spari nella notte del conformismo

Autore: Revolver Page 1 of 15

Taxi Driver è la porta di accesso al salone della vendetta

Ha quasi cinquant’anni, ma se li porta bene. Correva l’anno 1976 quando uscì nelle sale cinematografiche. Sul manifesto campeggiava uno slogan rimasto impresso a lettere di fuoco nell’immaginario collettivo: «In ogni strada di ogni città di questo paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno». Di quei nessuno ce n’erano tanti, in fila davanti ai cinema e somigliavano in modo sorprendente all’uomo ritratto sul manifesto del film: un solitario che cammina su un marciapiede di New York, testa leggermente bassa e mani nelle tasche.

Mentre i critici si interrogavano, sanguinoso film di serie B, dramma sociopolitico o mero prodotto hollywoodiano? – il pubblico, specialmente quello più giovane, si era già riconosciuto nel più impresentabile degli antieroi, l’esatto opposto dell’eroe hollywoodiano tradizionale: Travis Bickle, il veterano del Vietnam reinventatosi tassista a New York, la cui improbabile missione è mettere ordine in città. In pochi avrebbero scommesso su quella pellicola costata poco e realizzata da un pugno di trentenni semisconosciuti. De Niro si era preparato duramente. A modo suo: trascorrendo le notti a girarare con un vero taxi. Martin Scorsese era cresciuto nelle stesse strade di De Niro, nella Little Italy.

«Qualche anno prima – ha raccontato il regista italoamericano – avevo letto Memorie dal sottosuolo di Dostoevskji e mi era venuta voglia di farne un film e Taxi Driver era quanto di più vicino a quel libro mi fosse capitato». L’incipit, del resto, sembrava scritto per la voce narrante di Travis. «Sono un uomo malato, un uomo cattivo, un uomo sgradevole», dice il protagonista della cupa fiaba russa. Nel momento in cui Scorsese s’era trovato tra le mani la sceneggiatura di Paul Schrader, era rimasto positivamente colpito. Ha ricordato così il loro primo incontro: «Aveva una pistola sul tavolo. Si era alienato tutti, come un kamikaze. E anche la sceneggiatura era piena di furore e rabbia. Anche io e De Niro lo eravamo, proprio come Travis».

“Travis Bickle sono io”, rivendica Schrader ed è impossibile dargli torto. Quando aveva iniziato a tratteggiare il personaggio era senza casa, pieno di debiti, dormiva in macchina, beveva fino allo stordimento e si nascondeva dentro i cinema porno, proprio come Travis e che successivamente decide di rimettersi in forma. Schrader lo fa smettere di fumare e lo sottopone a un rigido regime di esercizi fisici. Nel ridisegnare Travis, lo sceneggiatore si ispira chiaramente a Yukio Mishima, al quale dedicherà nel 1985 un film intitolato Mishima, biografia stilizzata dello scrittore giapponese che attraverso un analogo percorso diventa un moderno samurai.

Anni decisivi per l’Europa

Berlino, la porta di Brandenburgo

 

