Un nuovo neologismo si è fatto strada nel dibattito politico: “remigrazione”. L’espressione ha cominciato a circolare negli ambienti della destra identitaria tedesca e austriaca, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti politici fino ad entrare nel campo del dibattito politico con una notevole forza d’urto.
L’espressione si riferisce al progetto di rimpatrio forzoso di tutti quegli immigrati irregolari, la cui mancata integrazione è causa di problemi di ordine economico e sociale in molti paesi europei e alla costruzione di meccanismi di incentivo al ritorno nei propri paesi d’origine a chi rifiuta forma di integrazione nella nazione che li ospita.
Il tema suscita reazioni contrastanti, provoca scontri e divide. Sarebbe più facile evitare gli argomenti sgradevoli e pericolosi per il consenso generale, piuttosto che affrontarli, è una forma di moderata viltà. Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riconnettersi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo di politici, intellettuali, opinionisti con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Parole e affermazioni che agiscono soprattutto sull’emozione.

La prima critica generale posta sulla esagerata centralità del tema dell’immigrazione, riguarda la comunicazione. Gran parte dei maître à penser ostili alla destra politica sostiene che l’emergenza sia qualcosa di costruito per favorire le forze populiste europee e che sia in corso una specie di manipolazione mediatica, una circonvenzione del cittadino ignorante e rabbioso.
Tuttavia, la comunicazione è efficace quando c’è una presa nella società, nella sua profondità razionale e sentimentale. La questione dell’immigrazione è presente da parecchi anni, non può essere il risultato di una comunicazione ben congegnata, ma qualcosa di persistente che mette a disagio e preoccupa anche gli stranieri che si sono integrati bene. È qualcosa di profondo.
I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale.
Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito flusso di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.


Gli sbarchi continui nelle zone costiere oppure le lunghe file di immigrati extraeuropei che attraversano i Balcani o altre rotte continentali, descrivono alla perfezione il momento storico: un imponente processo di sradicamento, l’esistenza di un apparato composto da trafficanti e anche organizzazioni “benefiche” che incoraggiano il fenomeno, le classi dirigenti europee ammantate di convinzioni errate e un sentimentalismo che paralizza.
L’immigrazione è qualcosa di naturale, c’è sempre stata – dicono i sostenitori delle porte aperte che dimenticano alcuni fatti: i movimenti di massa dei primi secoli del millennio, furono caratterizzati da enormi spostamenti di popolazioni armate, con l’obiettivo di conquistare il territorio e di affermare una nuova sovranità per acquisizione. Quei movimenti si caratterizzarono per violenza e conflitti, niente bandierine arcobaleno, danze e applausi. Negli ultimi due secoli il fenomeno migratorio ha assunto una dimensione più economica e in molti casi è diventata un’arma “non convenzionale”.

La ricercatrice americana Kelly M. Greenhill, nel giugno 2011, pubblicava in un volume della Cornell University press, uno studio sul fenomeno migratorio contemporaneo, definendolo senza mezzi termini come un’arma non convenzionale, per ottenere un vantaggio politico.
Il titolo è significativo: Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercition and Foreign Policy (Armi di migrazione di massa: sfollamento forzoso, coercizione e politica estera).
Greenhill ha analizzato più di cinquanta esempi di aumento improvviso dei flussi migratori a partire dal 1953, spiegando come questi fenomeni non siano spontanei ma provocati da un attore politico esterno, con lo scopo di provocare determinati effetti nel territorio colpito dall’emergenza. Certi movimenti migratori anomali, possono fornirci indizi utili sull’identità dei possibili mandanti, definiti “challengers” (sfidanti). Puntualmente in alcuni periodi storici, l’immigrazione incontrollata è stata più efficace dell’azione diplomatica o militare, con l’obiettivo di influenzare il comportamento politico del paese bersaglio. A differenza delle armi convenzionali, come la forza militare, una migrazione di massa opportunamente preparata, può ottenere risultati nel paese bersagliato che altrimenti non si potrebbero realizzare con strumenti convenzionali. Sarebbe interessante capire chi sono i “challengers” in questo momento storico e qual è l’obiettivo.

