spari nella notte del conformismo

Tag: occidente

La lunga transizione

 

In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.

La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.

Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.

Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.

Ungern Sternberg, il “barone folle” in lotta contro il tramonto

Ungern Sternberg disegnato da Hugo Pratt

 

Questa è la storia di un uomo che il tramonto dell’Occidente lo portava nel sangue, gli scorreva nelle vene come una malattia. Sangue che nella sua vita fece scorrere a fiumi, combattendo con un pugno guerrieri nel cuore dell’Asia. È la storia di un soldato che intuì il tramonto, come si intuisce una patologia mortale o la traiettoria di una pallottola. E al crepuscolo sentì il dovere di ribellarsi. Vide con chiarezza le negatività del futuro e quella corrusca visione lo spinse a combattere un’impresa impossibile, “alla ricerca delle nostre follie e delle nostre glorie”, come gridava andando alla carica.

La vicenda di Roman Fiodorovic von Ungern Sternberg è quella di un uomo che volle opporsi al declino di una civiltà con un’armata di cavalieri selvaggi, inseguendo il sogno di una nuova utopia. Una storia che è già stata raccontata tante volte. Ha affascinato filosofi, avventurieri, scrittori e sognatori della politica. Non aveva la visione d’insieme né la cultura sottile di Oswald Spengler, mai avrebbe saputo sintetizzare la guerra dei mondi e delle civiltà in un pensiero organico, ma dello scrittore tedesco condivideva il sangue teutonico e la vena melanconica. Il barone Ungern Sternberg mise insieme un’armata a cavallo e lasciò dietro di sé una scia di sangue e profezie, tra le steppe della Mongolia e della Siberia, nel tentativo folle e generoso di fondare un nuovo Impero, anzi secondo le sue parole «per sradicare il male giunto sulla terra per annientare il principio divino nell’animo umano».

Nato a Graz nel 1885 in una famiglia baltica di antico lignaggio cavalleresco (ma le fonti non concordano, secondo altri sarebbe nato nel 1886 in Estonia, sull’isola di Dago), studiò all’Istituto navale di Pietroburgo e approdò a un reggimento di cavalleria cosacca. Della sua tormentata giovinezza si sa che ebbe modo di viaggiare in Mongolia e Cina e nella vecchia Europa prima di combattere con gli eserciti dello Zar sui Carpazi e di unirsi, allo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre nel 1917, alle armate bianche di Semenov che si opponeva all’avvento dei bolscevichi al potere. Lo seguì fin nel cuore dell’Asia, salendo fino al grado di generale e proprio in quelle terre selvatiche, iniziò a prendere forma il suo disegno politico. La storia ha i contorni della leggenda e dell’oblio. La prima cronaca è quella di un personaggio altrettanto irregolare, anche se assai meno tragico, Ferdinand Ossendowski, ingegnere e poligrafo polacco, avventuriero e ministro controrivoluzionario dell’ammiraglio Kolchak.

Ossendowski lo seguì a lungo e fu il primo a narrare le gesta del barone in “Uomini, bestie e dei” un libro importante, come certi libri dal destino carsico, molto amato da René Guenon e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1922. Nel 1938 uscì in Germania la biografia romanzata scritta da Berndt Krauthoff, “Ich befehle. Kampf und Tragoedie des Barons Ungern Sternberg” (Io comando. Battaglia e tragedia del Barone Ungern Sternberg) ispirato dalle testimonianze di Essaul Makejev, autore di un altro libro nel 1926. Nel 1973 Jean Mabire, giornalista francese, scrisse un romanzo sulle imprese e la personalità del generale intitolato “Ungern le baron fou”, ripubblicato dalle edizioni di Ar con il titolo Il Dio della guerra.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén