spari nella notte del conformismo

Mese: Gennaio 2025

Divagazione tra le nuvole di fumo

lo scrittore milanese Andrea G. Pinketts con l’inseparabile sigaro toscano

 

Quando Sir Walter Raleigh, portò il tabacco dall’America all’Inghilterra nel XVI secolo, fu come aprire la porta di un passaggio segreto che conduceva in un raffinato territorio di piaceri terreni e vita indipendente. Ma senza saperlo, scatenava la lotta interiore ed esteriore prodotta dal fumo che è ancora in corso, tra il dire “sì” e il dire “no”. Il fumo è ozio. Privo di qualsiasi funzione pratica e per questo odiato dagli esaltatori del tempo produttivo. Può, nel silenzio, attivare un’energia creativa oppure stimolarci a praticare la nobile arte della conversazione. La “pipa – scrisse William Thackeray – “estrae saggezza dalle labbra del filosofo e chiude la bocca allo sciocco; produce uno stile di conversazione contemplativo, pensoso, benevolo e non affettato”.

La propaganda antifumo, unita alle tasse punitive sui fumatori con tanto di avvertenze dei ministeri della Salute e brutte immagini che rovinano l’estetica dei pacchetti, descrive bene il carattere dei moralisti della domenica. Esiste una forma di sottile segregazione dei fumatori da parte dei non fumatori che trasforma questi ultimi in orgogliosi predicatori puritani pieni di sé.

Noi ci dilettiamo nelle terre del tabacco mentre loro, desiderano solo un paradiso asettico, carico di redenzione, ordinato e tremendamente tedioso. Tocca a noi amanti del sigaro diventare dei cospiratori per rimettere le idee a posto.

“L’uomo misura il vago tempo con il sigaro” scrisse Jorge Luis Borges

Il sigaro è il risultato di una scelta, non è popolare, né democratico, nasce come prodotto di massa ma poi diventa altro. Il sigaro è aristocratico ma chi lo fuma ha il piacere di stare in mezzo al popolo. Il panegirico sulla cultura del tabacco non ci interessa, noi coltiviamo una libertà beffarda che si prende gioco dei volti corrucciati e degli sguardi disgustati. Più che metafisico, il nostro discorso è “metà fisico” perché c’è un momento in cui avverti la fisicità del sigaro e un altro in cui si verifica l’astrazione.

Il sigaro richiede un profondo rispetto. Esiste un momento in cui lo scegli e contemporaneamente sembra che sia lui a sceglierti. Il sigaro dovrebbe fumarselo solo chi lo merita, ma non possiamo esagerare. Il sigaro è indipendente, la sua cenere, di un colore grigio ferro, è solida come se opponesse una cordiale resistenza alla propria fine. Il sigaro ti consente di osservare il mondo con il giusto distacco, di viverci dentro e di prendere la giusta misura di tutto quello che ti sta intorno. Il sigaro ha un odore che resta, ti consente di allontanarti temporaneamente dal mondo restandovi saldamente, ti permette di uscire dalla scena che poco prima avevi allestito.

Il sigaro ti crea un involucro di nebbia, di profumi e di aromi molto personale. Sviluppa un inedito pathos della distanza e tiene lontani i salutisti molesti. Prometeo ha donato il fuoco agli uomini sfidando gli Dèi. Le vestali custodivano a Roma il fuoco sacro nel Tempio di Vesta. Noi sacerdoti del sigaro celebriamo una liturgia gaudente con una precisa ritualità di gusto e tatto.

 

Pensieri e parole sull’Occidente

 