L’Europa è il continente più rilevante, il più ambito per prestigio culturale, posizione geografica e capacità diffuse dei suoi abitanti. I dati economici non bastano a decifrate il pianeta, le potenze imperialiste guardano all’Europa per misurarsi. Lo sanno bene i cinesi che puntano in questa direzione per disarticolare la globalizzazione di impronta americana per insidiare la superiorità di Washington.
L’Europa è al centro di una contesa tra soggetti politici esterni ad essa, problema grande e non nuovo, ma è proprio nei momenti più difficili, quando la pressione si fa più forte che si intravedono nuove opportunità all’orizzonte.
La politica estera degli Stati Uniti sembra capricciosa e imprevedibile, ma esiste un filo conduttore che lega l’atteggiamento politico di tutti i governi dell’intero spettro politico americano dell’ultimo secolo: l’ostilità nei confronti di una potenza rivale nello spazio eurasiatico. Il controllo dell’Europa passa per il contenimento della Russia ma anche per l’ambiguo e furbesco rapporto con Mosca dove le rivalità mascherano una complicità di fondo: rallentare, ritardare ed eventualmente sabotare l’autonomia strategica europea, facendo leva sulle divisioni interne e sulle carenze delle istituzioni comunitarie.
La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovradimensionata e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa della contesa principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.
Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina, iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono. È accaduto, e sta accadendo ancora che l’Europa, proprio nel momento in cui giungeva alle soglie dell’unità politica ed economica, si scoprisse in preda a spinte opposte, centrifughe, a resistenze di ogni tipo – teoriche e pratiche –, come se il segno dell’unità fosse innanzitutto in questo acuto sentimento di crisi. È giunto il tempo per l’Europa della piena maturità politica. Decenni di pace e vita tranquilla, l’avere delegato il lavoro sporco agli Stati Uniti, ha deformato il nostro approccio con il resto del mondo e sono in troppi ad accontentarsi in una condizione di comoda subalternità. La posta in gioco è enorme, i popoli europei devono decidere se rassegnarsi o riprendere il cammino nella direzione di un comune destino storico.

Il nuovo inizio

Revolver ha la giocosa libertà di poter essere leggero e scanzonato sui temi dell’attualità, pur fregandosene della semplice cronaca e al contempo, permettersi divagazioni complicate, aprendo dibattiti sulfurei senza la presunzione di avere la verità in tasca e senza pose da anticonformisti. Ce ne sono già troppi.

Tracciamo un nuovo sentiero nel segno del “fusionismo”.

Il tentativo è quello di fondere correnti di pensiero diverse, spesso in contrapposizione, trovandone il massimo comune denominatore senza limitare le diversità, semmai esaltandole, così da arrivare a una originale e inedita congiunzione nei vertici, alla ricerca di tutte le declinazioni ed eresie. Ovviamente, siamo all’interno di un perimetro che conosciamo ma che oltrepassiamo nel nome del paradosso e dell’amore di verità, per omaggiare gli opposti che reputiamo degni, per controbattere le falsità del politicamente corretto, talvolta solo per il gusto, non la posa, di sentirci controcorrente rispetto alle dominanti ed anguste logiche della cultura progressista.

Lo Zen e la motocicletta

 

Esistono libri che sono l’autobiografia di un secolo. Qualche esempio: Ulisse di Joyce, Nelle tempeste d’acciaio di Junger o Sulla strada di Kerouac, hanno descritto momenti della storia e dello spirito dell’Occidente contraddistinto da quella tensione vitale che scuote l’immobilità di un’esistenza troppo ferma. Libri come questi resistono nel tempo a differenza di quelli senza sostanza e carattere che si ammassano nelle librerie. Sono consultati come oracoli, non da tutti, ma da uomini e donne che riescono a svelare il mistero che trasforma i suoi autori in complici e ti fa esclamare, “è uno di noi”. Un codice fatto di segni, gesti e parole.

Nel 1974 usciva negli Stati Uniti un libro che diventerà un culto, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, scritto da Robert M. Pirsig. In Italia sarà tradotto da Adelphi nel 1981. Un successo strepitoso, oltre tre milioni di copie vendute dopo avere collezionato un numero impressionante di rifiuti editoriali, ben 191. Un record anche questo.

Quello di Pirsig è un discorso filosofico inserito nella trama di un romanzo. La storia racconta il viaggio in motocicletta dal Minnesota verso Ovest di un padre, Fedro, (chiaro riferimento a Platone) in compagnia del figlio undicenne, Chris.

“Abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito”.

Un’avventura attraverso l’America sulla sella di una moto, ma anche la descrizione di una visione del mondo alla ricerca delle migliori qualità individuali, senza la pretesa di imbastire grandi progetti utopistici o programmi di correzione sociale. Una riflessione tra spiritualità e tecnica, esoterismo, cultura di massa e tradizioni. In questa prospettiva, Pirsig non rifiuta la modernità, ma assume un atteggiamento assertivo, sarcastico verso chi intimorito dalle forze esplosive della tecnica, immagina alternative di vita neo bucoliche, ma poi non riesce a rinunciare a certe “comodità”.

