spari nella notte del conformismo

Mese: Settembre 2024

Nick Land, l’accelerazionismo e i deliri post umani

Nel 1995 nell’Università di Warwick in Gran Bretagna, un gruppo di ricercatori di varie discipline, si organizzarono al di fuori delle logiche accademiche con il nome di CCRU, acronimo di Cybernetic Culture Research Unit. Filosofi, biologi, letterati impegnati nelle elaborazioni di nuove teorie su capitalismo, società e strutture politiche. I principali promotori furono la filosofa Sadie Plant, poi Mark Fisher e infine il più sulfureo e carismatico di tutti: Nick Land.

Il CCRU in breve tempo pose le basi del movimento conosciuto come “accelerazionism” (accelerazionismo) e della theory fiction. Essi non volevano far crollare il capitalismo, ma volevano spingerlo ai massimi livelli, fino alle estreme conseguenze per mostrare tutte le contraddizioni e immaginare un nuovo inizio. Chi è alla ricerca di un facile sistema politico-filosofico, è fuori strada perché qui il discorso si complica sempre di più. All’interno del CCRU convivevano posizioni diverse e contrastanti sugli esiti dell’accelerazione. Fisher immaginava un’utopia “digital comunista” confidando nella possibilità delle macchine di sostituire progressivamente il lavoro, mentre altri come il controverso Reza Negarestani consideravano la fase oltre il capitalismo come un viaggio sperimentale esoterico ai confini dell’umano. Nick Land parlava apertamente di un momento “meccanico” e disumano della storia.

Turbolento, psichedelico, apocalittico, eterodosso. Nick Land in anticipo sui tempi, ha chiaro fin da subito la prospettiva di una fusione dell’umano con la tecnica e l’intelligenza artificiale, quasi a volere superare la condizione limitante di nevrosi e schizofrenia in cui si dimenano le società consumistiche. La raccolta di articoli scritti da Land tra il 1995 e il 2007, raccolti in un libro dal titolo suggestivo No Future sono un condensato grottesco e apocalittico di Lovecraft, il superomismo di Nietzsche, richiami a film come Blade Runner e molto altro. Tutto scritto con un la tecnica della theory fiction, una fusione tra lo stile analitico-razionale del saggio scientifico e le digressioni filosofiche e letterarie che fanno a pezzi sistemi e concetti che egli ricompone in una scrittura a tratti complicata e destrutturata.

Land parte dal presupposto che gli individui si muovono in un mondo che non conoscono e capiscono e mentre provano a dargli senso e a raccontarlo, non sanno che non potranno mai decifrarlo in profondità. I riferimenti a Deleuze e Guattari entrano nel campo della dipartita della Ragione, indicando nella società del grande capitale il massimo della schizofrenia. Per Land, non c’è via di fuga, bisogna attraversare le terre pericolose del disordine postmoderno. Lui è come il capitano Kurtz del romanzo di Conrad, il cuore di tenebra della civiltà delle macchine. Oltre la schizofrenia c’è solo la fusione con la tecnica, la singolarità biotecnologica, l’inizio del sogno (o incubo?) cybergotico. Land considera il razionalismo un simulacro putrescente che immette sangue infetto, indebolisce fino a fare marcire le idee che propaga.

Abbattendo i residui della vecchia civiltà borghese “finché la terra diventi talmente artificiale che il movimento di deterritorializzazione crei necessariamente da sé stesso una nuova terra”. Capace di creare “la fine del mercato globale e l’arrivo del cyberspazio, insurrezione degli elettromani, diluvio sciamanico nero, ibridazioni polimorfe, riclonazione genetiche macchini che. Il mondo nuovo…loading”. In un delirio lucido in cui “gli scienziati agonizzano e i cybernauti sfrecciano”. Teorie che nei testi Meltdown e Circuiterie superano la dimensione del saggio con espressioni tipo:

“Derive di rifiuti densamente semiotizzati e quasi senzienti si contorcono e appestano l’aria nella calura tropicale di un clima andato a puttane”.

“Le strutture di governo dei centri metropolitani orientali e occidentali si sono consolidate come Complessi Medico-Militari di sorveglianza della popolazione”.

Una visione ricca di anomalie, deliri e di distopie che hanno contagiato la nostra società.