Occidente. Mito di fondazione, un riferimento che parte da lontano quando l’Europa era ancora silenziosa e non cominciava a muoversi nel territorio suggestivo della Storia. Erodoto racconta che gli spartani chiamati in soccorso dagli Ioni minacciati dal re persiano Ciro, inviarono al Gran Re un messaggero per intimare: “Che della terra greca nessuna città egli danneggi, perché essi non lo sopporteranno”. L’imperatore, informatosi su chi fossero gli interlocutori rispose di non temere uomini “che hanno un luogo in mezzo alla città, scelto appositamente e che in esso si ritrovano”.
Ciro il Grande non capiva il senso e il significato dell’agorà, piazza e centro vitale che nei secoli ha ininterrottamente indentificato il cuore pulsante dell’Occidente. Da qui la vocazione “dinamica” dell’Europa, spazio geografico e di civiltà, con un profilo identitario definito che si rinnova ma che non può essere alterato e deformato troppo. Il tempio come struttura architettonica, luogo simbolico di ciò che sta dentro l’Europa e ciò che è estraneo ad essa.
L’Occidente è la civiltà della visione. Oggi esistono molti “occidenti” e quello che chiamiamo “sistema occidentale” è probabilmente la degenerazione dell’Occidente.

Secondo Harold Bloom, l’Occidente è soprattutto un “canone” che collega autori, pensatori, le opere, i classici che fanno la tradizione. Il carattere dominante di questo “canone occidentale” è il suo essere arte della memoria, dignità estetica, esuberanza espressiva, capacità di rigenerarsi e di aprirsi alle possibilità. Il tutto tenendo presente che esiste un confine che definisce la fisionomia di quel territorio chiamato “civiltà occidentale”. È un campo di gioco e trasmissione, non un elenco rassicurante di autori e opere, ma una struttura con una base stabile, capace di mutare in senso dinamico senza alterarsi al punto di sgretolarsi.

Il linguaggio originario dell’Occidente è quello dell’Europa. Coincide con un’identità dinamica e non fossile, una fucina sempre attiva a partire dalla storia di Roma, del Mediterraneo, fino alle remote terre del Nord. L’auspicio è di ritrovare lo spirito autentico dell’Occidente e depurarlo da ogni scoria distruttiva.

Jack Kerouac, il fenomeno “beats” e l’accoglienza in Italia

 

Ezra Pound una volta disse, “Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade”. Negli anni ‘50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: “Nomadi con il sacco sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondizia, tutti prigionieri di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”, ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino”. Un discorso che vale più di un manifesto politico. In queste parole si scorge il tratto caratteristico della beat generation: fenomeno esistenziale e culturale molto vitale, apparso nella giovane America del dopoguerra e trasmesso a un’Europa disincantata.

Jack Kerouac è stato uno dei profeti  di questa generazione, il più controverso e contraddittorio, il più amato e disprezzato. Il migliore, forse il più lucido, nonostante le sue mastodontiche bevute. Tanto per cominciare, come precursore riconosciuto del movimento beat, Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Nato il 12 marzo 1922 a Lowell, nel Massachussets, ha espresso in pieno lo spirito dell’epoca, il senso di ribellione e le contraddizioni di un ambiente giovanile irrequieto. Sebbene non avesse la patente, adorasse il baseball, l’America e sua mamma e fosse sarcastico con i “capelloni”, rappresenterà sempre l’icona di una vita profondamente inquieta e sfrontata. On the road (sulla strada), il suo romanzo più famoso, raccontava in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno scrittore, Sal Paradise, che attraversa gli Stati Uniti con l’autostop.

Il fenomeno beat fu meravigliosamente caotico. In mezzo c’è di tutto, spinte utopiche ed edoniste con un tratto di conservatorismo libertario: Ginsberg, per dire, fondeva l’erotismo di Walt Whitman al nichilismo buddhista; Burroughs era un dadaista lisergico; a Gary Snyder piacevano i canti dei nativi americani, qualcuno “giocava” con il marxismo, quasi tutti adoravano David Thoreau (quello di Walden) e ascoltavano il jazz. E Jack Kerouac? Era un buon cristiano. Cresciuto in una famiglia profondamente cattolica, disprezzava tuttavia quel bigottismo assai diffuso nell’America degli anni Trenta e Quaranta. Che tipo di rivolta è stata quella dei beats? Sicuramente non era interpretabile con le categorie classiche della politica. Quando in un’intervista televisiva chiesero a Kerouac che cosa stesse cercando, lui semplicemente rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. Anche se poi si finiva per cercarlo nei paradisi artificiali, nella libertà sessuale o nel sax di Charlie Parker, la meta ultima del viaggio in stile beat generation era la ricerca del Divino e dell’Assoluto.

Arriviamo

Stiamo lavorando per voi

 

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