Il 20 febbraio 1909 è una giornata fredda e lievemente piovosa. Un uomo poco più che trentenne si aggira tra i giganteschi carri colmi di verdure del mercato di Parigi. È impaziente, ha atteso con fervore l’apertura dei chioschi di giornale per potere acquistare una copia di “Le Figaro” che ha appena pubblicato in prima pagina uno scritto esplosivo intitolato Le Futurisme. Un autentico fuoco incrociato contro ogni conformismo. In calce una firma che diventerà leggenda F.T. Marinetti. La redazione del quotidiano ha ritenuto opportuno far precedere il testo da una presa di distanza nei confronti del “giovane poeta italiano e francese dal talento notevole e focoso”, lasciandogli tutta la responsabilità “delle sue idee singolarmente audaci e d’una violenza spesso eccessiva per delle cose eminentemente rispettabili”. Quello che sembrava solo uno scritto ad alto tasso di provocazione, segnerà l’inizio dell’avventura di una delle più dirompenti avanguardie artistiche del Novecento.
Il proclama, nelle intenzioni di Marinetti, serve ad innescare la miccia per fare esplodere i conformismi, il culto del passato e la tirannia delle accademie che opprimono la letteratura contemporanea. Ma il Futurismo andrà oltre l’arte, diventerà azione nella società.
In quel febbraio del 1909 sono ancora in pochi a comprendere l’irruenza sibillina di quel grido rivoluzionario. “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestato su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture”.
La nascita del Futurismo viene narrata in chiave mitico-allegorica con una tecnica di comunicazione innovativa. Il salotto orientale è quello del poeta a Milano, arredato con i mobili della casa paterna di Alessandria d’Egitto, dov’è nato il 22 dicembre 1876. Il bivacco di giovani ha un duplice significato autobiografico e simbolico: è una specie di veglia funebre attorno al cadavere del passato culturale da cui l’autore intende sganciarsi, rifiutando una buona volta quella concezione dell’arte come attività separata dal flusso della vita. Leggiamo:
“Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.