 

Una storia del potere

Nel 2018 il giornalista e storico britannico Simon Heffer, ha scritto un saggio intitolato “Una breve storia del potere”, dove descrive e ricostruisce le dinamiche evolutive del potere politico agganciandole a quattro variabili fondamentali, utilizzate come bussola per orientarsi: territorio, ricchezza, religioni e ideologia. Oltre alla descrizione ricca di dati storici, dall’epoca classica al XXI secolo, Heffer propone una determinata idea del potere che tiene insieme due elementi: il realismo che descrive l’inevitabile conflitto interno ed esterno alle società e il liberalismo, come metodo di limitazione dello stesso potere politico e filosofia della libertà poggiata sull’individuo.

Heffer rifiuta tutte quelle interpretazioni “universaliste” che considerano la storia come un ineluttabile progresso volto a delineare quello che con un’immagine carica d’ironia, il sociologo americano Christopher Lasch chiamava “il paradiso in terra”.

D’altronde la convinzione di potere esportare dei modelli occidentali al resto del mondo, senza considerare i caratteri peculiari degli altri popoli, si è rivelata piena di difetti alla prova dei fatti. La storia non è destinata ad esaurirsi con la vittoria totale delle democrazie. Per quanto riguarda il liberalismo, l’espressione va intesa in senso più ampio e non con riferimento a una specifica dottrina moderna. Heffer assume una posizione di sintesi tra il liberalismo classico del Novecento e le critiche rivolte a questo da due autori come Max Weber e Carl Schmitt.

Il liberalismo classico, infatti, intende limitare ed irreggimentare nel più ampio modo possibile il conflitto per il potere politico imbrigliandolo nella dimensione giuridica, cioè in regole fondamentali e inderogabili da chi detiene il potere e nella contrattazione tra le parti, basata su dialogo e scambio. Su questo punto la storia dimostra il contrario: il conflitto per il potere non può essere espunto dalla dinamica politica, la conflittualità delle idee non si può addomesticare con le formule giuridiche buone per tutti ma solo per un tempo breve e limitato. Heffer appartiene a quella schiera di studiosi che mettono sempre in conto la possibilità dell’avvento di movimenti politici che rompono certi equilibri, nel bene e nel male, così come non è detto che un sistema in apparenza liberale non possa degenerare nel suo contrario.

La politica può produrre, con una certa regolarità, effetti che destabilizzano l’ordine politico. Citando ampiamente il saggio famoso di Edward Gibbon “Declino e Caduta dell’Impero Romano”, dimostra come un sistema di potere possa indebolirsi, decadere e collassare. Questo perché le regole costituzionali, garanzia di libertà personali, e l’organizzazione statuale che a partire dal diciannovesimo secolo ebbero un grande sviluppo, hanno dato prova di non riuscire mai ad imbrigliare completamente la politica, a neutralizzarne alcuni effetti disordinati, così come non sono sempre garanzia di protezione da poteri esterni, tecnocratici, in grado di condizionare l’ordine politico.

I sistemi costituzionali e gli equilibri dello scacchiere geopolitico, sono sempre esposti alla tempesta delle trasformazioni imposte dal politico, dall’insondabile conflittualità in tutte le sue forme più o meno razionali. Heffer nella sua analisi del potere non si conforma totalmente a Schmitt che riconduce tutto allo Stato, ma considera la presenza del politico come qualcosa che trascende questa realtà, qualcosa di necessario che sta dentro e fuori dall’entità statuale, si dipana in molteplici livelli senza risolversi una volta per tutte.

Questo affresco sulla realtà dei fatti intorno al conflitto politico, ci offre molti spunti. Max Weber ormai un secolo fa, ricordava come lo Stato rappresentasse un grande processo di razionalizzazione del potere politico in Occidente che è avvenuto prevalentemente attraverso due vettori: il monopolio legittimo della violenza e il dispiego dei suoi effetti sopra un territorio limitato. Questo percorso si è raffinato con la creazione di una burocrazia centralizzata, un esercito e altri elementi di comando che sopravvivono alle stagioni politiche. Lo Stato come edificio giuridico, va oltre la vita dei suoi vertici politici. Con una analisi ancora più elegante, il grande storico Ernst Kantorowicz riferendosi ai “due corpi del Re” li descriveva come uno fisico, carismatico e l’altro giuridico, impersonale e pubblico.

Nella concezione realista espressa dal libro c’è anche un richiamo implicito al problema della degenerazione delle democrazie in Stati totalitari, secondo la visione espressa da Bertrand de Jouvenel in Del Potere. Storia naturale della sua crescita. L’intellettuale francese mostrava con chiarezza il percorso di accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli Stati totalitari del XX secolo e argomentava efficacemente sul fatto fondamentale per cui la democrazia, quando la penetrazione sociale dello Stato è profonda, non è in grado di fornire alcuna garanzia di tutela delle libertà individuali. Ciò, in particolare, quando tendevano a prevalere quelle correnti di pensiero, legate alla tradizione del diritto positivo, secondo cui tutto il diritto discendeva dall’autorità politica e per cui questa si trovava ad essere allo stesso tempo formalmente vincolata al diritto che solo essa stessa poteva creare. Un sofisma che si presta a forme di dispotismo nella società.

Spostandoci nel campo delle relazioni internazionali, Heffer considera tribunali, regole ed enti sovranazionali come la rappresentazione dell’ordine politico globale, creato dai vincitori in una determinata fase storica. Istituzioni fragili che esprimono dei semplici rapporti di forza tra Stati. Interessanti sono anche le considerazioni relative al rapporto tra politica e religione. Per l’Occidente il percorso di razionalizzazione del potere, ha significato anche secolarizzare le istituzioni pubbliche e passare dal patto-giuramento sacralizzato con Dio al patto tra cittadini come elemento fondamentale alla base del potere spersonalizzato dello Stato.

Il racconto fotografico della Mensur: sfida, sangue e ritualità.

 

La violenza ha una natura multiforme: cambia aspetto, si adatta alla logica e alle modalità del contesto socio politico in cui si sviluppa e agisce, anche laddove sembra essere sparita. La violenza si mostra con dimensioni diverse, grandi e piccole. Dove c’è antitesi, conflitto tra idee e visioni, essa è presente, segue la tensione bipolare. Nell’epoca odierna, dove si tenta nei modi più disparati di edulcorare la negatività, la violenza sembra scomparire nella sua forma tangibile, quella corporea e visibile. Solo che si tratta di un’illusione perché essa viene trasferita sul piano psichico. La violenza può scatenarsi senza freni o avere persino una misura con delle norme che la regolano all’interno di un discorso etico ed estetico.

Bloodline è il titolo del libro fotografico di Alberto Palladino con testi a cura di Chiara Del Fiacco. Descrive l’universo sconosciuto della Mensur, il duello rituale presente in Germania, Austria e altre zone dell’Europa centrale, sviluppatosi storicamente all’interno delle confraternite studentesche. La parola deriva dal latino “mensura” (misura) e indica la distanza tra i duellanti che si posizionano uno di fronte all’altro tenendo alta una spada che a turno viene calata contro l’avversario. Ciascuno degli sfidanti indossa delle protezioni per evitare ferite mortali, ma non le eventuali cicatrici.

La Mensur è molto di più di una sfida, assume un significato rituale, un’azione simbolica dove una comunità si riconosce e si trasmette dei valori improntati sul coraggio e l’onore. La nostra contemporaneità scarseggia per simboli, è solo satura di dati e informazioni privi di qualunque forza simbolica. Nella Mensur, il gesto violento, il colpo di spada, trafigge ogni discorso perbenista di chi è così intimorito e ossessionato dalla propria autoconservazione da rinunciare alla libertà per rinchiudersi in una rassicurante finzione di sicurezza.

Le fotografie di Alberto Palladino sono contraddistinte da un meraviglioso realismo, immagini di gesti singolari, espressioni del volto, segni sulla pelle, la fermezza dei corpi in un’atmosfera circonfusa di bellezza e pericolo, sangue e orgoglio. Sfogliando queste pagine sembra quasi di avvertire il rumore secco della lama delle spade, avvertire il respiro lento dei duellanti.

Un libro che suscita nel lettore emozioni contrapposte, ma questo dipende molto dall’anima interiore di chi sfoglia queste pagine. La Mensur con i suoi riti, i suoi gesti e le cicatrici, è uno spazio liberato dalla sorveglianza di un Potere che cerca di spegnere ogni passione intensa che non possa essere ridotta a becero consumismo.

 

NOTE
il libro è disponibile qui –

http://bloodlinebook.bigcartel.com

documenti dell’autore

https://www.albertopalladinoreporter.com

 

Le avventure lisergiche di Jünger e Hofmann

Una vita lunga un secolo quella di Ernst Jünger, morto il 17 febbraio 1998 all’età di 103 anni. Una vita che il suo biografo, Heimo Schwilk ha così riassunto: “Jünger è stato uomo d’azione e di lettere, scrittore e filosofo, “prussiano” e anarchico, tedesco e ribelle, e in fin dei conti testimone della complessità del Novecento”. Lo scrittore tedesco ha combattuto due guerre mondiali, è stato decorato con la Croce di Ferro Pour le Mérite, ha visto due volte il passaggio della cometa nel 1910 e nel 1986, è stato il testimone di un secolo dove le forze della Tecnica hanno assunto dimensioni titaniche. Jünger ha descritto le figure e le strutture emerse da questo magma incandescente, ha tracciato il profilo dell’anarca e del ribelle e di come essi possono vivere in un’epoca dove il potere è sempre più invasivo. Tuttavia non bastano poche righe per descrivere la complessità del pensiero di questo ribelle metafisico con dallo stile aristocratico, quello che vogliamo raccontarvi è il lato nascosto di Jünger, quello che non ti aspetti e del suo rapporto controverso con le droghe psichedeliche e l’amicizia con Albert Hofmann, lo scienziato svizzero che scoprì casualmente l’Lsd e i suoi effetti.

 

“Gentilissimo signor Hofmann, la ringrazio di cuore per i gentili auguri del 20 marzo, così come per i graditi doni, soprattutto per le droghe”.

Comincia così una cordiale lettera del tedesco datata 4 aprile 1949, dove ringrazia l’amico. Anni dopo, nel 1970, Jünger pubblicherà un resoconto di questo suo lungo rapporto speciale con le sostante stupefacenti: il libro intitolato “Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza”, un testo dalla trama irregolare, un’autobiografia su quella oscura passione che spazia tra ricordi di gioventù, suggestioni psichedeliche e letterarie, un vero trip messo per iscritto.

 

“Irradiazione – è la parola che meglio di altre esprime l’influenza sulla mia persona della figura e dell’opera letteraria di Ernst Jünger. Attraverso l’estensione del suo sguardo, che abbraccia in maniera stereoscopica le superfici e le profondità delle cose, il mondo aveva acquistato ai miei occhi un nuovo diafano splendore”. Queste parole scritte da Albert Hofmann testimoniano la forza e il legame tra due uomini straordinari. Il chimico svizzero, vissuto anche lui più di 100 anni, è un personaggio fondamentare per la storia psichedelica.

Nel 1938, Hofmann lavorava sugli alcaloidi, per cercare una sostanza che potesse agire sulla circolazione del sangue. Dopo diversi tentativi, sintetizzò la dietilammide dell’acido lisergico (Lsd-25), ma l’ambiente della chimica non trovò la cosa molto interessante.

Qualche anno dopo, siamo nel 1943, Hofmann tornò a lavorare su quel composto: il 16 aprile, durante un processo di purificazione, urtò un contenitore bagnandosi una mano con l’Lsd. Poco dopo si accorse di essere in uno stato mentale di irrequietezza, con emozioni piacevoli, potenti e una visione complessivamente alterata. Hofmann capì che aveva scoperto qualcosa di importante e cominciò subito a fare degli esperimenti su stesso. Il 19 aprile prese una dose della sostanza di proposito e successivamente, convintosi di avere esaurito l’effetto, tornò a casa in bicicletta. Nel corso del tragitto si accorse che lo spazio interno a lui era deformato, cose e persone assumevano un tratto minaccioso e il suo umore divenne cupo. Il giorno dopo, al contrario, avvertì un effetto di carica positiva. Quella sostanza funzionava ma andava analizzata bene e trattata con estrema accortezza. Da quel momento Hofmann cercò di esaminare e scomporre tutto quello che poteva dall’Lsd, ma dovette riconoscere che era decisamente poco addomesticabile, perché come tutti gli allucinogeni agisce in base all’umore del consumatore. Definiva quella sostanza, “il mio bambino difficile” e nel 1979 uscì il suo libro con quel titolo. L’Lsd poteva dare grandi gioie, ma anche visioni spaventose e incubi e provocare il famigerato bad trip.

Per l’Europa è tempo di maturità geopolitica

La Storia non è finita e non ci sono motivi per pensare il contrario, come i tanti ingenui che negli anni Novanta celebravano la sua dipartita convinti che tutto fosse piatto e diluito nel contenitore delle democrazie liberali. Fortunatamente ci hanno pensato gli eventi a bruciare la convinzione che ogni tradizione, passione e retaggio identitario si potessero disperdere e mescolare in asettiche pratiche di governo.

La Storia fa irruzione anche nelle terre d’Europa, quelle che più si sono immaginate pacificate e post storiche. Mentre a Est sorgono nuove potenze, mentre gli imperi, definizione imperfetta ma efficace, si danno battaglia per un lembo di terra, una disputa linguistica, per una idea diversa di Dio, mentre antiche contese regionali, cartografiche, diventano motivo di mobilitazione, cosa succede qui da noi? In Europa sono ancora troppi, soprattutto tra le élites al governo, a credere nell’abbaglio post-storicista. Il sentimento della fine sembra profondamente radicato nella mentalità diffusa dei popoli europei contemporanei, come nelle loro istituzioni, depurate a sola funzione amministrativa, gestionale e giurisprudenziale.

Osservando il quadro attuale lo sconforto prende il sopravvento: mancano istituzioni capaci di assolvere una funzione mitopoietica. Nessuna spinta alla mobilitazione. La grandezza di un popolo è sempre determinata dalla misura delle sue passioni, più che dall’oculatezza nella gestione dei propri interessi, mansione in cui si esaurisce la funzione degli ordinamenti europei e sempre più spesso dei governi nazionali, ridotti a liste di scritture contabili.

Mark Fisher parla di questa condizione definendola “realismo capitalista”, un sistema paradigmatico di saturazione dell’immaginazione che ha imposto con successo una specie di “ontologia imprenditoriale” per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come azienda.

La Storia bussa alle porte del Vecchio Continente e qualcuno si ostina a frenarla con il rischio di perdere il controllo della realtà. Se prendiamo spunto da Guy Debord l’élite ha perso il senso del tempo, come scrisse negli anni sessanta: “la storia che si aggira per la società moderna come uno spettro, che si trova nella pseudo storia a tutti i livelli di consenso della vita”. Frase sibillina ma non troppo per chi sa intendere.

Chi afferma che non ci sono alternative, impone una mentalità che prepara il terreno per la rassegnazione verso l’impossibilità di cambiare, di invertire il senso e la rotta.

Le grandi potenze concorrono inseguendo il proprio destino manifesto, un’idea di mondo incarnata che non smettono di comunicare a sé e agli altri, mobilitando le proprie energie. Gli Europei vivono in una condizione di senescenza e di “spossatezza” immaginativa, poco disposti ai sacrifici per grandi obiettivi. Gli Europei non vogliono occuparsi del costo della potenza che implica l’intervento costante negli scenari di crisi, la partecipazione attiva nei maggiori conflitti internazionali e un ruolo più attivo nelle risoluzioni diplomatiche.

Meglio delegare agli americani e poi mugugnare se questi ultimi, non hanno più intenzione di fare sempre il lavoro sporco per noi. Sigmund Freud ci ha insegnato che il rimosso non torna mai nella forma originaria. Eppure nuove energie puntano ad emergere, un magma incandescente pronto ad emergere in superficie.

Lentamente la vecchia Europa economicista, post-storica e geopoliticamente inerte si sta dissolvendo ma la nuova stenta a nascere. La transizione tra questi due momenti sarà lunga, dolorosa e non permette di indovinarne i contorni. Quando vedrà la luce, avrà fatto i conti con sé stessa anche se l’esito non è scontato. È arrivato il tempo di liberarsi dai vincoli psicologici e varcare la linea d’ombra della maturità geopolitica.

L’Italia deve ritornare nella Storia

L’attuale congiuntura geopolitica apre delle finestre di opportunità, ma per coglierle dobbiamo mutare il nostro rapporto con il mondo e smetterla di pensarci destinati all’eteronomia. Le intemperie del presente ci obbligano a pensare diversamente, cullati da troppi decenni sulla certezza che a garantire la nostra sicurezza sarebbe stato qualcun altro, specialmente l’alleato americano, adesso che la superpotenza si sta lentamente disimpegnando in certe aree, tocca a noi cambiare mentalità. Essere “amici di tutti e nemici di nessuno”, ci condanna a una rassicurante irrilevanza. L’Italia produce ancora un pensiero tattico-strategico?

