spari nella notte del conformismo

Categoria: letture

Dalla parte di John Fante

 

 

 

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di “io plurali”, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente de-siderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi”.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.

Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

Una storia del potere

Nel 2018 il giornalista e storico britannico Simon Heffer, ha scritto un saggio intitolato “Una breve storia del potere”, dove descrive e ricostruisce le dinamiche evolutive del potere politico agganciandole a quattro variabili fondamentali, utilizzate come bussola per orientarsi: territorio, ricchezza, religioni e ideologia. Oltre alla descrizione ricca di dati storici, dall’epoca classica al XXI secolo, Heffer propone una determinata idea del potere che tiene insieme due elementi: il realismo che descrive l’inevitabile conflitto interno ed esterno alle società e il liberalismo, come metodo di limitazione dello stesso potere politico e filosofia della libertà poggiata sull’individuo.

Heffer rifiuta tutte quelle interpretazioni “universaliste” che considerano la storia come un ineluttabile progresso volto a delineare quello che con un’immagine carica d’ironia, il sociologo americano Christopher Lasch chiamava “il paradiso in terra”.

D’altronde la convinzione di potere esportare dei modelli occidentali al resto del mondo, senza considerare i caratteri peculiari degli altri popoli, si è rivelata piena di difetti alla prova dei fatti. La storia non è destinata ad esaurirsi con la vittoria totale delle democrazie. Per quanto riguarda il liberalismo, l’espressione va intesa in senso più ampio e non con riferimento a una specifica dottrina moderna. Heffer assume una posizione di sintesi tra il liberalismo classico del Novecento e le critiche rivolte a questo da due autori come Max Weber e Carl Schmitt.

Il liberalismo classico, infatti, intende limitare ed irreggimentare nel più ampio modo possibile il conflitto per il potere politico imbrigliandolo nella dimensione giuridica, cioè in regole fondamentali e inderogabili da chi detiene il potere e nella contrattazione tra le parti, basata su dialogo e scambio. Su questo punto la storia dimostra il contrario: il conflitto per il potere non può essere espunto dalla dinamica politica, la conflittualità delle idee non si può addomesticare con le formule giuridiche buone per tutti ma solo per un tempo breve e limitato. Heffer appartiene a quella schiera di studiosi che mettono sempre in conto la possibilità dell’avvento di movimenti politici che rompono certi equilibri, nel bene e nel male, così come non è detto che un sistema in apparenza liberale non possa degenerare nel suo contrario.

La politica può produrre, con una certa regolarità, effetti che destabilizzano l’ordine politico. Citando ampiamente il saggio famoso di Edward Gibbon “Declino e Caduta dell’Impero Romano”, dimostra come un sistema di potere possa indebolirsi, decadere e collassare. Questo perché le regole costituzionali, garanzia di libertà personali, e l’organizzazione statuale che a partire dal diciannovesimo secolo ebbero un grande sviluppo, hanno dato prova di non riuscire mai ad imbrigliare completamente la politica, a neutralizzarne alcuni effetti disordinati, così come non sono sempre garanzia di protezione da poteri esterni, tecnocratici, in grado di condizionare l’ordine politico.

I sistemi costituzionali e gli equilibri dello scacchiere geopolitico, sono sempre esposti alla tempesta delle trasformazioni imposte dal politico, dall’insondabile conflittualità in tutte le sue forme più o meno razionali. Heffer nella sua analisi del potere non si conforma totalmente a Schmitt che riconduce tutto allo Stato, ma considera la presenza del politico come qualcosa che trascende questa realtà, qualcosa di necessario che sta dentro e fuori dall’entità statuale, si dipana in molteplici livelli senza risolversi una volta per tutte.

Questo affresco sulla realtà dei fatti intorno al conflitto politico, ci offre molti spunti. Max Weber ormai un secolo fa, ricordava come lo Stato rappresentasse un grande processo di razionalizzazione del potere politico in Occidente che è avvenuto prevalentemente attraverso due vettori: il monopolio legittimo della violenza e il dispiego dei suoi effetti sopra un territorio limitato. Questo percorso si è raffinato con la creazione di una burocrazia centralizzata, un esercito e altri elementi di comando che sopravvivono alle stagioni politiche. Lo Stato come edificio giuridico, va oltre la vita dei suoi vertici politici. Con una analisi ancora più elegante, il grande storico Ernst Kantorowicz riferendosi ai “due corpi del Re” li descriveva come uno fisico, carismatico e l’altro giuridico, impersonale e pubblico.