“Penso – si legge nelle prime pagine – che la fuga dalla tecnologia e l’odio nei suoi confronti portino alla sconfitta. Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”.

Questo libro apparve in un periodo storico di ubriacature ideologiche e per molti servì a smaltire la sbornia delle feroci contrapposizioni. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta registrava uno stato d’animo diffuso: basta con le velleità di cambiare il mondo, è arrivato il momento di riscoprire il gusto di occuparsi di sé stessi, della propria vita, di recuperare quelle qualità individuali disperse nel disordine delle passioni di massa.

È stato un ripiegamento rispetto alle grandi ambizioni di cambiamento della società? Forse sì, ma da un’altra prospettiva, Pirsig indicava strada diversa: “Non voglio più entusiasmarmi per grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale (…)”

Con la sua moto, egli presenta una nuova etica cavalleresca. In fondo chi sono i motociclisti? Nuovi cavalieri con araldi e vessilli: giubbotti, guanti, stivali, caschi, toppe, adesivi e l’asfalto come spazio libero di manovra e contesa. Istinto e ragione.

Ritratto di Saint Just: il rivoluzionario intransigente e il dandy politico

Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.

Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.

Gli esordi

Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.

Jorge Luis Borges, il Labirinto e la Biblioteca

 

Parlare di Jorge Luis Borges significa evocare un profondo conoscitore e utilizzatore di simboli. In un’epoca in cui i grandi archetipi umani, veicolati dalla mitologia, rischiano di essere oscurati o ridotti a caricature da certi discorsi mistificanti, abbiamo bisogno di rimettere le idee in ordine con la sguardo rivolto verso Buenos Aires, grandiosa e vertiginosa come molti scritti del suo illustre cittadino.

L’Aleph e Finzioni, sono le raccolte più conosciute di Borges, in essa ricorrono spesso due costruzioni simboliche, entrambe imitazioni umane della Struttura per eccellenza – il Mondo, l’Universo – e due archetipi estremamente significativi: il Labirinto e la Biblioteca.

I personaggi de Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel tentativo di comprendere che tipo di labirinto sia stato progettato dal cinese Ts’ui Pen, scoprono che esso non è un edificio, ma un enorme romanzo, intitolato come il racconto che ne parla e formato da un’immensa quantità di “manoscritti caotici” con una “trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, che comprende tutte le possibilità”.

Il labirinto di Ts’ui Pen coincide con le innumerevoli possibilità dello svolgimento di un testo e una trama. Nello scritto La Biblioteca di Babele, invece, il labirinto coincide con un’immensa e incalcolabile moltiplicazione di libri, è l’intero universo dei testi edificabili con i caratteri alfabetici occidentali, così da fondere Biblioteca e Labirinto che simboleggiano l’universo e le numerose interpretazioni da parte della mente umana. La legge fondamentale di questo smisurato microcosmo è che “tutti i libri, per diversi che fossero, constatavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Inoltre (…) non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identitici”.

Borges appare come una figura archetipica: il Poeta cieco, simile all’Indovino e al Profeta, che non può vedere la realtà con gli occhi del corpo ma è dotato di una vista metafisica, altra e differente. Un richiamo alla figura mitologica di Tiresia, cieco ma capace di prevedere il destino di Ulisse. Lo scrittore e bibliotecario argentino era un incrocio da un punto di vista letterario, a metà strada tra il poeta e il filologo, l’erudito e l’esoterista.

Il Labirinto resta una struttura che presuppone un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta.

Noi moderni, invece, siamo troppo spesso presi dalle emozioni superficiali e dal desiderio di liberarci di qualsiasi struttura capace di ricordare che la libertà è qualcosa di limitato, rigettiamo ogni corridoio ideologico per evitare il Labirinto ed eventuali mostri, ma abbandonando tutto, restiamo dispersi e smarriti in un nuovo labirinto “dove – ricorda Borges – “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. (I due re e i due labirinti).

Suggestioni: la celtica Cerridwen e la Janara di Benevento

Le fonti classiche non ci dicono molto sul ruolo delle donne nella società celtica. Popolo di agricoltori, allevatori e abili mercanti con una rete commerciale molto estesa, avevano un senso del sacro molto elevato, con un pantheon di divinità popolari legate ad ogni clan (Tauath), e, ad un livello più elevato, una religiosità esercitata dai Druidi, incentrata sul culto delle forze naturali. Alcune saghe e dei reperti archeologici ci restituiscono un’immagine della donna celtica dotata di libertà rilevanti e in alcuni casi, di un potere enorme. Sarebbe un errore dedurre che quello celtico fosse un mondo matriarcale ma, quello che si riscontra, è un sostanziale equilibrio di gerarchia, ruoli definiti e ampi margini di libertà.

La dimensione religiosa era quella che esprimeva la più alta considerazione delle donne. L’élite celtica era composta da Druidi e Druidesse forgiata da venti anni di studio di letteratura, poesia, storia, astronomia, erboristeria e medicina oltre allo studio dei riti e della dimensione del sacro. Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione di figure sacerdotali femminili, solo nel I secolo d.C., è Tacito a scrivere che “I Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine”. Essendo una cultura prevalentemente orale, è difficile comprendere se ci fosse una commistione tra potere religioso e politico. Alcune tracce confermano l’esistenza di un potere politico da parte di alcune donne, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a descrivere la presenza di druidesse e “donne sagge nel mondo celtico: incantatrici, veggenti e persino esecutrici di riti sacrificali. Nella ricca strutturazione religiosa celtica, oltre certe rielaborazioni romanzesche, c’è una figura divina interessante, portatrice di luce e ombra.

Cerridwen o Kerridwen (si pronuncia Kerriduen) è una delle più antiche divinità del mondo celtico, dea del fuoco che alimenta la coscienza trascendente nel suo calderone magico. Come la greca Demetra e l’egizia Iside è grande fonte d’ispirazione dell’intelligenza e della conoscenza, il fuoco della luce interiore. Tuttavia porta con sé anche degli aspetti oscuri e violenti che ritroviamo nella dimensione della Natura. Il lato ombroso, un po’ ambiguo di Cerridwen si trova nelle descrizioni come donna “bella e spaventosa” ma anche di “strega sorridente”. A dimostrazione delle conoscenze magiche e divinatorie. In una duplice dimensione di luce e ombra, nascita e morte soprattutto in senso spirituale.

Figure del genere sono presenti in tutte le antiche tradizione europee, c’è un flusso suggestivo che attraversa i territori del vecchio continente e si intreccia nel folklore e nelle leggende popolari come quella della Janara della tradizione di Benevento.

Non è divina ma è una figura femminile che aveva conoscenze di erboristeria e arti magiche e come tale, è una donna carica di contraddizioni, portatrice di bene e male. Nella tradizione contadina la Janara è quasi sempre una figura malefica. Secondo la tradizione, infatti, bisognava posizionare davanti alla porta una scopa capovolta o un sacchetto con grani di sale così lei li avrebbe contati fino al sorgere dell’alba, quando la luce, sua nemica, l’avrebbe costretta a scappare, lasciando tranquilli gli abitanti di quella casa.

Ma questa descrizione negativa risente di un’interpretazione troppo condizionata dal Cristianesimo e da una non corretta descrizione dei riti sabbatici. Il suo nome deriverebbe da Dianara, sacerdotessa di Diana o secondo altri, da Ianua, letteralmente “porta”, quella tra la dimensione fisica e metafisica. In quanto donna dotata di saggezza, esiste anche una forma positiva della Janara, dove ritroviamo benedizione, guarigione e benessere spirituale.

E se provassimo ad immaginare una somiglianza tra Cerridwen e la Janara? Entrambe dotate di saggezza, espressione di luce e oscurità, dell’intreccio del bene e del male, del sottosopra tra materia e spirito. Può darsi che la nostra sia solo una suggestione, ma chi ci può vietare di intraprendere percorsi ancora non battuti?

Immigrazione, società multietniche e ipocrisie dei “buoni”. Appunti per un futuro di tensioni

Un nuovo neologismo si è fatto strada nel dibattito politico: “remigrazione”. L’espressione ha cominciato a circolare negli ambienti della destra identitaria tedesca e austriaca, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti politici fino ad entrare nel campo del dibattito politico con una notevole forza d’urto.
L’espressione si riferisce al progetto di rimpatrio forzoso di tutti quegli immigrati irregolari, la cui mancata integrazione è causa di problemi di ordine economico e sociale in molti paesi europei e alla costruzione di meccanismi di incentivo al ritorno nei propri paesi d’origine a chi rifiuta forma di integrazione nella nazione che li ospita.
Il tema suscita reazioni contrastanti, provoca scontri e divide. Sarebbe più facile evitare gli argomenti sgradevoli e pericolosi per il consenso generale, piuttosto che affrontarli, è una forma di moderata viltà. Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riconnettersi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo di politici, intellettuali, opinionisti con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Parole e affermazioni che agiscono soprattutto sull’emozione.

La prima critica generale posta sulla esagerata centralità del tema dell’immigrazione, riguarda la comunicazione. Gran parte dei maître à penser ostili alla destra politica sostiene che l’emergenza sia qualcosa di costruito per favorire le forze populiste europee e che sia in corso una specie di manipolazione mediatica, una circonvenzione del cittadino ignorante e rabbioso.
Tuttavia, la comunicazione è efficace quando c’è una presa nella società, nella sua profondità razionale e sentimentale. La questione dell’immigrazione è presente da parecchi anni, non può essere il risultato di una comunicazione ben congegnata, ma qualcosa di persistente che mette a disagio e preoccupa anche gli stranieri che si sono integrati bene. È qualcosa di profondo.
I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale.
Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito flusso di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.

Letture e riletture. Una “sfida nel Kurdistan” di Jean Jacques Langendorf

 

“Epperò non sono mai mancati i selvaggi ebbri della vita, mai gli aristocratici del sogno, sereni e cupi, i guerrieri, i lanzichenecchi e gli avventurieri; in poche parole, non sono mai mancati coloro per i quali il mondo dei datori di lavoro e degli stipendiati, degli affari e del denaro è del tutto indifferente”.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso

 

C’è un libro di Jean Jacques Langendorf, “Una sfida nel Kurdistan”, esemplare di un certo modo di essere e di stare al mondo. Racconta di una giovane spia tedesca in Medio Oriente durante la seconda guerra mondiale, un terreno di manovra in apparenza secondario rispetto al campo di battaglia europeo, dove egli ha la possibilità di giocare la sua partita della vita. Con il passare dei giorni, il protagonista si rende conto che quel a lui interessa, non sono tanto le implicazioni politiche della missione, ma la sensazione di essere artefice del proprio destino e non una semplice pedina di un gioco. Langendorf da storico aveva scritto un perfetto romanzo di avventura, senza aver dovuto provare necessariamente quell’esperienza per raccontarlo. Aveva definito un modo di porsi nei confronti della vita, un antidoto contro quest’ansia di successo, consumo e denaro, dove l’insignificante è portato a livelli esasperati. Testimonia come nelle pieghe del quotidiano si può provare l’inebriante libertà dell’avventuriero.

 

 

In un’intervista del settembre 2022 pubblicata sulla rivista Livr’Arbitres a proposito di questo libro, Langendorf aveva dichiarato:

Romanzi come Una sfida nel Kurdistan, o non se ne fanno più, o gli editori non li vogliono più. Perché la vena si è inaridita?

“La vena si è inaridita perché si è riversata su altro, giallo, fantascienza, romanzo storico, ecc. E poi la fonte si è prosciugata, drenata dallo psicologismo, dall’introspezione, dall’estetismo. Non ci sono più avventurieri politici. In un’epoca sprofondata, si può solo scrivere dello sprofondamento. Ma forse c’è ancora un orafo che lavora nel suo angolo (…)

 

 

Dalla parte di John Fante

 

 

 

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di “io plurali”, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente de-siderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi”.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.

Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

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