La domanda non riguarda qualcosa di astratto. Occorre interrogarsi su come la nazione si muove nell’arena internazionale, specialmente nel Mediterraneo. La strategia non è un elemento arbitrario, non va creata ex novo, ma è data dalla combinazione di vari fattori che rispondono a una necessità: cosa fare per sopravvivere a partire dall’elemento geografico. L’Italia deve cercare di aumentare la sua profondità difensiva, influenzare di più i territori limitrofi per evitare che altre potenze li utilizzino per attaccarci o più realisticamente, costringerci a muoverci in una determinata direzione. A che punto siamo?

La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovraestesa e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa del dilemma principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.

Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono.

In Germania le difficoltà si avvertono: la rottura traumatica del vincolo con la Russia mette Berlino in una situazione complicata, tra svolte epocali annunciate ma senza quel ritmo veloce che l’epoca impone. La Francia ha perso quote di potere in Africa e probabilmente la Françafrique è più un richiamo romantico all’interno di una grandeur che resiste ma si indebolisce. In estrema sintesi, siamo in quella che si definirebbe una fase di transizione egemonica. Il vecchio sistema è ancora lì e il nuovo ordine fatica a prendere forma.

 

Nel frattempo in Ucraina, in Palestina e nel Mar Rosso sono aperte le ostilità. Time is out of joint, “Il tempo è scardinato”, scrive Shakespeare nell’Amleto e il riferimento è allo scardinamento dei canoni. È proprio questo mutamento a fornire occasioni per l’Italia. Il disimpegno americano ci permetterebbe di proporci come soggetti riconosciuti nel Mediterraneo cui dobbiamo la nostra sopravvivenza. La crisi tedesca potrebbe darci l’opportunità per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità, certe corbellerie sul bilancio e tutti quei dossier che definiscono l’ordine europeo nei palazzi di Bruxelles. Da ultimo, l’indebolimento della Francia ci candida automaticamente a soggetto politico euroafricano perché non avendo un passato coloniale paragonabile a quello di Parigi, potremmo proporci come nazione interlocutrice dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci innanzitutto come hub energetico inaggirabile, regolando i flussi migratori, ma soprattutto, arginando i movimenti russi e cinesi che si attivano in contrasto all’Europa in quel continente. Non c’è motivo per cui Roma non debba approfittare di questa situazione oggettiva. Essere i satelliti dell’impero americano, non significa assumere un atteggiamento remissivo così come non si può seguire la tendenza all’equilibrismo esasperato.

 

Siamo tornati

 

Nel gennaio del 2014, nasceva su internet “Revolver” una rassegna di scritti di politica, costume, episodi e personaggi storici, con la giocosa libertà di potere essere leggero e scanzonato sui temi dell’attualità, fregandosene della semplice cronaca. Il nome era volutamente ambiguo, doveva spargere una lieve inquietudine, mentre noi ci riempivamo di risate. Chiudemmo il blog nel marzo del 2021 e furtivi ci siamo allontanati da ogni campo visivo per dedicarci all’osservazione e alla dissimulazione.

Abbiamo deciso di riprendere il discorso interrotto e di rinnovare i contenuti.

Il Revolver è un’arma e i nostri colpi sono diretti al conformismo di un ceto laico e progressista che si crede più libero e più saggio, ma è pieno di dogmi, ipocrisie, censori e cerimonieri indiscutibili. Nell’epoca della grande sorveglianza, della paura come forma di governo e sotto il fuoco incrociato di una sottocultura fluida con il suo delirante desiderio di smantellare ogni cosa: forme, confini, identità e generi, noi opponiamo uno spirito antico e beffardo.

Paradossale e iperbolico. Guastafeste per tutti e per nessuno. Saper stare al mondo, raccontarlo, scindere l’essenza delle cose che accadono dal superfluo degli accadimenti, con un punto di vista narrativo vivo. Revolver è un agglomerato a-spaziale, esoterico, eterodosso e psicopolitico.

Revolver non è inclusivo, è esclusivo, è indipendente, non è democratico né ecosostenibile, è insostenibile. Odora di sigaro e petrolio. Qui troverete tutto quello che vi serve per cospirare. Un flusso costante di pensieri, parole, azioni e concetti.

Non chiedeteci chi siamo, chiedetevi piuttosto chi non siamo.

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