Nella concezione realista espressa dal libro c’è anche un richiamo implicito al problema della degenerazione delle democrazie in Stati totalitari, secondo la visione espressa da Bertrand de Jouvenel in Del Potere. Storia naturale della sua crescita. L’intellettuale francese mostrava con chiarezza il percorso di accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli Stati totalitari del XX secolo e argomentava efficacemente sul fatto fondamentale per cui la democrazia, quando la penetrazione sociale dello Stato è profonda, non è in grado di fornire alcuna garanzia di tutela delle libertà individuali. Ciò, in particolare, quando tendevano a prevalere quelle correnti di pensiero, legate alla tradizione del diritto positivo, secondo cui tutto il diritto discendeva dall’autorità politica e per cui questa si trovava ad essere allo stesso tempo formalmente vincolata al diritto che solo essa stessa poteva creare. Un sofisma che si presta a forme di dispotismo nella società.

Spostandoci nel campo delle relazioni internazionali, Heffer considera tribunali, regole ed enti sovranazionali come la rappresentazione dell’ordine politico globale, creato dai vincitori in una determinata fase storica. Istituzioni fragili che esprimono dei semplici rapporti di forza tra Stati. Interessanti sono anche le considerazioni relative al rapporto tra politica e religione. Per l’Occidente il percorso di razionalizzazione del potere, ha significato anche secolarizzare le istituzioni pubbliche e passare dal patto-giuramento sacralizzato con Dio al patto tra cittadini come elemento fondamentale alla base del potere spersonalizzato dello Stato.

Il racconto fotografico della Mensur: sfida, sangue e ritualità.

 

La violenza ha una natura multiforme: cambia aspetto, si adatta alla logica e alle modalità del contesto socio politico in cui si sviluppa e agisce, anche laddove sembra essere sparita. La violenza si mostra con dimensioni diverse, grandi e piccole. Dove c’è antitesi, conflitto tra idee e visioni, essa è presente, segue la tensione bipolare. Nell’epoca odierna, dove si tenta nei modi più disparati di edulcorare la negatività, la violenza sembra scomparire nella sua forma tangibile, quella corporea e visibile. Solo che si tratta di un’illusione perché essa viene trasferita sul piano psichico. La violenza può scatenarsi senza freni o avere persino una misura con delle norme che la regolano all’interno di un discorso etico ed estetico.

Bloodline è il titolo del libro fotografico di Alberto Palladino con testi a cura di Chiara Del Fiacco. Descrive l’universo sconosciuto della Mensur, il duello rituale presente in Germania, Austria e altre zone dell’Europa centrale, sviluppatosi storicamente all’interno delle confraternite studentesche. La parola deriva dal latino “mensura” (misura) e indica la distanza tra i duellanti che si posizionano uno di fronte all’altro tenendo alta una spada che a turno viene calata contro l’avversario. Ciascuno degli sfidanti indossa delle protezioni per evitare ferite mortali, ma non le eventuali cicatrici.

La Mensur è molto di più di una sfida, assume un significato rituale, un’azione simbolica dove una comunità si riconosce e si trasmette dei valori improntati sul coraggio e l’onore. La nostra contemporaneità scarseggia per simboli, è solo satura di dati e informazioni privi di qualunque forza simbolica. Nella Mensur, il gesto violento, il colpo di spada, trafigge ogni discorso perbenista di chi è così intimorito e ossessionato dalla propria autoconservazione da rinunciare alla libertà per rinchiudersi in una rassicurante finzione di sicurezza.

Le fotografie di Alberto Palladino sono contraddistinte da un meraviglioso realismo, immagini di gesti singolari, espressioni del volto, segni sulla pelle, la fermezza dei corpi in un’atmosfera circonfusa di bellezza e pericolo, sangue e orgoglio. Sfogliando queste pagine sembra quasi di avvertire il rumore secco della lama delle spade, avvertire il respiro lento dei duellanti.

Un libro che suscita nel lettore emozioni contrapposte, ma questo dipende molto dall’anima interiore di chi sfoglia queste pagine. La Mensur con i suoi riti, i suoi gesti e le cicatrici, è uno spazio liberato dalla sorveglianza di un Potere che cerca di spegnere ogni passione intensa che non possa essere ridotta a becero consumismo.

