Criticare il capitalismo non significa necessariamente propendere per una soluzione socialista in tutte le sue varianti. Già sarebbe un risultato fare questo salto mentale: essere anti-capitalisti senza immaginare utopie collettiviste che spesso mortificano gli individui. Il capitalismo è esecrabile non tanto perché crea disuguaglianze, ma perché fa prevalere un tipo umano mediocre, venale e spesso vanesio, con scarsa capacità di concentrazione.
Il capitalismo deforma la funzione del capitale che è prima di tutto un atto di fiducia e il suo carburante non è semplicemente il desiderio di proprietà e ricchezza, ma una pulsione alla vanità che non dipende da chi detiene il mezzo di produzione. È un sentimento che coglie anche l’operaio che con il suo lavoro alimenta tutto il ciclo. A testimoniarlo sono le file ordinate, talvolta degenerate in rissa, nei centri commerciali che si spiegano come un impasto di vanità e ricerca di felicità materiale, desiderio di sentirsi parte di uno stesso gruppo, tribù o clan: l’oggetto come segno di riconoscimento.
L’anticapitalismo classico come l’abbiamo conosciuto finora, fatica a comprendere questo sentimento, è troppo distratto nei suoi calcoli e nella progettazione di un migliore schema di distribuzione. Come Marx, avversa il capitale ma lo ammira considerandolo uno strumento indispensabile e formidabile. Il barbuto tedesco non ha sbagliato, ma se ribaltiamo il suo pensiero e cominciamo a spiegare il capitalismo partendo dal capitale, o meglio dalla sua perversione, riusciremo a comprendere meglio quel che accade oggi.
L’esito paranoico, stupido e omologante del capitalismo, non risiede tanto nel furto del lavoro, ma nella potenza sociale della vanità che fa assumere un’identità di sé diversa e quindi sovvertitrice. William Tackeray nella Fiera delle Vanità ha saputo descriverlo meglio di qualunque economista: «La superiore condizione sociale delle giovinette che la circondavano facevano sentire a Rebecca i morsi dell’invidia».
Un vuoto che non si riesce a sopportare e che sperando di riempirsi, ritorna vuoto. L’inesausta crescita del capitalismo, la sua natura fittizia, l’ipnosi televisiva, l’estasi confusa del passeggiare in spazi chiusi, tra vetrine e musica assordante, si alimenta di questo sentimento pieno/vuoto. Annullando ogni altra gerarchia che non sia quella del denaro, si nutre d’invidia, pulsioni evanescenti e dell’illusione di poter comprare tutto a credito, compresa la spiritualità. Persino un’antica disciplina come lo Yoga è finita, nella sua variante a buon mercato, per confondersi con l’odore acre delle magliette sudate in palestra. Si è creata un’oligarchia venale, frenetica e grossolana, inseguita da un ceto medio sempre più povero e indebitato che sogna di diventare come essa. In un continuo precario equilibrio tra “noi” e “loro”, tutti sperano di acquisire una piccola quota di lusso. Un forte desiderio inappagato di sollazzo materiale richiede credito facile, immediato, disponibile: un debito venale che non si estingue mai, più potente di qualunque credito morale.