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Ritratto di Saint Just: il rivoluzionario intransigente e il dandy politico

Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.

Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.

Gli esordi

Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.

Le avventure lisergiche di Jünger e Hofmann

Una vita lunga un secolo quella di Ernst Jünger, morto il 17 febbraio 1998 all’età di 103 anni. Una vita che il suo biografo, Heimo Schwilk ha così riassunto: “Jünger è stato uomo d’azione e di lettere, scrittore e filosofo, “prussiano” e anarchico, tedesco e ribelle, e in fin dei conti testimone della complessità del Novecento”. Lo scrittore tedesco ha combattuto due guerre mondiali, è stato decorato con la Croce di Ferro Pour le Mérite, ha visto due volte il passaggio della cometa nel 1910 e nel 1986, è stato il testimone di un secolo dove le forze della Tecnica hanno assunto dimensioni titaniche. Jünger ha descritto le figure e le strutture emerse da questo magma incandescente, ha tracciato il profilo dell’anarca e del ribelle e di come essi possono vivere in un’epoca dove il potere è sempre più invasivo. Tuttavia non bastano poche righe per descrivere la complessità del pensiero di questo ribelle metafisico con dallo stile aristocratico, quello che vogliamo raccontarvi è il lato nascosto di Jünger, quello che non ti aspetti e del suo rapporto controverso con le droghe psichedeliche e l’amicizia con Albert Hofmann, lo scienziato svizzero che scoprì casualmente l’Lsd e i suoi effetti.

 

“Gentilissimo signor Hofmann, la ringrazio di cuore per i gentili auguri del 20 marzo, così come per i graditi doni, soprattutto per le droghe”.

Comincia così una cordiale lettera del tedesco datata 4 aprile 1949, dove ringrazia l’amico. Anni dopo, nel 1970, Jünger pubblicherà un resoconto di questo suo lungo rapporto speciale con le sostante stupefacenti: il libro intitolato “Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza”, un testo dalla trama irregolare, un’autobiografia su quella oscura passione che spazia tra ricordi di gioventù, suggestioni psichedeliche e letterarie, un vero trip messo per iscritto.

 

“Irradiazione – è la parola che meglio di altre esprime l’influenza sulla mia persona della figura e dell’opera letteraria di Ernst Jünger. Attraverso l’estensione del suo sguardo, che abbraccia in maniera stereoscopica le superfici e le profondità delle cose, il mondo aveva acquistato ai miei occhi un nuovo diafano splendore”. Queste parole scritte da Albert Hofmann testimoniano la forza e il legame tra due uomini straordinari. Il chimico svizzero, vissuto anche lui più di 100 anni, è un personaggio fondamentare per la storia psichedelica.

Nel 1938, Hofmann lavorava sugli alcaloidi, per cercare una sostanza che potesse agire sulla circolazione del sangue. Dopo diversi tentativi, sintetizzò la dietilammide dell’acido lisergico (Lsd-25), ma l’ambiente della chimica non trovò la cosa molto interessante.

Qualche anno dopo, siamo nel 1943, Hofmann tornò a lavorare su quel composto: il 16 aprile, durante un processo di purificazione, urtò un contenitore bagnandosi una mano con l’Lsd. Poco dopo si accorse di essere in uno stato mentale di irrequietezza, con emozioni piacevoli, potenti e una visione complessivamente alterata. Hofmann capì che aveva scoperto qualcosa di importante e cominciò subito a fare degli esperimenti su stesso. Il 19 aprile prese una dose della sostanza di proposito e successivamente, convintosi di avere esaurito l’effetto, tornò a casa in bicicletta. Nel corso del tragitto si accorse che lo spazio interno a lui era deformato, cose e persone assumevano un tratto minaccioso e il suo umore divenne cupo. Il giorno dopo, al contrario, avvertì un effetto di carica positiva. Quella sostanza funzionava ma andava analizzata bene e trattata con estrema accortezza. Da quel momento Hofmann cercò di esaminare e scomporre tutto quello che poteva dall’Lsd, ma dovette riconoscere che era decisamente poco addomesticabile, perché come tutti gli allucinogeni agisce in base all’umore del consumatore. Definiva quella sostanza, “il mio bambino difficile” e nel 1979 uscì il suo libro con quel titolo. L’Lsd poteva dare grandi gioie, ma anche visioni spaventose e incubi e provocare il famigerato bad trip.

