spari nella notte del conformismo

Mese: Aprile 2025

Ritratto di Saint Just: il rivoluzionario intransigente e il dandy politico

Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.

Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.

Gli esordi

Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.

Jorge Luis Borges, il Labirinto e la Biblioteca

 

Parlare di Jorge Luis Borges significa evocare un profondo conoscitore e utilizzatore di simboli. In un’epoca in cui i grandi archetipi umani, veicolati dalla mitologia, rischiano di essere oscurati o ridotti a caricature da certi discorsi mistificanti, abbiamo bisogno di rimettere le idee in ordine con la sguardo rivolto verso Buenos Aires, grandiosa e vertiginosa come molti scritti del suo illustre cittadino.

L’Aleph e Finzioni, sono le raccolte più conosciute di Borges, in essa ricorrono spesso due costruzioni simboliche, entrambe imitazioni umane della Struttura per eccellenza – il Mondo, l’Universo – e due archetipi estremamente significativi: il Labirinto e la Biblioteca.

I personaggi de Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel tentativo di comprendere che tipo di labirinto sia stato progettato dal cinese Ts’ui Pen, scoprono che esso non è un edificio, ma un enorme romanzo, intitolato come il racconto che ne parla e formato da un’immensa quantità di “manoscritti caotici” con una “trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, che comprende tutte le possibilità”.

Il labirinto di Ts’ui Pen coincide con le innumerevoli possibilità dello svolgimento di un testo e una trama. Nello scritto La Biblioteca di Babele, invece, il labirinto coincide con un’immensa e incalcolabile moltiplicazione di libri, è l’intero universo dei testi edificabili con i caratteri alfabetici occidentali, così da fondere Biblioteca e Labirinto che simboleggiano l’universo e le numerose interpretazioni da parte della mente umana. La legge fondamentale di questo smisurato microcosmo è che “tutti i libri, per diversi che fossero, constatavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Inoltre (…) non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identitici”.

Borges appare come una figura archetipica: il Poeta cieco, simile all’Indovino e al Profeta, che non può vedere la realtà con gli occhi del corpo ma è dotato di una vista metafisica, altra e differente. Un richiamo alla figura mitologica di Tiresia, cieco ma capace di prevedere il destino di Ulisse. Lo scrittore e bibliotecario argentino era un incrocio da un punto di vista letterario, a metà strada tra il poeta e il filologo, l’erudito e l’esoterista.

Il Labirinto resta una struttura che presuppone un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta.

Noi moderni, invece, siamo troppo spesso presi dalle emozioni superficiali e dal desiderio di liberarci di qualsiasi struttura capace di ricordare che la libertà è qualcosa di limitato, rigettiamo ogni corridoio ideologico per evitare il Labirinto ed eventuali mostri, ma abbandonando tutto, restiamo dispersi e smarriti in un nuovo labirinto “dove – ricorda Borges – “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. (I due re e i due labirinti).

Suggestioni: la celtica Cerridwen e la Janara di Benevento

Le fonti classiche non ci dicono molto sul ruolo delle donne nella società celtica. Popolo di agricoltori, allevatori e abili mercanti con una rete commerciale molto estesa, avevano un senso del sacro molto elevato, con un pantheon di divinità popolari legate ad ogni clan (Tauath), e, ad un livello più elevato, una religiosità esercitata dai Druidi, incentrata sul culto delle forze naturali. Alcune saghe e dei reperti archeologici ci restituiscono un’immagine della donna celtica dotata di libertà rilevanti e in alcuni casi, di un potere enorme. Sarebbe un errore dedurre che quello celtico fosse un mondo matriarcale ma, quello che si riscontra, è un sostanziale equilibrio di gerarchia, ruoli definiti e ampi margini di libertà.

La dimensione religiosa era quella che esprimeva la più alta considerazione delle donne. L’élite celtica era composta da Druidi e Druidesse forgiata da venti anni di studio di letteratura, poesia, storia, astronomia, erboristeria e medicina oltre allo studio dei riti e della dimensione del sacro. Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione di figure sacerdotali femminili, solo nel I secolo d.C., è Tacito a scrivere che “I Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine”. Essendo una cultura prevalentemente orale, è difficile comprendere se ci fosse una commistione tra potere religioso e politico. Alcune tracce confermano l’esistenza di un potere politico da parte di alcune donne, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a descrivere la presenza di druidesse e “donne sagge nel mondo celtico: incantatrici, veggenti e persino esecutrici di riti sacrificali. Nella ricca strutturazione religiosa celtica, oltre certe rielaborazioni romanzesche, c’è una figura divina interessante, portatrice di luce e ombra.

Cerridwen o Kerridwen (si pronuncia Kerriduen) è una delle più antiche divinità del mondo celtico, dea del fuoco che alimenta la coscienza trascendente nel suo calderone magico. Come la greca Demetra e l’egizia Iside è grande fonte d’ispirazione dell’intelligenza e della conoscenza, il fuoco della luce interiore. Tuttavia porta con sé anche degli aspetti oscuri e violenti che ritroviamo nella dimensione della Natura. Il lato ombroso, un po’ ambiguo di Cerridwen si trova nelle descrizioni come donna “bella e spaventosa” ma anche di “strega sorridente”. A dimostrazione delle conoscenze magiche e divinatorie. In una duplice dimensione di luce e ombra, nascita e morte soprattutto in senso spirituale.

Figure del genere sono presenti in tutte le antiche tradizione europee, c’è un flusso suggestivo che attraversa i territori del vecchio continente e si intreccia nel folklore e nelle leggende popolari come quella della Janara della tradizione di Benevento.

Non è divina ma è una figura femminile che aveva conoscenze di erboristeria e arti magiche e come tale, è una donna carica di contraddizioni, portatrice di bene e male. Nella tradizione contadina la Janara è quasi sempre una figura malefica. Secondo la tradizione, infatti, bisognava posizionare davanti alla porta una scopa capovolta o un sacchetto con grani di sale così lei li avrebbe contati fino al sorgere dell’alba, quando la luce, sua nemica, l’avrebbe costretta a scappare, lasciando tranquilli gli abitanti di quella casa.

Ma questa descrizione negativa risente di un’interpretazione troppo condizionata dal Cristianesimo e da una non corretta descrizione dei riti sabbatici. Il suo nome deriverebbe da Dianara, sacerdotessa di Diana o secondo altri, da Ianua, letteralmente “porta”, quella tra la dimensione fisica e metafisica. In quanto donna dotata di saggezza, esiste anche una forma positiva della Janara, dove ritroviamo benedizione, guarigione e benessere spirituale.

E se provassimo ad immaginare una somiglianza tra Cerridwen e la Janara? Entrambe dotate di saggezza, espressione di luce e oscurità, dell’intreccio del bene e del male, del sottosopra tra materia e spirito. Può darsi che la nostra sia solo una suggestione, ma chi ci può vietare di intraprendere percorsi ancora non battuti?

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