 

NOTE
il libro è disponibile qui –

http://bloodlinebook.bigcartel.com

documenti dell’autore

https://www.albertopalladinoreporter.com

 

Meno male che c’è John Fante

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di io plurali, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente desiderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.
Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

 

Intorno al “Maestro e Margherita” di Bulgakov


Scrivere a lume di candela era un’abitudine di Bulgakov”. La candela afferra il buio, oscilla e costruisce una tenda di luce per lo scrittore.

La candela è la metafora perfetta per raffigurare un libro “affascinante” come Il Maestro e Margherita, un libro-vortice, che sembra incenerire, nel suo sabba verbale, ogni romanzo mai scritto.

Bulgakov aveva iniziato il suo capolavoro nel 1928. Pare – secondo una tradizione che da Virgilio a Gogol’ arriva fino a Kafka – abbia bruciato le prime minute del libro in preda a una crisi di disperazione e d’impotenza. Quel “romanzo sul diavolo” gli rubava il sonno; un libro, d’altronde, deve sempre passare la prova del fuoco. Più prosaicamente: quelli sono anni terribili per Bulgakov. Il dottor Michail Afanas’evič, laureatosi con il massimo dei voti a Kiev, aveva praticato nella più remota provincia, scegliendo, dal 1920, di smettere il camice per darsi alla letteratura. Il successo gli aveva sorriso per un po’. Bulgakov, tuttavia, non era irreggimentato in alcun club di letterati, non si lasciava avvincere da mire politiche: presto cadde in disgrazia; la censura mutilò i suoi libri, le pièce furono soppresse dai teatri sovietici, la polizia segreta gli sequestra diari e quaderni.

La primissima redazione del Maestro e Margherita – scritta al culmine dello scoramento – coincide con la fatidica lettera Al Governo dell’Urss, in cui Bulgakov ribadisce la propria identità di “uomo distrutto” e di scrittore libero: “tutta la stampa dell’Urss, e insieme a essa tutte le organizzazioni alle quali è affidato il controllo del repertorio, per tutti gli anni della mia attività letteraria hanno dimostrato, unanimemente e con straordinaria furia, che le opere di Michail Bulgakov non hanno diritto di esistere in Urss. E io dichiaro che la stampa dell’Urss ha perfettamente ragione”.

Bulgakov chiede di poter espatriare. Il permesso gli è negato. Tuttavia, Stalin, un suo fan – amava I giorni dei Turbin, dramma tratto da La guardia bianca – telefona allo scrittore. L’imponderabile governatore dell’Urss concede a Bulgakov un impiego presso il Teatro dell’Arte di Mosca: pare non fosse un cattivo attore. Stalin chiude la telefonata con una battuta enigmatica, da romanzo: “Sa, io e lei dovremmo incontrarci una volta, parlare un po’”. Bulgakov continuò a scrivergli, memore di quell’appuntamento – Stalin, ovviamente, non si fece più sentire.

Certo dell’impossibilità di pubblicare il suo romanzo, Bulgakov lavora a Il Maestro e Margherita fino al febbraio del 1940, un mese prima della morte. Elena Sergeevna Šilovskaja, la terza moglie di Bulgakov, terminò di battere a macchina il romanzo nel ’41, che uscì in Russia soltanto nel 1966. A dire della prima moglie, Tat’jana, Bulgakov “aveva una brutta pelle… ma era spiritoso, affascinante, sapeva e amava corteggiare le donne”. Amava il gioco. Era superstizioso.

Buon esercizio “natalizio” è leggere dunque Il Maestro e Margherita a partire dai capitoli “evangelici” – Ponzio PilatoL’esecuzioneCome il procuratore tentò di salvare Giuda di Kiriat – di flagellante bellezza, assoluti. La morte per tortura del giusto a Gerusalemme si rispecchia nella sanguinaria assurdità della Mosca sovietica, dove i giusti marciscono in manicomio. Pilato è il mistico opposto di Gesù: quando si riferisce a lui come “giovane folle” usa la parola jurodivyi, “pazzo di Cristo”, il profeta demente, figura miliare della spiritualità russa, in oltraggio a ogni potere, venerato – o egualmente fustigato – dal popolo, che percorre, secondo il duro canone di San Paolo (“chi tra voi si crede sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente” 1 Cor 3, 18) ricalcato nei Racconti di un pellegrino russo, la via dell’insussistenza, del vagabondaggio in Dio, in obbedienza al precipizio. Che il plenipotenziario di Giudea non si opponga all’esecuzione di colui che “si accorge di amare, di aver atteso da sempre”è mistero che annienta ogni dire. Il Maestro e Margherita è anche il romanzo della condanna d’amore (“Seguimi, lettore, e segui me soltanto e io ti mostrerò un simile amore”).

Esiste un episodio poco noto che lega la storia di Bulgakov a quella di Boris Pasternak. Lo ricalco.

Quando Bulgakov, malatissimo e quasi morente, accettò di incontrare il poeta, i due rimasero a lungo a conversare, da soli. Poi Pasternak se ne andò, e la moglie di Bulgakov ricorda che Michail Afanas’evič le disse: “A quello, lascialo sempre entrare”. Non ci fu un secondo incontro, pochi giorni dopo Bulgakov morì. È commovente l’incontro, sulla soglia della morte, tra il grande poeta e il grande romanziere. Pasternak fece tesoro di quella conoscenza: il protagonista del suo unico romanzo, il dottor Jurij Živago, è a sua volta emblema – fin nel nome velato – dello jurodivyj, “colui che rinunciava a un ruolo sociale integrato in cambio della possibilità di denunciare gli abusi e le ipocrisie della società”. Un passaggio di consegne lega questi romanzi della ribellione, da leggere come si entra in un sacrario.

La candela, a volte, si rivela falò.

Pipa, noir e Nestor Burma

Léo Malet è uno dei grandi del genere poliziesco e noir francese, è da molti considerato il padre nobile. Autodidatta, rimasto orfano a quattro anni, viene allevato dal nonno. Si definiva un anarchico conservatore. Conduce una vita inquieta, cambiando diversi mestieri: commesso, impiegato di banca, magazziniere da Hachette, operaio, lavatore di bottiglie, venditore di giornali e comparsa, più propriamente “generico”, per alcuni film. Frequenta gli ambienti anarchici e collabora alle pubblicazioni del movimento (l’Endehors, l’Insurgé, Journal de l’Homme aux Sandales, la Revue Anarchiste).

Vagabonda a Parigi e nel 1925 debutta come chansonnier al cabaret Vache énragée. Nel 1931, conosce Andrè Breton e viene invitato ad unirsi all’ambiente surrealista dove incontra Dalì, Tanguy e Prévert, partecipando alla vita del gruppo fino al 1949. In questo periodo scrive una serie di poesie surrealiste, poi il movimento decide di espellerlo perché accusato di essere diventato “seguace di una pedagogia poliziesca”. Quell’allontanamento sarà una fortuna, perché lo spinge a dedicarsi definitivamente al noir.

Si sposa con Paulette Doucet e insieme fondano il Cabaret du Poète Pendu, un locale che aveva per programma di “mostrare la lingua agli imbecilli”. Durante il periodo difficile della guerra nel 1941, inizia a scrivere polizieschi firmandosi con svariati pseudonimi: Frank Harding, Leo Latimer, Louis Refreger, Omer Refreger, Lionel Doucet, Jean de Selneuves, John Silver Lee. In particolare con lo pseudonimo di Frank Harding crea il personaggio del reporter Johnny Métal, protagonista di una decina di romanzi gialli. Nel 1943 pubblica 120, Rue de la Gare con cui esordisce il suo personaggio più celebre, l’investigatore privato Nestor Burma.

Burma sarà il protagonista di circa trenta storie, inclusa un’interessante “serie nella serie” intitolata I nuovi misteri di Parigi che va dal 1954 al 1959 e comprende quindici racconti, ognuno dei quali dedicato a un diverso distretto di Parigi. Siamo in un periodo compreso tra gli anni cinquanta e sessanta, periodo del grande successo di del commissario Maigret creato dalla penna di Simenon.