Integrazione, assimilazione: definire ordine e confine

La convivenza quando oltrepassa certi limiti, diventa scontro e decadimento culturale. Popoli nettamente differenti dal punto di vista etnico-culturale, non possono risolvere tutto attraverso un dialogo generico basato su ipotetici valori astratti.
Integrazione e assimilazione sono due concetti differenti, la prima presuppone la conservazione del retaggio culturale di una comunità, la seconda prevede l’abbandono del proprio bagaglio culturale per acquisire quello della comunità che ti ospita. Né l’integrazione né l’assimilazione funzionano quando non si definisce ciò che può essere tollerato e acquisito nello spazio civile europeo e quello che va respinto senza esitazione. Occorre discriminare secondo il significato preciso della parola: discernimento e distinzione.
L’assimilazione è un concetto di natura universalista, ereditato dalla filosofia dell’Illuminismo, contempla un tipo di distacco dalla comunità d’origine e dal suo universo simbolico. Assimilarsi significa praticare l’astrazione dalle proprie origini. Basta assimilare qualche valore occidentale per raggiungere un equilibrio gradevole?
Assimilare significa adottare una cultura e una storia, un modello di relazione tra le persone, i sessi, codici d’abbigliamento, abitudini alimentari, modi di vita e pensiero specifici.
La maggioranza dei migranti è portatrice di valori che contraddicono quelli dei paesi ospitanti. Ovviamente non si può superare quella soglia di tolleranza che porta al capovolgimento e allo stravolgimento della nostra tradizione di comunità. Dobbiamo anche interrogarci su una questione: esistono valori non negoziabili, in Occidente è un profluvio di retorica sui “valori non negoziabili”, ma noi chiediamo agli altri di contrattare i loro, nel nome dell’integrazione.
Possiamo integrare gruppi di individui in misura ridotta, ma non le comunità, soprattutto quando sono in quantità elevata e dentro territori che favoriscono l’emergere di una contro-società basata solo sull’identità e il retaggio etnico. L’assimilazione invece, funziona solo sulla popolazione più globalizzata e con fasce di reddito elevate, lì tutto si può negoziare nel nome del materialismo.
Più in basso ci sono “costi simbolici” oltre la dimensione economica.

Resta sospesa una domanda fondamentale: l’Europa per quale ragione deve diventare un gigantesco campo di accoglienza? Basta osservare il fenomeno esteso delle “no gone zone” nelle grandi città europee dove persino la polizia ha difficoltà ad entrare e nei quartieri la legge etnica sovrasta il diritto civile. Fattori psicologici prima ancora che politici, sottendono un atteggiamento troppo blando. L’Europa è attraversata dal cattivo odore del senso di colpa, soprattutto per il passato coloniale. È un ricatto morale usato da chi pretende una penitenza continua sentendosi un redentore dell’umanità. Un tratto sentimentale dannoso dal quale la politica non sempre riesce a sganciarsi. Il fenomeno migratorio viene per lo più avvertito in chiave emotiva, senza una politica organica in grado di governare efficacemente l’aumento dei flussi. Non a caso si parla sempre di “emergenza” e prevale la logica del provvedimento temporaneo, come a certificare la mancanza di una visione d’insieme del fenomeno.

Società multietnica e sradicamento culturale

Razza ed etnia sono parole esplosive che molti vorrebbero bandire dal discorso pubblico, ma questa “semantofobia” da parte di chi pensa di fare sparire le cose semplicemente abolendo l’uso della parola, si scontra con la realtà. I popoli portano con sé un carico di cultura, sentimenti, indole e valori e dobbiamo convincerci che esiste una soglia alla tolleranza e alla comprensione, un confine che se oltrepassato porta allo scontro. Il danno è per tutte le comunità. Esistono gruppi etnici che rivendicano il diritto “identitario” di essere sé stessi, ma fino a che punto possono esserlo in Europa? Storia, identità, cultura e destino non sono dettagli.
Un mondo composto da popoli omogenei e territoriali è preferibile a uno stato mondiale disordinato. È giusto e doveroso da parte degli europei conservare la propria specificità etno-culturale. Stesso discorso vale per gli altri popoli che devono avere patria e radici. La società multietnica è società dello sradicamento. Paradossalmente crea ghetti e dà forma istituzionale a un razzismo velato.
Inserimento e integrazione rispettano il diritto alla differenza? Farlo senza limiti è impossibile. Siamo in piena contraddizione logica, se il meticciato sarebbe ineluttabile come si difende l’identità delle etnie di chi entra e chi accoglie? Andare in fondo al diritto alla differenza, significa rifiutare la società multirazziale nella sua espressione totale e puntare al reinserimento degli immigrati nelle loro terre d’origine. Fino a che punto è realisticamente possibile?

Le ipocrisie dei buoni e il limite della libertà

Chi può restare sul nostro territorio, a quali condizioni e livelli di assimilazione, tutte questioni da affrontare con urgenza. Si invocano le differenze identitarie come elemento di arricchimento quando si tratta di legittimare l’immigrazione ma, con spregiudicata disinvoltura si definiscono una finzione o addirittura, indice di razzismo, quando ci si appella alla loro difesa per criticare le migrazioni. I sostenitori delle “porte aperte” mescolano con furbizia e abilità, la retorica dei diritti umani e la logica del mercato. L’immigrato errante, come il capitale e le merci, è funzionale sopratutto al capitalismo finanziario. Infatti, le Ong che si limitano al carico e scarico dei migranti a ridosso delle coste libiche sono finanziate soprattutto da filantropi e fondazione e solo in misura ridotta da semplici cittadini. Come quelle folle variopinte che battono le mani nei porti ed espongono i cartelli con la scritta “welcome to refugees”. Gli stessi che ritornano nella quiete domestica, si guardano di traverso con il vicino di casa che salutano a malapena o non si preoccupano dell’anziano in difficoltà a pochi passi da loro. Però è talmente bello mostrare umanità per una massa indistinta e distante.
Il Mediterraneo negli ultimi dieci anni è diventato la zona franca di queste organizzazioni sorrette da un sistema finanziamenti opachi e un circuito clientelare basato su accoglienza, pessima integrazione e sentimentalismo. Un esempio su tutti: i continui scontri tra la Sea Watch e il governo italiano, dimostrano la forza politica e offensiva delle ong.
Le associazioni umanitarie si perdono in discorsi astratti sui diritti umani, evocano la ricchezza delle differenze ma fingono di non vedere come il contatto forzato tra gruppi assai diversi, appiattisca le culture omologando gli stili di vita. Dalla multiculturalità si passa alla monocultura conformista. È normale per ogni uomo preferire la cultura di appartenenza per il solo fatto che ne è l’erede.
La libertà non consiste nel gettare gli uomini in un deserto valoriale, dove tutto è simile e si può stare insieme. Si dovrebbero creare le condizioni di un’integrazione il cui prezzo non sta nell’eliminazione delle differenze, né nel loro rigetto verso lo spazio pubblico, ma si dovrebbe accompagnare alla riconoscenza, con una legge comune, accanto a tradizioni e costumi radicati.
Solo che determinate consuetudini e tradizioni non possono e non devono trovare tolleranza e comprensione nel perimetro della civiltà europea. Sono anni decisivi, è giunto il tempo delle decisioni difficili. Ogni processo storico ha un punto di non-ritorno, scavalcato il quale la reversibilità, ossia la concreta possibilità di individuare alternative, si rovescia in irreversibilità.