spari nella notte del conformismo

Mese: Marzo 2025

Gli esordi della cultura psichedelica: una variopinta compagnia

 

Gli apologeti della cultura psichedelica la definiscono “la storica giornata del 1943”. Tutto era cominciato nella severa Svizzera, nei laboratori della Sandoz di Basilea, quando il dottor Albert Hoffman stese il resoconto dell’assunzione involontaria in corpore vili, cioè il suo, di una dosa minima di una sostanza che già aveva sintetizzato anni prima e che per la sua struttura molecolare e le proprietà fisiche aveva denominato “Acido dietilamidico dextro tartrato 25, dove venticinque era il numero di registro in una serie di composti sintetici della Sandoz. “Nel pomeriggio del 16 aprile 1943 fui costretto a interrompere il mio lavoro di laboratorio e a tornare a casa. Ero stato preso da una strana agitazione insieme con una leggera vertigine. Giunto a casa, mi stesi e caddi in una specie di delirio che non era affatto spiacevole e che era caratterizzato da una grande attività della mia immaginazione. Fui invaso da una serie ininterrotta di immagini fantastiche di un’intensità straordinaria, accompagnate da colori caleidoscopici della maggiore vivacità”.

Facciamo un salto fino al 1961. Aldous Huxley e Timothy Leary partecipano al quattordicesimo congresso internazionale di psicologia applicata a Copenhagen. Da qualche anno, sempre il dottor Hoffmann, era riuscito a sintetizzare in laboratorio la psylocibina, l’alcaloide dei funghi allucinogeni. Da anni, in alcuni centri di psichiatrici, si sperimentavano queste sostanze per il trattamento di alcune forme gravi di psicosi e dipendenza da alcol.

Aldous Huxley

Huxley non era uno psichiatra ma un romanziere e saggista che aveva descritto le sue esperienze allucinogeni. Autore di molti libri, come storico aveva investigato sul rapporto tra esperienza mistica, teologia e potere. Due testi particolari, il primo, “L’eminenza grigia”, dove si narrano le vicende di François Leclerc du Tremblay, un aristocratico francese entrato nell’ordine dei Cappuccini con il nome di padre Giuseppe e divenuto celebre come ministro degli esteri e capo del servizio segreto sotto il governo di Richelieu nella Francia del Diciassettesimo secolo. L’altro libro controverso,“I Diavoli di Loudun” ricostruiva la vicenda di una presunta possessione che nel Seicento aveva coinvolto un prete, Padre Urbain Grandier e un intero convento di Orsoline.

«La comunicazione teologica di una visione o anche di un’esperienza mistica spontanea è “grazia gratuita”. Queste cose sono una grazia, esse ci sono date, noi non facciamo nulla perché ci arrivino e sono gratuite, il che significa che non sono sufficienti per la salvazione o l’illuminazione, comunque vogliamo chiamarla. Ma se sono usate in modo giusto, se sono assecondate, se il ricordo di esse è considerato importante e chi le ha vissute lavora secondo le vie che gli stono state indicate, esse possono essere di grande importanza nel cambiare la vita di una persona”. Così Huxley chiudeva il suo discorso al congresso danese, convinto che le esperienze mistiche attingessero a una regione del nostro cervello non in contatto con la realtà quotidiana.

Molto più mondano e pop, fu l’intervento di Leary, professore di Harvard che Richard Nixon ebbe a definire “l’uomo più pericoloso d’America”. Una vita controversa: nel 1965 si becca un’assurda condanna a trent’anni di reclusione per possesso di marijuana, evade nel 1970 con la complicità del gruppo radicale armato dei Weather Underground. Latitante prima ad Algeri, ospite di Elridge Cleaver, capo del cosiddetto governo in esilio delle Black Panther e poi da lì entrato in Svizzera dove sposa una donna ricca. Fuggito dalla terra elvetica, viene arrestato da agenti americani dopo essere atterrato a Kabul, dove un manipolo di giovani in fuga dall’Occidente l’aspettava per festeggiarlo al Siegi’s il bar dove per farsi una canna bastava raccogliere l’hashish rimasto nelle venature consunte dei tavoli di legno.

 

Timothy Leary

 

Timothy Leary da anni si vantava, senza aver provato nulla, dei suoi trattamenti con droghe psichedeliche agli alcolizzati e ai criminali. Erano esperimenti che all’inizio venivano tollerati dall’Università di Harvard e dalla stessa CIA che in quegli anni diffondeva queste sostanze. Leary in un primo momento non aveva un afflato mistico, poi quando la psylocibina e l’LSD vennero inclusi nell’elenco degli stupefacenti, fondò una specie di chiesa denominata League for Spiritual Discovery, solo per utilizzare legalmente a scopo di culto le sostanze psichedeliche che la legislazione statunitense garantiva alla chiesa nativa americana.

Immigrazione, società multietniche e ipocrisie dei “buoni”. Appunti per un futuro di tensioni

Un nuovo neologismo si è fatto strada nel dibattito politico: “remigrazione”. L’espressione ha cominciato a circolare negli ambienti della destra identitaria tedesca e austriaca, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti politici fino ad entrare nel campo del dibattito politico con una notevole forza d’urto.
L’espressione si riferisce al progetto di rimpatrio forzoso di tutti quegli immigrati irregolari, la cui mancata integrazione è causa di problemi di ordine economico e sociale in molti paesi europei e alla costruzione di meccanismi di incentivo al ritorno nei propri paesi d’origine a chi rifiuta forma di integrazione nella nazione che li ospita.
Il tema suscita reazioni contrastanti, provoca scontri e divide. Sarebbe più facile evitare gli argomenti sgradevoli e pericolosi per il consenso generale, piuttosto che affrontarli, è una forma di moderata viltà. Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riconnettersi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo di politici, intellettuali, opinionisti con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Parole e affermazioni che agiscono soprattutto sull’emozione.

La prima critica generale posta sulla esagerata centralità del tema dell’immigrazione, riguarda la comunicazione. Gran parte dei maître à penser ostili alla destra politica sostiene che l’emergenza sia qualcosa di costruito per favorire le forze populiste europee e che sia in corso una specie di manipolazione mediatica, una circonvenzione del cittadino ignorante e rabbioso.
Tuttavia, la comunicazione è efficace quando c’è una presa nella società, nella sua profondità razionale e sentimentale. La questione dell’immigrazione è presente da parecchi anni, non può essere il risultato di una comunicazione ben congegnata, ma qualcosa di persistente che mette a disagio e preoccupa anche gli stranieri che si sono integrati bene. È qualcosa di profondo.
I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale.
Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito flusso di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.

Letture e riletture. Una “sfida nel Kurdistan” di Jean Jacques Langendorf

 

“Epperò non sono mai mancati i selvaggi ebbri della vita, mai gli aristocratici del sogno, sereni e cupi, i guerrieri, i lanzichenecchi e gli avventurieri; in poche parole, non sono mai mancati coloro per i quali il mondo dei datori di lavoro e degli stipendiati, degli affari e del denaro è del tutto indifferente”.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso

 

C’è un libro di Jean Jacques Langendorf, “Una sfida nel Kurdistan”, esemplare di un certo modo di essere e di stare al mondo. Racconta di una giovane spia tedesca in Medio Oriente durante la seconda guerra mondiale, un terreno di manovra in apparenza secondario rispetto al campo di battaglia europeo, dove egli ha la possibilità di giocare la sua partita della vita. Con il passare dei giorni, il protagonista si rende conto che quel a lui interessa, non sono tanto le implicazioni politiche della missione, ma la sensazione di essere artefice del proprio destino e non una semplice pedina di un gioco. Langendorf da storico aveva scritto un perfetto romanzo di avventura, senza aver dovuto provare necessariamente quell’esperienza per raccontarlo. Aveva definito un modo di porsi nei confronti della vita, un antidoto contro quest’ansia di successo, consumo e denaro, dove l’insignificante è portato a livelli esasperati. Testimonia come nelle pieghe del quotidiano si può provare l’inebriante libertà dell’avventuriero.

 

 

In un’intervista del settembre 2022 pubblicata sulla rivista Livr’Arbitres a proposito di questo libro, Langendorf aveva dichiarato:

Romanzi come Una sfida nel Kurdistan, o non se ne fanno più, o gli editori non li vogliono più. Perché la vena si è inaridita?

“La vena si è inaridita perché si è riversata su altro, giallo, fantascienza, romanzo storico, ecc. E poi la fonte si è prosciugata, drenata dallo psicologismo, dall’introspezione, dall’estetismo. Non ci sono più avventurieri politici. In un’epoca sprofondata, si può solo scrivere dello sprofondamento. Ma forse c’è ancora un orafo che lavora nel suo angolo (…)

 

 

Dalla parte di John Fante

 

 

 

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di “io plurali”, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente de-siderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi”.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.

Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén