spari nella notte del conformismo

Categoria: taccuino Page 1 of 6

Lo Zen e la motocicletta

 

Esistono libri che sono l’autobiografia di un secolo. Qualche esempio: Ulisse di Joyce, Nelle tempeste d’acciaio di Junger o Sulla strada di Kerouac, hanno descritto momenti della storia e dello spirito dell’Occidente contraddistinto da quella tensione vitale che scuote l’immobilità di un’esistenza troppo ferma. Libri come questi resistono nel tempo a differenza di quelli senza sostanza e carattere che si ammassano nelle librerie. Sono consultati come oracoli, non da tutti, ma da uomini e donne che riescono a svelare il mistero che trasforma i suoi autori in complici e ti fa esclamare, “è uno di noi”. Un codice fatto di segni, gesti e parole.

Nel 1974 usciva negli Stati Uniti un libro che diventerà un culto, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, scritto da Robert M. Pirsig. In Italia sarà tradotto da Adelphi nel 1981. Un successo strepitoso, oltre tre milioni di copie vendute dopo avere collezionato un numero impressionante di rifiuti editoriali, ben 191. Un record anche questo.

Quello di Pirsig è un discorso filosofico inserito nella trama di un romanzo. La storia racconta il viaggio in motocicletta dal Minnesota verso Ovest di un padre, Fedro, (chiaro riferimento a Platone) in compagnia del figlio undicenne, Chris.

“Abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito”.

Un’avventura attraverso l’America sulla sella di una moto, ma anche la descrizione di una visione del mondo alla ricerca delle migliori qualità individuali, senza la pretesa di imbastire grandi progetti utopistici o programmi di correzione sociale. Una riflessione tra spiritualità e tecnica, esoterismo, cultura di massa e tradizioni. In questa prospettiva, Pirsig non rifiuta la modernità, ma assume un atteggiamento assertivo, sarcastico verso chi intimorito dalle forze esplosive della tecnica, immagina alternative di vita neo bucoliche, ma poi non riesce a rinunciare a certe “comodità”.

“Penso – si legge nelle prime pagine – che la fuga dalla tecnologia e l’odio nei suoi confronti portino alla sconfitta. Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”.

Questo libro apparve in un periodo storico di ubriacature ideologiche e per molti servì a smaltire la sbornia delle feroci contrapposizioni. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta registrava uno stato d’animo diffuso: basta con le velleità di cambiare il mondo, è arrivato il momento di riscoprire il gusto di occuparsi di sé stessi, della propria vita, di recuperare quelle qualità individuali disperse nel disordine delle passioni di massa.

È stato un ripiegamento rispetto alle grandi ambizioni di cambiamento della società? Forse sì, ma da un’altra prospettiva, Pirsig indicava strada diversa: “Non voglio più entusiasmarmi per grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale (…)”

Con la sua moto, egli presenta una nuova etica cavalleresca. In fondo chi sono i motociclisti? Nuovi cavalieri con araldi e vessilli: giubbotti, guanti, stivali, caschi, toppe, adesivi e l’asfalto come spazio libero di manovra e contesa. Istinto e ragione.

Jorge Luis Borges, il Labirinto e la Biblioteca

 

Parlare di Jorge Luis Borges significa evocare un profondo conoscitore e utilizzatore di simboli. In un’epoca in cui i grandi archetipi umani, veicolati dalla mitologia, rischiano di essere oscurati o ridotti a caricature da certi discorsi mistificanti, abbiamo bisogno di rimettere le idee in ordine con la sguardo rivolto verso Buenos Aires, grandiosa e vertiginosa come molti scritti del suo illustre cittadino.

L’Aleph e Finzioni, sono le raccolte più conosciute di Borges, in essa ricorrono spesso due costruzioni simboliche, entrambe imitazioni umane della Struttura per eccellenza – il Mondo, l’Universo – e due archetipi estremamente significativi: il Labirinto e la Biblioteca.

I personaggi de Il giardino dei sentieri che si biforcano, nel tentativo di comprendere che tipo di labirinto sia stato progettato dal cinese Ts’ui Pen, scoprono che esso non è un edificio, ma un enorme romanzo, intitolato come il racconto che ne parla e formato da un’immensa quantità di “manoscritti caotici” con una “trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, che comprende tutte le possibilità”.

Il labirinto di Ts’ui Pen coincide con le innumerevoli possibilità dello svolgimento di un testo e una trama. Nello scritto La Biblioteca di Babele, invece, il labirinto coincide con un’immensa e incalcolabile moltiplicazione di libri, è l’intero universo dei testi edificabili con i caratteri alfabetici occidentali, così da fondere Biblioteca e Labirinto che simboleggiano l’universo e le numerose interpretazioni da parte della mente umana. La legge fondamentale di questo smisurato microcosmo è che “tutti i libri, per diversi che fossero, constatavano di elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Inoltre (…) non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identitici”.

Borges appare come una figura archetipica: il Poeta cieco, simile all’Indovino e al Profeta, che non può vedere la realtà con gli occhi del corpo ma è dotato di una vista metafisica, altra e differente. Un richiamo alla figura mitologica di Tiresia, cieco ma capace di prevedere il destino di Ulisse. Lo scrittore e bibliotecario argentino era un incrocio da un punto di vista letterario, a metà strada tra il poeta e il filologo, l’erudito e l’esoterista.

Il Labirinto resta una struttura che presuppone un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta.

Noi moderni, invece, siamo troppo spesso presi dalle emozioni superficiali e dal desiderio di liberarci di qualsiasi struttura capace di ricordare che la libertà è qualcosa di limitato, rigettiamo ogni corridoio ideologico per evitare il Labirinto ed eventuali mostri, ma abbandonando tutto, restiamo dispersi e smarriti in un nuovo labirinto “dove – ricorda Borges – “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”. (I due re e i due labirinti).

Suggestioni: la celtica Cerridwen e la Janara di Benevento

Le fonti classiche non ci dicono molto sul ruolo delle donne nella società celtica. Popolo di agricoltori, allevatori e abili mercanti con una rete commerciale molto estesa, avevano un senso del sacro molto elevato, con un pantheon di divinità popolari legate ad ogni clan (Tauath), e, ad un livello più elevato, una religiosità esercitata dai Druidi, incentrata sul culto delle forze naturali. Alcune saghe e dei reperti archeologici ci restituiscono un’immagine della donna celtica dotata di libertà rilevanti e in alcuni casi, di un potere enorme. Sarebbe un errore dedurre che quello celtico fosse un mondo matriarcale ma, quello che si riscontra, è un sostanziale equilibrio di gerarchia, ruoli definiti e ampi margini di libertà.

La dimensione religiosa era quella che esprimeva la più alta considerazione delle donne. L’élite celtica era composta da Druidi e Druidesse forgiata da venti anni di studio di letteratura, poesia, storia, astronomia, erboristeria e medicina oltre allo studio dei riti e della dimensione del sacro. Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione di figure sacerdotali femminili, solo nel I secolo d.C., è Tacito a scrivere che “I Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine”. Essendo una cultura prevalentemente orale, è difficile comprendere se ci fosse una commistione tra potere religioso e politico. Alcune tracce confermano l’esistenza di un potere politico da parte di alcune donne, ma sono soprattutto le saghe come il Mito di Finn a descrivere la presenza di druidesse e “donne sagge nel mondo celtico: incantatrici, veggenti e persino esecutrici di riti sacrificali. Nella ricca strutturazione religiosa celtica, oltre certe rielaborazioni romanzesche, c’è una figura divina interessante, portatrice di luce e ombra.

Cerridwen o Kerridwen (si pronuncia Kerriduen) è una delle più antiche divinità del mondo celtico, dea del fuoco che alimenta la coscienza trascendente nel suo calderone magico. Come la greca Demetra e l’egizia Iside è grande fonte d’ispirazione dell’intelligenza e della conoscenza, il fuoco della luce interiore. Tuttavia porta con sé anche degli aspetti oscuri e violenti che ritroviamo nella dimensione della Natura. Il lato ombroso, un po’ ambiguo di Cerridwen si trova nelle descrizioni come donna “bella e spaventosa” ma anche di “strega sorridente”. A dimostrazione delle conoscenze magiche e divinatorie. In una duplice dimensione di luce e ombra, nascita e morte soprattutto in senso spirituale.

Figure del genere sono presenti in tutte le antiche tradizione europee, c’è un flusso suggestivo che attraversa i territori del vecchio continente e si intreccia nel folklore e nelle leggende popolari come quella della Janara della tradizione di Benevento.

Non è divina ma è una figura femminile che aveva conoscenze di erboristeria e arti magiche e come tale, è una donna carica di contraddizioni, portatrice di bene e male. Nella tradizione contadina la Janara è quasi sempre una figura malefica. Secondo la tradizione, infatti, bisognava posizionare davanti alla porta una scopa capovolta o un sacchetto con grani di sale così lei li avrebbe contati fino al sorgere dell’alba, quando la luce, sua nemica, l’avrebbe costretta a scappare, lasciando tranquilli gli abitanti di quella casa.

Ma questa descrizione negativa risente di un’interpretazione troppo condizionata dal Cristianesimo e da una non corretta descrizione dei riti sabbatici. Il suo nome deriverebbe da Dianara, sacerdotessa di Diana o secondo altri, da Ianua, letteralmente “porta”, quella tra la dimensione fisica e metafisica. In quanto donna dotata di saggezza, esiste anche una forma positiva della Janara, dove ritroviamo benedizione, guarigione e benessere spirituale.

E se provassimo ad immaginare una somiglianza tra Cerridwen e la Janara? Entrambe dotate di saggezza, espressione di luce e oscurità, dell’intreccio del bene e del male, del sottosopra tra materia e spirito. Può darsi che la nostra sia solo una suggestione, ma chi ci può vietare di intraprendere percorsi ancora non battuti?

Gli esordi della cultura psichedelica: una variopinta compagnia

 

Gli apologeti della cultura psichedelica la definiscono “la storica giornata del 1943”. Tutto era cominciato nella severa Svizzera, nei laboratori della Sandoz di Basilea, quando il dottor Albert Hoffman stese il resoconto dell’assunzione involontaria in corpore vili, cioè il suo, di una dosa minima di una sostanza che già aveva sintetizzato anni prima e che per la sua struttura molecolare e le proprietà fisiche aveva denominato “Acido dietilamidico dextro tartrato 25, dove venticinque era il numero di registro in una serie di composti sintetici della Sandoz. “Nel pomeriggio del 16 aprile 1943 fui costretto a interrompere il mio lavoro di laboratorio e a tornare a casa. Ero stato preso da una strana agitazione insieme con una leggera vertigine. Giunto a casa, mi stesi e caddi in una specie di delirio che non era affatto spiacevole e che era caratterizzato da una grande attività della mia immaginazione. Fui invaso da una serie ininterrotta di immagini fantastiche di un’intensità straordinaria, accompagnate da colori caleidoscopici della maggiore vivacità”.

Facciamo un salto fino al 1961. Aldous Huxley e Timothy Leary partecipano al quattordicesimo congresso internazionale di psicologia applicata a Copenhagen. Da qualche anno, sempre il dottor Hoffmann, era riuscito a sintetizzare in laboratorio la psylocibina, l’alcaloide dei funghi allucinogeni. Da anni, in alcuni centri di psichiatrici, si sperimentavano queste sostanze per il trattamento di alcune forme gravi di psicosi e dipendenza da alcol.

Aldous Huxley

Huxley non era uno psichiatra ma un romanziere e saggista che aveva descritto le sue esperienze allucinogeni. Autore di molti libri, come storico aveva investigato sul rapporto tra esperienza mistica, teologia e potere. Due testi particolari, il primo, “L’eminenza grigia”, dove si narrano le vicende di François Leclerc du Tremblay, un aristocratico francese entrato nell’ordine dei Cappuccini con il nome di padre Giuseppe e divenuto celebre come ministro degli esteri e capo del servizio segreto sotto il governo di Richelieu nella Francia del Diciassettesimo secolo. L’altro libro controverso,“I Diavoli di Loudun” ricostruiva la vicenda di una presunta possessione che nel Seicento aveva coinvolto un prete, Padre Urbain Grandier e un intero convento di Orsoline.

«La comunicazione teologica di una visione o anche di un’esperienza mistica spontanea è “grazia gratuita”. Queste cose sono una grazia, esse ci sono date, noi non facciamo nulla perché ci arrivino e sono gratuite, il che significa che non sono sufficienti per la salvazione o l’illuminazione, comunque vogliamo chiamarla. Ma se sono usate in modo giusto, se sono assecondate, se il ricordo di esse è considerato importante e chi le ha vissute lavora secondo le vie che gli stono state indicate, esse possono essere di grande importanza nel cambiare la vita di una persona”. Così Huxley chiudeva il suo discorso al congresso danese, convinto che le esperienze mistiche attingessero a una regione del nostro cervello non in contatto con la realtà quotidiana.

Molto più mondano e pop, fu l’intervento di Leary, professore di Harvard che Richard Nixon ebbe a definire “l’uomo più pericoloso d’America”. Una vita controversa: nel 1965 si becca un’assurda condanna a trent’anni di reclusione per possesso di marijuana, evade nel 1970 con la complicità del gruppo radicale armato dei Weather Underground. Latitante prima ad Algeri, ospite di Elridge Cleaver, capo del cosiddetto governo in esilio delle Black Panther e poi da lì entrato in Svizzera dove sposa una donna ricca. Fuggito dalla terra elvetica, viene arrestato da agenti americani dopo essere atterrato a Kabul, dove un manipolo di giovani in fuga dall’Occidente l’aspettava per festeggiarlo al Siegi’s il bar dove per farsi una canna bastava raccogliere l’hashish rimasto nelle venature consunte dei tavoli di legno.

 

Timothy Leary

 

Timothy Leary da anni si vantava, senza aver provato nulla, dei suoi trattamenti con droghe psichedeliche agli alcolizzati e ai criminali. Erano esperimenti che all’inizio venivano tollerati dall’Università di Harvard e dalla stessa CIA che in quegli anni diffondeva queste sostanze. Leary in un primo momento non aveva un afflato mistico, poi quando la psylocibina e l’LSD vennero inclusi nell’elenco degli stupefacenti, fondò una specie di chiesa denominata League for Spiritual Discovery, solo per utilizzare legalmente a scopo di culto le sostanze psichedeliche che la legislazione statunitense garantiva alla chiesa nativa americana.

Letture e riletture. Una “sfida nel Kurdistan” di Jean Jacques Langendorf

 

“Epperò non sono mai mancati i selvaggi ebbri della vita, mai gli aristocratici del sogno, sereni e cupi, i guerrieri, i lanzichenecchi e gli avventurieri; in poche parole, non sono mai mancati coloro per i quali il mondo dei datori di lavoro e degli stipendiati, degli affari e del denaro è del tutto indifferente”.

Ernst Jünger, Il cuore avventuroso

 

C’è un libro di Jean Jacques Langendorf, “Una sfida nel Kurdistan”, esemplare di un certo modo di essere e di stare al mondo. Racconta di una giovane spia tedesca in Medio Oriente durante la seconda guerra mondiale, un terreno di manovra in apparenza secondario rispetto al campo di battaglia europeo, dove egli ha la possibilità di giocare la sua partita della vita. Con il passare dei giorni, il protagonista si rende conto che quel a lui interessa, non sono tanto le implicazioni politiche della missione, ma la sensazione di essere artefice del proprio destino e non una semplice pedina di un gioco. Langendorf da storico aveva scritto un perfetto romanzo di avventura, senza aver dovuto provare necessariamente quell’esperienza per raccontarlo. Aveva definito un modo di porsi nei confronti della vita, un antidoto contro quest’ansia di successo, consumo e denaro, dove l’insignificante è portato a livelli esasperati. Testimonia come nelle pieghe del quotidiano si può provare l’inebriante libertà dell’avventuriero.

 

 

In un’intervista del settembre 2022 pubblicata sulla rivista Livr’Arbitres a proposito di questo libro, Langendorf aveva dichiarato:

Romanzi come Una sfida nel Kurdistan, o non se ne fanno più, o gli editori non li vogliono più. Perché la vena si è inaridita?

“La vena si è inaridita perché si è riversata su altro, giallo, fantascienza, romanzo storico, ecc. E poi la fonte si è prosciugata, drenata dallo psicologismo, dall’introspezione, dall’estetismo. Non ci sono più avventurieri politici. In un’epoca sprofondata, si può solo scrivere dello sprofondamento. Ma forse c’è ancora un orafo che lavora nel suo angolo (…)

 

 

La “battaglia di Roma” dei futuristi al teatro Costanzi

Version 1.0.0

Il futurismo “conquista” Roma nel 1913, riuscendo a fare breccia nell’ambiente della capitale con le serate al Teatro Costanzi, l’attuale teatro dell’Opera; ma il terreno è stato preparato negli anni precedenti, grazie alla presenza di un gruppo di artisti attrattati dall’orbita di Marinetti, il quale aveva contatti con l’ambiente da molto tempo.

Marinetti prima delle serate al Costanzi, non ha ancora organizzato manifestazioni eclatanti, però ha dedicato alla capitale la potente invettiva: Contro Roma passatista, in cui la città, con Venezia e Firenze veniva presa e definita una delle “tre piaghe purulente della nostra penisola”. Accusa infamante, nata dalla considerazione che, in assenza di una moderna struttura economica, la città vivesse da parassita sulla cosiddetta industria dei forestieri, il turismo. Del resto, la Roma clericale, sede del Vaticano, da cui si sprigiona il potere spirituale della Chiesa e la Roma di Montecitorio, crocevia di traffici e intrighi politici, fanno da sfondo al poema romanzo in versi liberi L’aeroplano del Papa (1912), dove Marinetti, spinto da irrefrenabile fantasia e altrettanta sfrontatezza, immagina addirittura di compiere un volo rocambolesco per rapire il Papa.

La “battaglia di Roma”

La mattina di del 21 febbraio 1913, i lettori del quotidiano romano Il Messaggero, leggono un annuncio di una manifestazione culturale e mondana che si terrà quel giorno, alle cinque del pomeriggio, prima matinée interamente dedicata al futurismo al Teatro Costanzi.

Marinetti illustrerà l’esposizione di quadri di Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo e Soffici, inaugurata nel foyer; leggerà i versi di alcuni poeti futuristi e infine l’orchestra del teatro eseguirà, sotto la direzione dell’autore, un pezzo sinfonico del maestro futurista Francesco Balilla Pratella. Il capo del movimento è riuscito a ottenere la disponibilità dei locali di via Nazionale grazie all’amica Emma Carelli, ex cantante e ora direttrice artistica del teatro, dove il marito Walter Mocchi, amico di Marinetti, è diventato agente teatrale e ha organizzato lo spettacolo.

Invece, dell’esposizione, si è occupato Peppino Giosi, ex coloraio di via del Babuino, che nei primi anni del secolo faceva credito a Severini e Boccioni, fornendo gratuitamente tele e colori. Durante il “five-o’-clock tea” Marinetti, “parlatore simpatico quando non posa a nazionalista mangiapopoli”, viene ascoltato da una sala gremita, dicono le cronache, di “gente molto per bene” e dunque il dissenso resta limitato a qualche grida di protesta. Molto diverse sono le reazioni del pubblico all’ingresso di Papini – nuova recluta del Futurismo  assieme a Soffici – che, nel presentarsi col volto quasi nascosto da una folta capigliatura, legge il suo Discorso contro Roma con molto impaccio. Le sue parole in mezzo a quella compagnia di facinorosi – nota Fausto Maria Martini su “La Tribuna” – sono una stonatura, anche perché l’occhialuto scrittore fiorentino ha una “voce di gattina bastonata”, vorrebbe esprimere parole audaci, oscenità, ma le dice timidamente, e se ne sta lì in equilibrio instabile sulle lunghe gambe. Insomma, rappresenta “un numero che un impresario di troupe avrebbe dovuto protestare”.

La défaillance papiniana viene confermata da Marinetti in una lettera subito inviata al futurista Cangiullo: “quanto a Papini, non ha ni le physique, ni le voix du role”. Miope, con una voce acido-flebile-monotona, egli lesse male, molte male il suo discorso”. Lo stesso Papini, quasi a scusarsi, dirà poi che s’è trattato d’un “discorsaccio sgangherato e improvvisato” (…) in fretta e furia in poche ore, proprio all’ultimo momento, un po’ a casa mia, un altro po’ in un caffè di Firenze, un’altra parte in casa di Palazzeschi e la fine in un caffè di Roma”.

Soffici confesserà di aver provato di fronte al pubblico urlante l’irrefrenabile desiderio di diventare Gargantua, avanzarsi alla ribalta e “allagar tutta quella carne in delirio con una lunga, lunga pisciata”. Dopo il teatro, i futuristi, ebbri per quella prima serata romana, se ne vanno in giro di notte, raggiungono il Vittoriano, ridono e schiamazzano su quel monumento imponente.

Il 9 marzo alle ore 21, i futuristi calcano nuovamente la scena del Costanzi di fronte a un pubblico numeroso. C’è grande ressa ed eccitazione, le cronache parlano di quattromila persone. In programma: l’esecuzione della sinfonia di Petrella, Inno alla vita, letture di poesie di Buzzi, Aldo Palazzeschi, Folgore “parole in libertà” di Marinetti, una conferenza sulla pittura di Boccioni e, per finire, un “consiglio ai romani” del capo del futurismo. Solo che lo spettacolo degenera in un lancio di frutta e ortaggi, tanto da costringere i musicisti ad abbandonare la fossa d’orchestra; una grossa mela centra un violino in pieno e lo sfonda. Marinetti non si abbatte e continua a recitare, coperto da urla e invettive. Allora provoca: “Ora vi accontento; ascoltate La vispa Teresa, poesia adatta al pubblico romano”. A quelle parole in platea e sui palchi si scatena la tempesta, mentre il poeta grida. “È canaglia prezzolata dalla bestialità dorata quella che è venuta a far baccano!”. Parte un lancio d’oggetti anche dalla barcaccia del circolo degli scacchi, vicina al palcoscenico, dove si intravedono il principe Boncompagni, il principe Altieri e il marchese Cappelli.

“Buffone!”, gridano gli aristocratici. “Figli dei preti!”, replica Marinetti.

A quel punto il poeta abbandona la scena, ma si imbatte nell’Altieri, a cui rivolge parole di fuoco; segue una scarica di pugni e l’intervento delle forze dell’ordine. Sembrerebbe finita lì e invece Boccioni, messosi sulle tracce dello stesso principe, all’angolo di via Torino con via Nazionale, lo colpisce con una bastonata. Altra rissa, sedata dall’intervento di una guardia che trascina Boccioni in commissariato. Marinetti intanto ha raggiunto il caffè Aragno, nella confusione dei disordini ha perso il cappello e una scarpa. A mezzanotte, tra il fumo delle sigarette nella terza saletta cala il sipario sulla “battaglia di Roma”.

Ernst Jünger

Ernst Jünger (29/03/1895–17/02/1998)

«Dobbiamo riconoscere che siamo nati in una plaga di ghiaccio e di fuoco. Il passato è tale che non si può mantenere legami con esso, e la realtà in divenire è tale non ci si può preparare ad essa. Questa plaga presuppone in chi vi dimora, come atteggiamento, il massimo grado di scetticismo pronto alla guerra. Non è concesso trovarsi in quelle parti del fronte che sono da difendere; occorre essere là dove si attacca. Per disporre delle riserve sufficienti, occorre essere consapevoli che sono riserve invisibili, al riparo, più sicure che se fossero protette da una volta blindata. […]

È possibile possedere una fede senza dogma, un mondo senza dèi, un sapere senza massime, una patria che non corra il rischio di essere occupata da alcuna potenza mondiale? Sono domande che impongono all’individuo di verificare il livello di qualità del proprio armamento. Non c’è carenza di militi ignoti; più importante è il regno ignoto, sulla cui esistenza non sono necessarie informazioni»

Semplicemente Drieu La Rochelle

 

Pronunci il nome e sai di toccare un nervo scoperto. Pierre Drieu la Rochelle; suona così bene, peccato che una superficialità diffusa lo abbia liquidato con un epitaffio: il fascista morto suicida.

Ai paranoici di chi è sempre in cerca di eretici da fustigare e di eroi democratici da santificare, si consiglia di sbirciare il catalogo di Gallimard. Ci sono le opere complete nella Bibliothèque de la Pléiade, mai comparse nella versione italiana Einaudi-Gallimard, e poi romanzi, racconti, poesie, saggi.

Insomma, neanche una virgola della produzione di questo normanno è stata trascurata. Nel 1963 il regista Louis Malle lo consegna all’olimpo degli immortali girando il magistrale “Le feu follet”, tratto dal capolavoro di La Rochelle, in Italia disponibile con il titolo “Fuoco Fatuo”. Tuttavia, è opportuno evitare di trasformare questo autore in oggetto per tifoserie letterarie.

Pierre Drieu la Rochelle, nato nel 1893 a Parigi in una famiglia borghese e nazionalista di antica fede napoleonica, è uno dei figli migliori della generazione perduta. È vissuto tra le due guerre: è stato ferito nella prima e si è tolto la vita sul finire della seconda, per l’esattezza il 15 marzo 1945, dopo aver ingerito una dose letale di Fenobarbital.

Tutto ciò che lo riguarda, come letterato e come uomo, è accaduto durante quella pace “fatua” andata in scena a Parigi tra le due guerre. Amico di Louis Aragon e André Malraux, dei dadaisti e dei surrealisti, dandy delle serate alla moda, marito difficile, amante di donne belle e ricche, Drieu in fondo è passato nel secolo breve senza legarsi ad alcuno, fedele alla sua spietata coerenza.

Coerenza nello stile, innanzitutto. Nei suoi romanzi – tra i più importanti si ricordino “Gilles”, “I Cani di paglia”, “Le memorie di Dirk Raspe” “Strano viaggio”, la “Commedia di Charleroi” e il già menzionato capolavoro, Fuoco fatuo – non si sa bene se per indole o per scelta, egli non sperimenta. Niente a che vedere con un altro irrequieto, Céline: il francese è per lui una bandiera di continuità con la storia e con il passato della patria adorata, servita stando dalla parte sbagliata perché in fondo quella giusta non c’è. Un periodare breve e schietto, punteggiatura immacolata, idioma pulito, intelligibile.

Non avrebbe potuto essere altrimenti.

Nelle scorribande notturne questo biondo alto, elegante e attraente, aveva scelto di vivere e di morire per il suo paese e per l’Europa intera. Credeva che soltanto un “romanticismo fascista” avrebbe potuto arginare la mentalità americana in cui, veggente involontario, vedeva profilarsi l’imperialismo e la fine della civiltà del vecchio continente.

Quindi, dove rifugiarsi? In un meditato nichilismo, in un anarchismo individualista che lo pone all’avanguardia – lui, che era conservatore – nella letteratura e nel pensiero a livello internazionale. Spietatamente moderno, con La Rochelle si realizza l’identità tra arte e vita.

Divagazione tra le nuvole di fumo

lo scrittore milanese Andrea G. Pinketts con l’inseparabile sigaro toscano

 

Quando Sir Walter Raleigh, portò il tabacco dall’America all’Inghilterra nel XVI secolo, fu come aprire la porta di un passaggio segreto che conduceva in un raffinato territorio di piaceri terreni e vita indipendente. Ma senza saperlo, scatenava la lotta interiore ed esteriore prodotta dal fumo che è ancora in corso, tra il dire “sì” e il dire “no”. Il fumo è ozio. Privo di qualsiasi funzione pratica e per questo odiato dagli esaltatori del tempo produttivo. Può, nel silenzio, attivare un’energia creativa oppure stimolarci a praticare la nobile arte della conversazione. La “pipa – scrisse William Thackeray – “estrae saggezza dalle labbra del filosofo e chiude la bocca allo sciocco; produce uno stile di conversazione contemplativo, pensoso, benevolo e non affettato”.

La propaganda antifumo, unita alle tasse punitive sui fumatori con tanto di avvertenze dei ministeri della Salute e brutte immagini che rovinano l’estetica dei pacchetti, descrive bene il carattere dei moralisti della domenica. Esiste una forma di sottile segregazione dei fumatori da parte dei non fumatori che trasforma questi ultimi in orgogliosi predicatori puritani pieni di sé.

Noi ci dilettiamo nelle terre del tabacco mentre loro, desiderano solo un paradiso asettico, carico di redenzione, ordinato e tremendamente tedioso. Tocca a noi amanti del sigaro diventare dei cospiratori per rimettere le idee a posto.

“L’uomo misura il vago tempo con il sigaro” scrisse Jorge Luis Borges

Il sigaro è il risultato di una scelta, non è popolare, né democratico, nasce come prodotto di massa ma poi diventa altro. Il sigaro è aristocratico ma chi lo fuma ha il piacere di stare in mezzo al popolo. Il panegirico sulla cultura del tabacco non ci interessa, noi coltiviamo una libertà beffarda che si prende gioco dei volti corrucciati e degli sguardi disgustati. Più che metafisico, il nostro discorso è “metà fisico” perché c’è un momento in cui avverti la fisicità del sigaro e un altro in cui si verifica l’astrazione.

Il sigaro richiede un profondo rispetto. Esiste un momento in cui lo scegli e contemporaneamente sembra che sia lui a sceglierti. Il sigaro dovrebbe fumarselo solo chi lo merita, ma non possiamo esagerare. Il sigaro è indipendente, la sua cenere, di un colore grigio ferro, è solida come se opponesse una cordiale resistenza alla propria fine. Il sigaro ti consente di osservare il mondo con il giusto distacco, di viverci dentro e di prendere la giusta misura di tutto quello che ti sta intorno. Il sigaro ha un odore che resta, ti consente di allontanarti temporaneamente dal mondo restandovi saldamente, ti permette di uscire dalla scena che poco prima avevi allestito.

Il sigaro ti crea un involucro di nebbia, di profumi e di aromi molto personale. Sviluppa un inedito pathos della distanza e tiene lontani i salutisti molesti. Prometeo ha donato il fuoco agli uomini sfidando gli Dèi. Le vestali custodivano a Roma il fuoco sacro nel Tempio di Vesta. Noi sacerdoti del sigaro celebriamo una liturgia gaudente con una precisa ritualità di gusto e tatto.

 

Pensieri e parole sull’Occidente

 

Occidente. Mito di fondazione, un riferimento che parte da lontano quando l’Europa era ancora silenziosa e non cominciava a muoversi nel territorio suggestivo della Storia. Erodoto racconta che gli spartani chiamati in soccorso dagli Ioni minacciati dal re persiano Ciro, inviarono al Gran Re un messaggero per intimare: “Che della terra greca nessuna città egli danneggi, perché essi non lo sopporteranno”. L’imperatore, informatosi su chi fossero gli interlocutori rispose di non temere uomini “che hanno un luogo in mezzo alla città, scelto appositamente e che in esso si ritrovano”.
Ciro il Grande non capiva il senso e il significato dell’agorà, piazza e centro vitale che nei secoli ha ininterrottamente indentificato il cuore pulsante dell’Occidente. Da qui la vocazione “dinamica” dell’Europa, spazio geografico e di civiltà, con un profilo identitario definito che si rinnova ma che non può essere alterato e deformato troppo. Il tempio come struttura architettonica, luogo simbolico di ciò che sta dentro l’Europa e ciò che è estraneo ad essa.
L’Occidente è la civiltà della visione. Oggi esistono molti “occidenti” e quello che chiamiamo “sistema occidentale” è probabilmente la degenerazione dell’Occidente.

Secondo Harold Bloom, l’Occidente è soprattutto un “canone” che collega autori, pensatori, le opere, i classici che fanno la tradizione. Il carattere dominante di questo “canone occidentale” è il suo essere arte della memoria, dignità estetica, esuberanza espressiva, capacità di rigenerarsi e di aprirsi alle possibilità. Il tutto tenendo presente che esiste un confine che definisce la fisionomia di quel territorio chiamato “civiltà occidentale”. È un campo di gioco e trasmissione, non un elenco rassicurante di autori e opere, ma una struttura con una base stabile, capace di mutare in senso dinamico senza alterarsi al punto di sgretolarsi.

Il linguaggio originario dell’Occidente è quello dell’Europa. Coincide con un’identità dinamica e non fossile, una fucina sempre attiva a partire dalla storia di Roma, del Mediterraneo, fino alle remote terre del Nord. L’auspicio è di ritrovare lo spirito autentico dell’Occidente e depurarlo da ogni scoria distruttiva.

Page 1 of 6

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén