Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.
Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.
Gli esordi
Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.
Il rivoluzionario e il politico intransigente
Ambizioso, nelle prime fasi rivoluzionarie si muove da attivista in posizione marginale. Non è ancora repubblicano, ma moderato fautore d’una monarchia costituzionale. Poi il salto: raggiunta l’età che gli consente di accedere all’assemblea, irrompe sulla tribuna della Convenzione con un discorso d’esordio che lascerà il segno. Il momento è grave: si discute se portare la Re Luigi XVI sotto la ghigliottina. Tra quanti chiedono che il sovrano venga processato e quelli che invocano una punizione senza giudizio, Saint-Just sembra allinearsi ai secondi – con il motto celeberrimo di: “Nessuno può governare innocentemente”. In realtà, leggendo bene il testo dell’intervento, il giovane deputato propone una terza soluzione: il Re va condannato a morte, ma previo processo speciale.
Ci sembra opportuno diffidare delle letture deformanti che nella posterità hanno trasformato Saint-Just in un antesignano del rivoluzionario moderno, cinico e freddo calcolatore. Eppure è evidente come nella sua teoria del tirannicidio si produca uno scatto concettuale decisivo. In sostanza, secondo Saint-Just, il monarca non può essere giudicato come un qualsiasi cittadino per il semplice motivo che “metafisicamente” non è un uomo pari agli altri. In un certo senso Saint Just riconosce la superiorità della sovranità regale e dato che essa si pone al di sopra del contratto sociale, il Re non può essere giudicato secondo la legge ordinaria. La questione non riguarda l’uomo Luigi XVI, ma la funzione dell’istituto monarco che egli incarna e dal quale non può essere distaccato. Con una logica inesorabile, se si abbatte la Monarchia va colpito anche l’uomo che la rappresenta. Una concezione del nemico forse troppo impietosa che causerà grandi tragedie nel corso della storia.
La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni e Saint-Just contribuisce a pavimentarla. Anche attraverso una comunicazione politica che superando i verbosi schemi dell’oratoria tradizionale, inventa una nuova retorica: svelta, nervosa, assertiva, imperniata su frasi brevi, apodittiche, ipnotiche. Saint Just è un supremo produttore di slogan ed anche un “modello di vita” di chi si è convertito a una sorta di intransigenza rivoluzionaria.
A spaventare è meno il suo fanatismo della virtù che la sua concezione della felicità. In contrasto con i decadenti sollazzi dell’Ancien Régime, Saint-Just spiega senza mezzi termini: “Chi ha un’idea orrenda della felicità, la confonde con il piacere”. Difende la proprietà, sogna una società spartana che la redistribuisca tra “piccoli produttori indipendenti, ciascuno dei quali possiede il proprio campo o la propria bottega e vive del frutto del suo lavoro, ad uguale distanza dal bisogno come dal superfluo”. Ha accantonato le velleità letterarie e deciso che cercherà il successo in politica, evitando quella mentalità di piccolo cabotaggio fatta di compromessi a ribasso, alleanze, intrighi e mediocrità. Contro di loro Saint Just si infervora come un legislatore messianico, si batte per nuove istituzioni politiche forti che siano in grado di stabilizzare il processo rivoluzionario e depurarla dalle violente lotte interne. Ormai è un giovane politico che disprezza certi comportamenti e per quanto sia eccentrico, si è formato intorno a Robespierre e alla sua fazione politica. Forse non fu quel macellaio del terrore come lo descrissero i suoi nemici, ma nel famigerato Comitato di Salute pubblica, sarà uno degli intransigenti anche se non risparmierà critiche agli eccessi dei rivoluzionari, l’abuso delle condanne e della ghigliottina. Dirà in seguito: “L’esercizio del terrore ha reso insensibili al delitto, come i liquori forti rendono insensibile il palato”. A disgustarlo non è tanto la violenza, necessaria in una fase politica così concitata, quanto il fatto che tutto quel sangue non ha preservato la comunità rivoluzionaria dal trovare la massima sintesi politica.
Per Saint-Just la Révolution aveva scardinato l’asse della Storia inclinandolo irresistibilmente verso il “Bene”. Senonché in quell’accelerazione, in quella vertigine, la macchina purificatrice del Terrore l’ha deformata fino al punto di colpire gli stessi protagonisti. Però la violenza generalizzata non rappresenta una degenerazione, un deragliamento della locomotiva insurrezionale: è da subito chiamata ad attaccare e a difendersi contro i nemici interni ed esterni. Il citoyen è immediatamente sinonimo di soldato. Allontanandosi dalle cabale parigine, l’ultimo Saint-Just si spende come un matto per ristrutturare e motivare le truppe che alle frontiere faticano a respingere l’assalto delle potenze monarchiche coalizzate. Da missionnaire de la République (tradurre: commissario politico), risolleva il morale dei soldati trascinandoli verso la vittoria. Quella di Fleurus rimarrà incisa nelle memorie. Agli occhi di Saint-Just, del suo ethos militare, la guerra forma una nazione meglio di quello che riesce a fare la politica, con più rapidità e spirito di servizio.
Saint Just ama ferocemente la virtù e brucia la propria giovinezza nella rivoluzione e quando si rende conto del disordine, ne rivendica la purezza fino al sacrificio estremo.
La sua tragedia ci racconta un grande idealismo ma allo stesso tempo non mancano miserie e smarrimenti. Nel grande resa dei conti del Termidoro (19 luglio-17 agosto 1794), che lo annienterà assieme a Robespierre e altri, Saint-Just sale sul patibolo con “siderale distacco” da dandy politico, con eleganza nell’abbigliamento e nell’atteggiamento. Segno di stoicismo e con un’impronta di vanità.