jure (ovvero in diritto canonico e diritto civile). Tra Padova e Venezia, conduce per qualche anno una vita spericolata, tanto che il 28 novembre del 1562 viene arrestato proprio a Padova con l’accusa di aver ferito una donna con un coltello. Proclamatosi innocente, resta in carcere per 18 mesi, fino a quando il Quarantia criminal, il tribunale supremo della Repubblica di Venezia, lo condanna all’esilio. Il suo rilascio sarà possibile grazie al risarcimento ricevuto dalla vittima e, soprattutto, per l’intervento del cardinale di Milano, Carlo Borromeo.

Nel corso degli studi presso il Collegio romano scopre gli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, che gli offriranno una chiave di lettura del metodo con cui il Cristianesimo si era diffuso nei primi secoli mediante un adattamento flessibile alle culture preesistenti, greco-romana e siro-giudaica.

Legge affascinato le lettere dall’India e dall’Estremo Oriente di Francesco Saverio, il primo missionario gesuita a mettere piede in Giappone e a quel punto, decide di fare richiesta al superiore generale per andare nelle “Indie orientali”. Passa solo qualche mese e, nel 1573, Mercuriano lo invia in Oriente come Visitatore, cioè suo delegato personale. Passa da Lisbona (le colonie asiatiche sono soggette al Portogallo) e si imbarca il 21 marzo dell’anno successivo per una missione che durerà tutta la vita, fino alla morte a Macao nel 1606.

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