Felice Beato, fotografo e avventuriero

Il 2 febbraio 1870 il Japan Weekly Mail di Yokohama pubblicava un curioso annuncio: “Signor F.Beato, “ha il piacere di annunciare al pubblico di Yokohama e ai viaggiatori in visita in Oriente di avere appena completato una bella collezione di album di varie dimensioni, con la descrizione delle scene, degli usi e dei costumi della gente; realizzato dopo aver visitato tutti i luoghi più interessanti del Paese durante un soggiorno di sei anni”. In basso, l’indirizzo dello studio fotografico dove acquistare i souvenir.

Felice Beato era un veneziano con passaporto britannico, un gaudente pieno di talento, il precursore di un’arte che ha cambiato il mondo di vedere il mondo. Nato nel 1832, in Giappone dal 1863, di professione fotoreporter di guerra, uno dei primi al mondo in un’epoca nella quale la tecnica fotografica muoveva i primi passi. Avventuriero, giocatore d’azzardo, Beato è uno dei tanti le cui vite furono segnate dall’epopea bella e dannata dell’espansione coloniale inglese.

Nessuna biografia ufficiale, non ha lasciato diari o corrispondenze che possano aiutarci a cogliere pienamente la sua personalità. Anne Lacoste, curatrice nel 2010 di una mostra fotografica sulle sue opere presso il Getty Museum di Los Angeles ha confermato questo difficoltà, stesso discorso fatto dallo scrittore Sebastian Dobson: “Beato è un soggetto al tempo stesso interessantissimo e frustrante: le fonti primarie scarseggiano”.

La storia del veneziano può essere ricostruita per lo più attraverso la sua attività di fotografo e viaggiatore. Quanto sappiamo di lui è spesso desunto da lettere e citazioni di personaggi che l’hanno conosciuto e ci raccontano qualche aneddoto.

Nella piccola comunità straniera di Yokohama era diventato un personaggio in vista. Amante della compagnia e del buon cibo, racconta il capitano Sydney Henry Jones-Parry che lo aveva conosciuto durante la guerra in Crimea e ritrovato dopo una sosta a Yokohama. Beato dopo averlo insistentemente invitato presso il club che gestiva, gli aveva fatto conoscere degli amici. “Sono stato presentato a un russo come uno che ha trucidato centinaia di suoi connazionali a Sebastopoli e insieme abbiamo concordato che bere buon champagne con Beato fosse meglio che combattere in Crimea”.

Questo è uno dei tanti aneddoti che aiutano a dissipare la nebbia che avvolge la vita del fotografo che sappiamo da ragazzo visse a Corfù e nel 1844 era con la famiglia a Costantinopoli dove c’è stata la prima importante svolta della sua vita. In mezzo all’opulente decadimento dell’Impero Ottomano, Felice Beato aveva conosciuto l’inglese James Robertson, impiegato alla Zecca imperiale turca che si dilettava nella fotografia.  Tra i due si consolida un’amicizia rafforzata dal matrimonio della sorella di Beato con l’inglese. Felice, insieme al fratello Antonio, iniziano come apprendisti nello studio fotografico del cognato che si trovava a Pera, il quartiere fondato dai mercanti genovesi e frequentato dagli occidentali, dove aveva sede il distretto finanziario della capitale.

Negli anni ‘50 dell’Ottocento cominciano una serie di viaggi in Grecia, a Malta e a Gerusalemme. Ormai l’Oriente era tornato a suscitare il fascino per molti europei e se nei decenni passati erano i pittori a descrivere e riprodurre quei luoghi fantastici, adesso con la fotografia i ricchi europei potevano avere un’istantanea di quelle terre senza lasciare il salotto di casa.

La svolta nella carriera di Beato arriverà con il conflitto in Crimea, iniziato nell’ottobre del 1853 che vedeva contrapposta la Turchia sostenuta da Francia e Inghilterra e la Russia imperiale.

Il gesuita che scrisse il primo trattato sul Giappone del XVI secolo

Il 25 luglio 1579 nel porto di Kuchinotsu in Giappone, un uomo sbarca con un seguito di persone, è un gesuita che conosce bene l’Asia, si chiama Alessandro Valignano, è stato inviato in missione da Everardo Mercataro, terzo successore di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

Tre anni dopo, sarà il responsabile di tutta l’attività di evangelizzazione a Est del Capo di Buona Speranza: l’Africa, l’India, Malacca (odierna Malesia), la Cina e il Giappone sono sotto la sua giurisdizione “spirituale”.

Nato a Chieti nel 1539 da una nobile famiglia di origine normanna, destinato a entrare nella Curia romana, si reca a Padova per studiare giurisprudenza e nel 1557, consegue la laurea in utroque jure (ovvero in diritto canonico e diritto civile). Tra Padova e Venezia, conduce per qualche anno una vita spericolata, tanto che il 28 novembre del 1562 viene arrestato proprio a Padova con l’accusa di aver ferito una donna con un coltello. Proclamatosi innocente, resta in carcere per 18 mesi, fino a quando il Quarantia criminal, il tribunale supremo della Repubblica di Venezia, lo condanna all’esilio. Il suo rilascio sarà possibile grazie al risarcimento ricevuto dalla vittima e, soprattutto, per l’intervento del cardinale di Milano, Carlo Borromeo.

Nel corso degli studi presso il Collegio romano scopre gli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, che gli offriranno una chiave di lettura del metodo con cui il Cristianesimo si era diffuso nei primi secoli mediante un adattamento flessibile alle culture preesistenti, greco-romana e siro-giudaica.

Legge affascinato le lettere dall’India e dall’Estremo Oriente di Francesco Saverio, il primo missionario gesuita a mettere piede in Giappone e a quel punto, decide di fare richiesta al superiore generale per andare nelle “Indie orientali”. Passa solo qualche mese e, nel 1573, Mercuriano lo invia in Oriente come Visitatore, cioè suo delegato personale. Passa da Lisbona (le colonie asiatiche sono soggette al Portogallo) e si imbarca il 21 marzo dell’anno successivo per una missione che durerà tutta la vita, fino alla morte a Macao nel 1606.

Adam Worth, il Napoleone del crimine

Un uomo ragionevole non ha il diritto di portare un’arma da fuoco». Parole come queste, fanno infuriare i sostenitori del secondo emendamento della costituzione degli Stati Uniti che dà il diritto ad ogni cittadino di possedere un’arma. A pronunciarle, nelle seconda metà dell’ottocento, fu proprio un rapinatore americano di nome Adam Worth.

«Il più importante, abile e pericoloso criminale di professione che i tempi moderni conoscano» – secondo la definizione degli investigatori londinesi dell’agenzia Pinkerton che tenevano d’occhio i suoi movimenti senza mai riuscire a incastrarlo. Adam Worth era figlio di emigranti tedeschi e come ladro fece il grande balzo di carriera nel 1869 con una rapina alla Boylston Bank di Boston.

Insieme al suo complice “Piano” Charley, fingendosi commercianti di un tonico medicinale, presero un negozio adiacente alla banca e riuscirono a introdursi nella stanza della cassaforte attraverso dei cunicoli sotterranei. Rubarono un milione di dollari e documenti di valore e con quell’enorme bottino Adam Worth si stabilì a Londra, dove visse circondato dal lusso, frequentando circoli aristocratici e feste esclusive. Tra un ballo e una bottiglia di whisky pregiato, nessuno sospettava che quell’uomo dai modi garbati fosse a capo di una centrale internazionale del crimine.

Nella sua casa di Piccadilly furono pianificati colpi realizzati in tutto il mondo, dalla Giamaica al Sudafrica, diventando un punto di smistamento della refurtiva delle più grosse rapine.

La specialità del gruppo di Adam Worth erano, oltre alle truffe e alle rapine ai danni di banche, gli assalti ai treni e ai mezzi blindati postali. Intorno al 1880 partecipò in prima persona al furto di due sacchi di diamanti depositati all’ufficio postale di Hatton Garden a Londra, in occasione del quale i suoi complici chiusero le condutture del gas dalla cantina, lasciando l’ufficio completamente al buio.

L’organizzazione di Worth aveva una struttura piramidale, con una gerarchia rigida dove al vertice c’era lui come pater familias a dispensare buoni consigli: evitare la violenza durante le azioni e l’abuso di alcolici nella vita quotidiana.

Resta un mistero il motivo per cui, nel 1892, Worth fu così poco prudente da partecipare all’assalto di un portavalori in Belgio senza un piano dettagliato e con una squadra poco esperta. Arrestato a Lüttich (Liegi), fu condannato a sette anni di reclusione in isolamento, esperienza che lo segnò psicologicamente portandolo alla morte nel 1902 poco tempo dopo la scarcerazione.

La figura leggendaria di Adam Worth ispirerà sir Arthur Conan Doyle nel tratteggiare il personaggio del Prof. Moriarty, il nemico per eccellenza di Sherlock Holmes. «Lui è il Napoleone del crimine, Watson. È dietro alla metà delle cose malvagie che accadono in questa città e a quasi tutti i crimini irrisolti»

Francis Scott Fitzgerald, una vita tra euforia e tormenti

Quando, il 21 dicembre del 1940, Francis Scott Fitzgerald, concludeva a Hollywood la sua tragica esistenza, pochi si ricordavano di lui, la maggior parte si limitava ricordarne con rimpianto, l’aver vissuto intensamente quel decennio allegro e irresponsabile dopo la prima guerra mondiale e che egli stesso aveva ribattezzato “l’età del jazz”. In quel periodo erano in molti a considerarlo uno scrittore fallito, un talento che si era consumato lasciandosi sedurre dal denaro facile dei racconti sulle riviste illustrate. Ha narrato l’euforia e le contraddizioni di quel periodo, Il grande Gatsby, pubblicato nel 1925, è stato probabilmente il romanzo più riuscito.

Chi è stato Fitzgerald? Era nato a Saint Paul in Minnesota, il 24 settembre 1896 su quella terra che i sioux chiamavano Mnisota, “fiume dall’acqua torbida”, come il suo destino. Una vita sregolata e una personalità oscillante: da una parte il sognatore idealista, romantico, ingenuo ed espansivo pronto a prendere tutto sul serio, dall’altra il moralista distaccato che osserva il mondo con un piglio sarcastico.

Molti suoi scritti conservano tutta la loro attualità perché trattano il dramma di un’epoca cinica e materialista. Il significato profondo della sua opera sta tutto qui. Da Amory Blaine, il giovane protagonista di Di qua dal Paradiso, cresciuto per trovare “tutti gli dèi morti, tutte le guerre combattute, tutte le fedi nell’uomo scosse”, ad Anthony Patch, protagonista di Belli e dannati, da Gatsby ostinato ad inseguire un sogno senza speranza, fino a Dick Diver, il giovane medico che logora se stesso mentre guarisce la sua paziente, protagonista di Tenera è la notte. Tutti questi personaggi manifestano un disagio perché cresciuti con ideali più nobili e, dopo essere venuti a contatto con la società moderna, non trovano terreno fertile dove edificare quelle idee. Lottano con tenacia, non si adeguano alle circostanze, finché vengono ineluttabilmente travolti e sconfitti.

Fitzgerald è più a suo agio con storie che contengono elementi biografici e come loro, sta “dentro e fuori” come Nick Carraway, personaggio de Il grande Gatsby che durante un ricevimento noioso, partecipa distratto a una discussione mentre è completamente assorto nei suoi pensieri:

“Avevo voglia di uscire fuori, e camminare verso est, in direzione del parco, nel languido crepuscolo, ma ogni volta che cercavo di andarmene mi trovavo invischiato in qualche accanita, aspra discussione che mi inchiodava alla seggiola come se vi fossi legato con una corda”.

La contraddizione costante tra idealismo e scetticismo, è alla base dell’atteggiamento di Scott verso la vita dei ricchi, il principale tema delle sue opere. Cresciuto con gli ideali aristocratici del padre, come onore, cortesia e “buoni istinti” si rende conto che questi ricchi vivono di felicità effimere, di apparenze e forse li disprezza un poco anche se è attratto da quello stile di vita. Più che diventare benestante, si illuse di conservare a lungo la felicità attraverso il denaro, ma si accorse presto che era qualcosa di breve e passeggero.

Paul Morand e l’Europa elegante che si è smarrita

Una vita in continuo movimento, il viaggio, di lavoro o di piacere, come impulso emotivo: “Per quanto torni indietro con la memoria, trovo sempre questo desiderio d’essere altrove, implacabile e tenace come una ferita, gli atlanti geografici spalancati”.

Paul Morand scrittore e diplomatico francese nato a Parigi nel 1888 da buona famiglia, educato a Oxford poco più che ventenne è già in carriera e in società ma, è nel decennio compreso tra il 1920 e il 1930 che marca il segno e racconta quegli anni folli, turbolenti, frettolosi popolati da uomini e donne sopra e sotto le righe.

“Ciascuno di noi ha dieci anni di tempo per cantare la propria canzone”. Un invito a non sprecare tempo o più probabilmente a dargli la giusta intensità. Durante la prima guerra mondiale è a Londra, il suo “Journal d’un attaché d’ambassade, è lo straordinario ritratto dell’Europa e della Francia che ancora sono convinte di essere il centro del mondo e non sanno che la guerra sarà l’inizio del declino. Pagine dove si raccontano storie e non manca il campionario di personaggi e battute sarcastiche. Nei corridoi dell’ambasciata si ride degli alleati, dopo le operazioni navali nello stretto dei Dardanelli che causarono un mucchio di perdite, “Churchill è la iettatura fatta uomo”. Osservando quel che accade a Parigi, Morand si rende conto di una nazione sotto il controllo di gente vecchia nell’anima prima ancora che per l’età, capace di attraversare tutte le stagioni politiche senza rinnovarsi. “Uno di questi giorni rispunterà persino Talleyrand. Il nostro turno verrà nel 1960. Non è per avidità che ho fretta. Al contrario è perché non tengo abbastanza alle cose per desiderarle a lungo”.

Cala il sipario sul conflitto: morti, feriti, macerie, nuovi equilibri politici e il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle e riprendere la vita. Ci si vuole stordire un po’, divertirsi e pensare senza complicazioni. Morand è pronto a esaudire questo desiderio.

“Da non lasciar leggere alle ragazze”, è lo slogan della campagna pubblicitaria del suo libro di racconti, Ouvert la nuit, pubblicato nel 1923. Un successo editoriale pazzesco, diecimila copie in undici giorni. Uno stile di scrittura per un autore pieno di curiosità: immagini e frasi fulminanti che descrivono lo spirito del tempo. Tre anni dopo pubblica Fermé la nuit. Sono le pagine di un cronista mondano che descrive con ironia ambienti in declino e l’oscurità di chi mette a riposo il decoro borghese quando è possibile.

“Mi misi a leggere i tratti della mia compagna di viaggio, come una mappa per non sbagliarmi strada. Ci tenne a definire la sua posizione rispetto ai differenti partiti politici spagnoli. Da parte mia misi così tanta volontà nell’ascoltarla che mi addormentai”.