Laddove Maigret è un uomo in ordine, un poliziotto regolare che non si scompone troppo e cerca sempre di mantenere il controllo nei gesti e nelle parole, Burma che non è uno sbirro regolare, ma il titolare dell’Agenzia investigativa Fiat Lux, è il perfetto contrario: sbuffa, sbraita, beve e fuma la pipa con nervosismo. Non mancano nei racconti di Leo Màlet le punzecchiature a Simenon e al suo eroe. Nel racconto “La notte di Saint Germain des Prés”, uno dei personaggi in negativo Lebailly, legge i racconti di Maigret. In una scena, Nestor Burma descrive l’incontro col tipo: “Era contento del suo numero, soddisfatto di avermi fatto perdere tempo. Tamburellai le corna della mia pipa sul libro di Simenon: “Anche queste sono sciocchezze”, dissi. “Non abusare di questo genere di letture. Non che siano più nocive della cronaca nera, lascio questo genere di apprezzamenti ai guastafeste che hanno soppresso le case chiuse (…)

Sarà proprio Nestor Burma a riscuotere i maggiori consensi mentre la critica lo “riscoprirà” parecchi anni più tardi, quando ormai Malet si era messo a riposo, con la trasposizione cinematografica di alcune storie e una serie televisiva dal 1991 al 1995, con protagonista l’attore Guy Marchand. Significativa è anche la collaborazione con il disegnatore Jacques Tardi che illustrerà molte avventu-re di Nestor Burma. La versione a fumetti non altera minimamente le caratteristiche del personaggio: leggermente cinico, di buon cuore, riflessivo, con un debole per le belle donne e un personalissimo concetto di giustizia. Come giallista Léo Malet si è divertito a fracassare alibi e apparenze, svelando l’eterna natura umana, sospesa tra il gesto nobile e l’azione miserabile.

La guerra e il conflitto interiore: i “cani di paglia” di Drieu LaRochelle


La guerra è stata per Drieu La Rochelle (1893-1945) un’esperienza decisiva. In lui coesistevano due atteggiamenti contrastanti: uno incline alla belligeranza e l’altro alla pace.
Per quanto viva fosse la disponibilità all’azione, la guerra è per Drieu un ricordo terribile e attraente perché l’esperienza della trincea gli ha consentito di separarsi da quello stile di vita “comodo” che tanto odiava, ma dal quale non riusciva mai a staccarsi.
Lo scrittore francese ha spazzato via tutti i luoghi comuni della letteratura bellica, egli considera il conflitto armato come la riscoperta dell’istinto originario e carnivoro dell’uomo, eccitato non dal sangue, ma dalla frenesia promessa dalla battaglia.
Nella guerra c’è un equilibrio tra coraggio e paura dominata, nelle descrizioni l’autore non cede mai alle storture proprie del combattente che scrive: la retorica patriottica lo disgusta quanto quella pacifista, le vicende sono narrate senza facili sentimentalismi.
Nel romanzo I cani di paglia, riproposto dalle Edizioni di Ar, la Seconda guerra mondiale fa da sfondo a una storia particolare. Durante l’occupazione tedesca Constant Trubert arriva in una proprietà situata nel nord della Francia, con il compito di sorvegliarla per conto del proprietario conosciuto a Parigi poco tempo prima. Constant entra in contatto con gli abitanti del paese, cogliendone caratteri e umori. Col tempo si accorge che tre personaggi, un gollista, un comunista e un collaborazionista, sono per motivi diversi, molto interessati a quella proprietà. Constant scoprirà la ragione di tanta attenzione: nella casa c’è custodito un deposito di armi e i tre vogliono impossessarsene quando la guerra entrerà nella fase decisiva.
Nella partita entra in gioco un quarto uomo: un giovane nazionalista che sogna una Francia indipendente da ogni ingerenza straniera. Constant è indeciso, da un lato vorrebbe partecipare all’intrigo ma una parte di sé gli suggerisce di sottrarsene. Alla fine, è il nazionalista a dover affrontare tutti i suoi avversari e solo Constant è dalla sua parte, affascinato da quell’idea pur nella convinzione della vanità della stessa. Vede nel giovane nazionalista un uomo coraggioso e nobile, seppur destinato al probabile fallimento.
I cani di paglia pone l’interrogativo tra la concretezza dell’azione e l’idealismo del gesto che tutto cancella. Il romanzo riguarda la storia recente della Francia, raccontata da un testimone degli anni dal 1940 al 1945.
La Rochelle non vuole proporre un analisi, ma evidenziare solo la sostanza morale del protagonista del racconto. Il titolo del libro è un richiamo a un brano del testo cinese Tao Te Ching (Libro della Vita e della Virtù): «Il cielo e la terra non sono indulgenti o benevoli al modo degli uomini: essi considerano gli esseri alla stregua di cani di paglia da impiegare nei sacrifici».

Il potere non è più quello di una volta

Moisés Naím
La fine del potere
Mondadori, 2013

Questo saggio affronta il tema della trasformazione del potere e di come noi lo percepiamo. Per semplificare, il potere non garantisce più gli stessi privilegi di un tempo, nel XXI secolo è diventato più facile da conservare, ma più difficile da esercitare e più facile da perdere.
Dai consigli di amministrazione, ai campi di battaglia, passando per il cyberspazio, le lotte per il potere sono più intense che mai, ma rendono sempre meno e la loro asprezza ma-schera una dimensione evanescente, dove le barriere difensive del potere, un tempo solide, ora sono più semplici da colpire. Ciò non significa che il potere sia scomparso o che non vi siano più soggetti che ne possiedono in abbondanza, solo che chi lo detiene è forse più vincolato, più esposto al monitoraggio esterno. Aristotele sosteneva che potere, ricchezza e amicizia erano le tre componenti necessarie per la felicità individuale. Una definizione semplice del potere può essere questa: la capacità di indirizzare o ostacolare il corso o le azioni future di altri gruppi e individui.
Oppure, in altre parole, il potere è la forza che esercitiamo sugli altri e che li porta a com-portarsi come altrimenti non si sarebbero comportati. Tale approccio pratico non è né nuovo né controverso ma è una definizione di Robert Dahl del 1957 contenuta in The con-cept of power. Moisés Naím fa derivare queste modificazioni da tre trasformazioni che definisce: la rivoluzione del Più, della Mobilità e della Mentalità.
La rivoluzione del Più, contrassegnata da aumenti in ogni ambito, dal numero dei paesi a quello degli abitanti, dal tenore di vita al miglioramento dell’istruzione, passando per la quantità di prodotti disponibili sul mercato; la rivoluzione della Mobilità, che ha messo in movimento persone, merci, denaro, idee e valori a velocità in precedenza inimmaginabili verso tutti gli angoli del pianeta; la rivoluzione della Mentalità che riflette gli importanti cambiamenti in termini di aspirazioni e aspettative che hanno accompagnato questi nuovi sviluppi.
Tali cambiamenti hanno favorito in numerosi campi l’arrivo di nuovi soggetti: innovativi e ribelli, attivisti e terroristi. Hanno offerto svariate opportunità ai militanti democratici e a movimenti politici con programmi radicali e aperto all’influenza politica vie alternative, che aggirano e abbattono la formale rigida struttura interna all’establishment. Aumentata la velocità di propagazione, i movimenti orizzontali hanno rivelato anche l’erosione del monopolio esercitato un tempo dai partiti politici tradizionali.
Nella politica internazionale, i piccoli protagonisti – sia paesi “minori” o entità non statali – hanno acquisito nuove opportunità di interferire, dirottare e ostacolare gli sforzi delle grandi potenze. Questi importanti ed eterogenei piccoli protagonisti hanno alcune cose in comune: il fatto che non necessitano più di grandi dimensioni, di ampio raggio d’azione e di una storia e tradizione per lasciare il segno. Rappresentano l’ascesa di un nuovo tipo di potere – un “micropotere” – che in passato aveva poche possibilità di successo. L’ascesa dei micropoteri e la capacità di sfidare i grandi è un fattore importante della nostra epoca. La decadenza del potere non implica l’estinzione dei grandi protagonisti (governi, eserciti, università, multinazionali), le loro azioni avranno ancora un peso notevole, ma più difficile da gestire.
Moises prende di mira due stereotipi sul potere: uno è la fissazione che Internet possa spiegare tutti i mutamenti avvenuti, soprattutto nella politica e negli affari; l’altro è l’ossessione per il cambio della guardia nella geopolitica: il declino di alcune nazioni (esempio gli USA) e l’ascesa di altre (soprattutto la Cina), vengono presentati come la principale tendenza che trasformerà il mondo come lo conosciamo. Il deterioramento di certe forme di potere non è causata specificamente dalle nuove tecnologie. Internet e gli altri strumenti stanno indubbiamente trasformando la politica, l’attivismo, l’economia e, come è ovvio, il potere. Troppo spesso il ruolo della rete viene frainteso o ingigantito, ma questi strumenti per avere un impatto significativo necessitano di utilizzatori, che a loro volta hanno bisogno di scopi, direzioni e motivazioni.
Il ridimensionamento e la trasformazione del potere come l’abbiamo conosciuto cosa sta provocando? Instabilità e disordine? E se questo caos presuppone ordine e logica?

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén