spari nella notte del conformismo

Mese: Aprile 2020

Wilfred Thesiger, l’aristocratico avventuriero

Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.

In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.

Il terreno dove si fermarono per la notte era accidentato, Eric e il suo compagno tirarono fuori i materassi da campo. “Dio mio, che coppia di checche…”, fu il commento sarcastico di Thesiger mentre si sdraiava sulle rocce.

Figlio di diplomatici, primo inglese a nascere in Etiopia, dove il padre era ministro plenipotenziario, aveva passato la sua infanzia in un mondo dal “barbarico splendore”. Ignorava il cricket e il football, ma sapeva tutto di caccia, non si occupava delle questioni politiche, ma aveva visto la sanguinosa lotta per la successione al trono di Menelik, con i vinti trascinati in catene, il suono assordante dei tamburi, l’armata vittoriosa di Ras Tafari con le insegne e il bottino di guerra. In questa enclave cristiana in mezzo alle terre islamiche, Thesiger dopo essere ritornato in patria, si dovette adattare a un ambiente fatto di regole di comportamento, riti sociali, gerarchie dove nulla di ciò che gli piaceva era di moda, un piccolo mondo di compunti funzionari che vedevano in lui solo il lato disdicevole di non appartenenza allo stesso clan sociale. Il giovane Thesiger, troverà nei pugni, nell’isolamento e della letteratura epica una strategia di sopravvivenza. Fu rispettato e accettato, ma non compreso. Eppure tutti i condizionamenti esterni e il clima familiare non bastano a spiegare la formazione di un carattere.

Da Lisbona a Calicut, il viaggio che consacrò Vasco da Gama

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

 

Film da scoprire. “La casa di Jack” di Lars von Trier (2018)

Schermo nero. Due voci parlano fuori campo, sono quelle di Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz): il primo chiede se durante il viaggio si possa chiacchierare, l’altro risponde che tutti i predecessori che ha accompagnato, sono stati colti dal desiderio di raccontarsi come una specie di confessione. Appare il titolo e il protagonista narra la sua storia che copre un arco di dodici anni, scanditi da cinque episodi significativi, detti “incidenti”. Lars Von Trier, ritorna con la tecnica del dittico dove il protagonista si racconta a un uomo più anziano e navigato.

Verge (Bruno Ganz) non si mostra indulgente, ascolta e sferza ironicamente Jack, sminuisce il suo ego psicotico, non offre giustificazioni alla pretesa di protagonista di attribuire un valore artistico alla sua cattiveria feroce.

Cinque pannelli compaiono nel film, cinque capitoli che dettano la trama del racconto dell’evoluzione criminale di Jack dal raptus omicida fino ai piani preordinati sempre più raffinati, sofisticati e depravati. Non mancano scene di violenza particolarmente disturbanti.

Nel primo incidente Jack è alla guida di un furgone rosso quando incrocia una donna con l’auto bloccata da uno pneumatico bucato e il cric malfunzionante. A interpretare la signora è Uma Thurman che per dieci minuti è al centro della scena con un atteggiamento invadente e petulante. Jack è rilassato, leggermente infastidito ma misura ogni parola, al contrario della donna che si fa accompagnare in officina e nel percorso imbastisce un dialogo sul pericolo di prendere passaggi dagli sconosciuti, con allusioni alle persone malintenzionate e battute sui serial killer. La donna gioca sull’assonanza tra il nome Jack e il jack (il cric in inglese, battuta più evidente nella versione in lingua originale). I due vanni all’officina e poi ritornano verso la macchina. Il regista si diverte con continui stacchi sul cric poggiato tra i sedili, come se fosse una pistola pronta per esplodere. Di nuovo vicino all’auto in panne, Jack ferma il furgone, è un attimo, afferra il cric e con un colpo secco fracassa il cranio della donna. Prima dell’omicidio, lo spettatore ascolta una digressione sull’arte gotica e l’importanza dei materiali fatta Jack mentre scorrono immagini sul tema. L’assassino vuole spiegare il pensiero raffinato che precede ogni sua azione. Il primo omicidio avviene con un materiale perfetto e adatto alla situazione, il cric che altera i connotati della donna creando un simulacro. L’ideale estetico nascosto dietro la nefandezza. Verge, l’accompagnatore vestito di nero che vedremo solo nella parte finale del film, cerca sempre di attenuare le pretese teoriche dell’assassino.

Jack eccelle nell’omicidio seriale e compensa la vergogna di non riuscire a costruire una casa perfetta che smonta e rimonta continuamente nel terreno dove sta edificando, proprio lui, un ingegnere che sognava di fare l’architetto. “Quando avevo dieci anni ho scoperto che attraverso il negativo vedi la qualità demoniaca insita nella luce. La luce oscura”

Nel racconto di Jack si affollano icone, finzioni, frammenti di memorie del passato, le architetture di Albert Speer, il fischio degli Stuka tedeschi paragonati alle trombe di Gerico. La musica di Gleen Gould, David Bowie, Vivaldi e Bach è la colonna sonora del viaggio nella mente diabolica di chi è privo un ordine morale prestabilito. Sarà la catabasi finale a frenare l’invasività del Male quando ormai tutto è franato. Lars von Trier ha realizzato un equilibrio mirabile di orrido e poetico.

Aldo Manuzio, tipografo, editore e innovatore della “forma” del libro

Cinquecento anni fa a Venezia, il tipografo Aldo Manuzio rinnova fortemente la concezione del libro. Con lui è sorto il mestiere dell’editore inteso come diffusore di cultura e non più semplice stampatore, le sue innovazioni sono alla base del libro-oggetto così come lo conosciamo.
Aldo nasce nel 1450 a Bassiano, un piccolo borgo del Ducato di Sermoneta, a sudest di Roma. Studia nelle capitale papale e negli anni compresi tra il 1467 e il 1475 frequenta i circoli vicini al cardinale Bessarione, un intellettuale greco fuggito da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453).
A Bessarione si deve un dono inestimabile: il lascito alla Repubblica di Venezia dei manoscritti ellenici che costituirono il nucleo su cui sarà fondata la biblioteca Marciana, l’unica istituzione della Serenissima ancora attiva. In quel periodo Manuzio impara il greco e poi lo perfeziona a Ferrara, nel 1480 si trasferisce a Carpi a fare l’educatore presso una famiglia aristocratica. Tra il 1489 e il 1490, va a vivere a Venezia ma non sappiamo il motivo del trasferimento e nemmeno perché abbia deciso di mettersi a fare lo stampatore. Il primo libro che pubblica è la sua grammatica greca, che fa stampare presso l’officina di Andrea Torresani che diventerà suo suocero quando sposerà la figlia.

La prima officina editoriale di Manuzio è nella zona dei Frari, il suo progetto è definito: stampare i classici in latino e greco, pubblicare Dante e Petrarca nelle revisioni di Pietro Bembo e stampare libri in lingua volgare per consentire a un pubblico più di leggere senza necessariamente conoscere una lingua dotta. Il libro deve diventare un oggetto popolare e per questo decide di ridurre le dimensioni dei volumi. Prima di lui, i libri erano dei tomi grandi, pesanti, costosi e si consultavano appoggiati a un leggio per questo motivo, nel 1501 Manuzio stampa il primo tascabile. Quel formato “portatile”, costa pochi denari, se lo possono permettere studenti, artigiani, mercanti ed è semplice da trasportare. Il libro comincia a essere letto in molti luoghi prima inaccessibili, diventa svago e non più soltanto strumento di lavoro e istruzione.

Il quotidiano Bild risponde per le rime alla Cina

Julian Reichelt è il direttore del più diffuso e popolare quotidiano tedesco, Bild Zeitung. Il quotidiano non ha mai risparmiato critiche alla Cina con la richiesta di compensare il danno economico provocato dalla pandemia di Covid 19 che Pechino ha cercato di insabbiare. Irritata dall’atteggiamento del giornale, l’ambasciata cinese a Berlino aveva chiesto un video di scuse. Reichelt per niente intimorito ha risposto con un tono fermo e determinato.

“Gentile presidente Xi Jinping. La sua ambasciata a Berlino mi ha inviato una lettera aperta perché sul nostro giornale abbiamo chiesto se fosse giusto chiedere alla Cina di pagare per l’enorme danno economico che è stato causato dalla diffusione del coronavirus in tutto il mondo. Cortesemente, mi consenta di rispondere.

Prima di tutto, lei governa con la sorveglianza e il controllo. Lei non sarebbe presidente senza la sorveglianza. Lei controlla qualunque cosa faccia qualunque cittadino ma si rifiuta di monitorare wet market infetti del suo Paese. Ha fatto chiudere tutti i giornali e siti internet che si sono mostrati critici rispetto al suo operato, ma non le bancarelle dove vengono vendute le zuppe al pipistrello. Lei non controlla solo i suoi cittadini, ma li mette in pericolo, e con loro, il resto del mondo. Secondo, la sorveglianza è una violazione della libertà. E una nazione che non è libera non può essere creativa, e una nazione che non è innovativa, non inventa nulla. Ecco perché ha trasformato la Cina nel più grande esperto di furto di proprietà intellettuale. La Cina si arricchisce con le invenzioni degli altri, invece che con le sue invenzioni.

La ragione per cui in Cina non si inventa e non si innova, è perché non permettete ai giovani del vostro paese di pensare liberamente. La cosa più grande che avete esportato, e che comunque nessuno voleva, è il Coronavirus.

Terzo: lei, il suo governo e i vostri scienziati sapevate da tempo che il Coronavirus fosse altamente infettivo, ma avete lasciato il resto del mondo all’oscuro. I suoi esperti non hanno saputo rispondere, quando i ricercatori occidentali chiedevano cosa stesse accadendo a Wuhan, era troppo orgoglioso e nazionalista per ammettere la verità. Pensava si trattasse di una disgrazia nazionale e invece si è trasformata in un disastro globale.

Quarto, il Washington Post riporta che i vostri laboratori a Wuhan hanno fatto ricerche sui Coronavirus nei pipistrelli, ma senza mantenere i livelli di sicurezza elevati che sarebbero necessari. Perché i vostri laboratori tossici non sono così sicuri quanto invece lo sono le vostre carceri per i prigionieri politici? Potrebbe spiegarlo alle vedove in lutto, alle figlie e ai figli, mariti e genitori delle vittime di Coronavirus in tutto il mondo? Quinto, nel suo paese il popolo la sta mettendo in discussione, il suo potere sta crollando. Ha creato una Cina impenetrabile, non trasparente. Prima del Covid, la Cina era conosciuta come uno Stato-Sorvegliante, ora è uno stato sorvegliante che ha infettato il mondo con una malattia mortale. Questa è la sua eredità politica.

La sua ambasciata dice che non sono all’altezza della tradizionale amicizia fra i nostri popoli. Immagino che considera una grande amicizia, quella in cui manda mascherine in giro per il mondo. Questa non è amicizia, la chiamerei imperialismo nascosto dietro un sorriso, un cavallo di Troia. Pianifica di rafforzare la Cina grazie ad una malattia che ha esportato. Non ci riuscirà: il Coronavirus prima o poi sarà la sua fine politica”.

 

Aspettando l’Europa

Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Meno male che c’è John Fante

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di io plurali, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente desiderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.
Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

 

A spasso per Parigi con il commissario Maigret

 

Parigi è la scenografia di innumerevoli storie come quelle dei libri di George Simenon e del suo personaggio più famoso: il commissario Maigret. Se vogliamo farci un giro con il celebre poliziotto per le strade della capitale dobbiamo seguire l’itinerario che parte dalle note biografiche, contenute in Le Memorie di Maigret (1951), “dettate” proprio a Simenon.

Maigret era nato il 13 febbraio 1887 in un villaggio, Saint-Fiacre (inventato) nei dintorni di Nantes e dopo la scomparsa del padre, si era trasferito a Parigi a ventun anni, con l’obiettivo di diventare un medico. Aveva trovato alloggio in una piccola pensione, molto simile a quella dove aveva vissuto nella realtà Simenon: una stanza mansardata dell’Hotel de la Bertha, al numero 1 di rue Darcet, a due passi da place de Clichy.

Le difficoltà economiche e la conseguente necessità di trovare un lavoro gli avevano sbarrato le porte dell’università. Successivamente, in cerca di un impiego, aveva incontrato la persona destinata a dare una svolta alla sua vita: il vicino di casa, l’ispettore di polizia Jacquemain. Con il suo aiuto Maigret indosserà nel 1909 l’uniforme del flic, il ciclista addetto al trasporto di pratiche e documenti nei vari uffici della Polizia di Parigi. In questo modo conosce bene la città, fino a quando si trasferisce alla Brigade de Voie Publique, addetto al pattugliamento delle strade e delle stazioni ferroviarie, la gare dell’Est, la gare de Lyon e la gare du Nord, la più fredda e affollata.

Una sera del 1911, un ex compagno di studi aveva invitato il giovane Maigret a una cena di amici, Anselme e Géraldine Léonard, che abitavano in boulevard Beaumarchais, non lontano dal place de la Bastille. Un altro luogo del destino, visto che qui incontrerà Louise, nipote dei Léonard, una ragazza d’origine alsaziana, “dall’espressione dolce e rassicurante” che sposerà l’anno dopo.

Lui e la moglie andranno a vivere in boulevard Richard-Lenoir, un viale alberato nell’XI arrondissement, a metà strada tra l’Ile de la Cité e il cimitero Père-Lachaise, all’incrocio con rue du Chemin-Vert, davanti al mercato non lontano da un cinema frequentato dalla coppia, nei pressi di boulevard de Bonne-Nouvelle. L’appartamento si trovava al terzo piano del civico 132.

Nel frattempo Maigret era diventato assistente del commissario del distretto di Saint-George, dove è ambientata La prima inchiesta di Maigret (1949). Abbandonate la bicicletta e la divisa, sostituito il chepì con la bombetta, aveva incominciato a percorrere Parigi consumando le suole delle scarpe a Pigalle e a Saint-Denis. Simenon, frequentatore di prostitute, conosceva bene quella Parigi notturna, sporca e maleodorante, rovente d’estate, tiepida in primavera, fredda e brumosa in autunno e inverno, pericolosa in ogni stagione.

Il giovane Maigret si aggirava tra i fatiscenti alloggi popolari, abitati da operai con famiglie numerose, oltre a trafficanti e papponi abili con coltello. C’erano osterie e cabaret come il Moulin Rouge e il Moulin de la Galette, ancora presenti oggi, e altri, creati dalla fantasia di Simenon, come il Picratt’s. É qui, tra avenue de Clichy e il cimitero di Montmatre, che avviene l’omicidio di Arlette Datour, prima vittima del serial killer Marcel Moncin citata in La trappola di Maigret (1955).

Il commissario è un noto fumatore di pipa e non poteva mancare, nei pressi di Pigalle, in rue Fontaine, una tabaccheria aperta tutta la notte, Tabac Fontaine, luogo d’incontro e di scontro tra marsigliesi e corsi, protagonisti di Maigret e i gangster (1952) e Gli scrupoli di Maigret. Molto diversa dalla Pigalle odierna, luogo di trasgressione turistica.

Nel 1917, Maigret è nominato commissario della brigata speciale potendo finalmente trasferirsi al mitico numero 36 di quai des Orfévres, nel grande edificio che la polizia divideva con la Procura della Repubblica, sulle rive della Senna, tra il Pont Neuf e rue de la Cité. La finestra del suo ufficio al terzo piano dava sul fiume. Dal 2009, gli uffici della polizia giudiziaria hanno traslocato nel quartiere di Batignolles, ma ancora oggi un pannello ricorda: “Sede della Polizia giudiziaria, resa famosa dal commissario Maigret, personaggio dei romandi di George Simenon”.

Una breve passeggiata conduceva Maigret a place Dauphine, dove s’apriva la brasserie omonima, menzionata per la prima volta in Pietr il lèttone (1931). All’interno si era avvolti da un intenso odore di caffè, liquori e piatti prelibati che ne stuzzicavano l’indole di buongustaio. Qui il commissario aveva brindato, insieme ai colleghi alla propria nomina. Per questa brasserie (d’invenzione), Simenon si era ispirato alla Aux Troi Marches, della quale era un assiduo frequentatore: si trovava in rue de Harlay, angolo place Dauphine e oggi è il ristorante interno alla Maison du Barreau, ossia l’ordine degli avvocati). Poco lontano, al 13 di place due Pont-Neuf, ha invece conservato nome e caratteristiche la taverne Henry IV descritta in Maigret e la chiusa n.1 (1933).

Spesso le inchieste portavano il commissario a entrare nei locali più prestigiosi della metropoli come il Café des Deux Magots, la Brasserie Lipp, il Café Flore, covo d’intellettuali. Sull’altra sponda della Senna, la rive gauche, quartiere Montparnasse, si svolge Maigret e il corpo senza testa (1955), nel quale il commissario, esplorando l’area, era entrato nella storica brasserie La Coupole, al 102 di boulevard Montparnasse, trovandovi una clientela cosmopolita, più o meno la stessa di oggi.

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pubblicato su Readig Class (www.readingclass.it) il 26 ottobre 2016

L’avanguardia dadaista e l’esperienza italiana di Julius Evola

 

“La parola Dada fu casualmente scoperta da Ball e da me in un vocabolario tedesco-francese, mentre stavamo cercando un nome d’arte per Madame Le Roy, cantante del nostro cabaret. Dada è una parola francese che significa cavallo a dondolo”. Così Richard Huelsenberg, uno dei fondatori del dadaismo, ricorda come la scelta del nome sia derivata da un atto casuale e privo di intenzione logica.
Un altro interprete della scena, Hans Arp, racconta un’altra storia più bizzarra: “Tristan Tzara ha trovato la parola dada al Café de la Terrasse di Zurigo mentre mi portavo una brioche alla narice sinistra. Ero presente coi miei dodici figli quando l’ha pronunciata per la prima volta, destando in tutti noi un entusiasmo legittimo. Sono convinto che questa parola non ha alcuna importanza e non ci sono che gli imbecilli o i professori che possono interessarsi ai dati”.
Non ci interessa la versione dei fatti sull’origine di quella parola dal suono infantile, quel che è sicuro, nella sonnacchiosa Zurigo del 1916, un gruppo di intellettuali di orientamenti diversi, si rifugiarono in territorio neutrale per sfuggire al fuoco e al fango delle trincee della guerra per creare un movimento artistico urtante e irragionevole.

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