Wilfred Thesiger, l’aristocratico avventuriero

Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.

In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.

Il terreno dove si fermarono per la notte era accidentato, Eric e il suo compagno tirarono fuori i materassi da campo. “Dio mio, che coppia di checche…”, fu il commento sarcastico di Thesiger mentre si sdraiava sulle rocce.

Figlio di diplomatici, primo inglese a nascere in Etiopia, dove il padre era ministro plenipotenziario, aveva passato la sua infanzia in un mondo dal “barbarico splendore”. Ignorava il cricket e il football, ma sapeva tutto di caccia, non si occupava delle questioni politiche, ma aveva visto la sanguinosa lotta per la successione al trono di Menelik, con i vinti trascinati in catene, il suono assordante dei tamburi, l’armata vittoriosa di Ras Tafari con le insegne e il bottino di guerra. In questa enclave cristiana in mezzo alle terre islamiche, Thesiger dopo essere ritornato in patria, si dovette adattare a un ambiente fatto di regole di comportamento, riti sociali, gerarchie dove nulla di ciò che gli piaceva era di moda, un piccolo mondo di compunti funzionari che vedevano in lui solo il lato disdicevole di non appartenenza allo stesso clan sociale. Il giovane Thesiger, troverà nei pugni, nell’isolamento e della letteratura epica una strategia di sopravvivenza. Fu rispettato e accettato, ma non compreso. Eppure tutti i condizionamenti esterni e il clima familiare non bastano a spiegare la formazione di un carattere.

Da Lisbona a Calicut, il viaggio che consacrò Vasco da Gama

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

 

Aldo Manuzio, tipografo, editore e innovatore della “forma” del libro

Cinquecento anni fa a Venezia, il tipografo Aldo Manuzio rinnova fortemente la concezione del libro. Con lui è sorto il mestiere dell’editore inteso come diffusore di cultura e non più semplice stampatore, le sue innovazioni sono alla base del libro-oggetto così come lo conosciamo.
Aldo nasce nel 1450 a Bassiano, un piccolo borgo del Ducato di Sermoneta, a sudest di Roma. Studia nelle capitale papale e negli anni compresi tra il 1467 e il 1475 frequenta i circoli vicini al cardinale Bessarione, un intellettuale greco fuggito da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453).
A Bessarione si deve un dono inestimabile: il lascito alla Repubblica di Venezia dei manoscritti ellenici che costituirono il nucleo su cui sarà fondata la biblioteca Marciana, l’unica istituzione della Serenissima ancora attiva. In quel periodo Manuzio impara il greco e poi lo perfeziona a Ferrara, nel 1480 si trasferisce a Carpi a fare l’educatore presso una famiglia aristocratica. Tra il 1489 e il 1490, va a vivere a Venezia ma non sappiamo il motivo del trasferimento e nemmeno perché abbia deciso di mettersi a fare lo stampatore. Il primo libro che pubblica è la sua grammatica greca, che fa stampare presso l’officina di Andrea Torresani che diventerà suo suocero quando sposerà la figlia.

La prima officina editoriale di Manuzio è nella zona dei Frari, il suo progetto è definito: stampare i classici in latino e greco, pubblicare Dante e Petrarca nelle revisioni di Pietro Bembo e stampare libri in lingua volgare per consentire a un pubblico più di leggere senza necessariamente conoscere una lingua dotta. Il libro deve diventare un oggetto popolare e per questo decide di ridurre le dimensioni dei volumi. Prima di lui, i libri erano dei tomi grandi, pesanti, costosi e si consultavano appoggiati a un leggio per questo motivo, nel 1501 Manuzio stampa il primo tascabile. Quel formato “portatile”, costa pochi denari, se lo possono permettere studenti, artigiani, mercanti ed è semplice da trasportare. Il libro comincia a essere letto in molti luoghi prima inaccessibili, diventa svago e non più soltanto strumento di lavoro e istruzione.

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