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Un grande italiano, Giuseppe Tucci

 

Zaino in spalla e scarpe resistenti, così Giuseppe Tucci si avventurava sul massiccio montuoso della Majella prima di ogni viaggio che l’avrebbe portato in Asia centrale, percorrendo quelle terre che secoli prima avevano attraversato le truppe multietniche di Alessandro Magno. Era nato a Macerata il 5 giugno del 1894, in una famiglia cattolica, ma nel 1935 divenne buddista dopo il folgorante incontro con un abate di un monastero nel Tibet meridionale. A descrivere l’episodio, con toni romanzeschi è Geminello Alvi, in un brano del suo libro Uomini del Novecento: «Il primo luglio incontrarono il giovane abate d’un monastero buddhista, vestito di rosso e appena uscito da un eremo dove aveva trascorso tre anni, tre mesi e tre giorni, meditando. Tucci gli chiese di sperimentare le liturgie sottili che sommuovono l’Io, liberando attese stupefatte e pavide: l’ottenne. E vide che quanto gli uomini chiamano “Io” non è che una crosta sottile in bilico dentro un cosmo inatteso e infinito».
Tucci è stato un orientalista, poliglotta, storico delle religioni, autore di circa 360 pubblicazioni tra articoli scientifici, libri e testi divulgativi. Dopo la laurea in lettere nel 1919, presso l’Università di Roma, si dedicò agli studi orientali tra il 1925 e il 1930, quando ebbe l’opportunità di partecipare a una missione culturale in India come docente alle Università di Shantiniketan e di Calcutta. Nominato accademico d’Italia nel 1929, nel novembre dell’anno successivo fu chiamato a occupare la cattedra di Lingua e letteratura cinese a Napoli e nel 1932 passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Roma, dove fu professore ordinario fino al 1969. Tucci non era il classico intellettuale che trascorreva la vita in biblioteca, ebbe tre mogli, due delle quali lo accompagnarono in alcuni viaggi. Dal 1929 al 1948 compì otto spedizioni scientifiche in Tibet e dal 1950 al 1954 sei in Nepal. Nel 1955 avviò delle spedizioni archeologiche nella valle dello swat in Pakistan, nel 1957 in Afghanistan e nel 1959 in Iran. Nelle sue esplorazioni fu sostenuto sia da un’eccezionale forza di volontà che gli consentì di superare pericoli e affrontare fatiche notevoli, sia dall’eccezionale conoscenza di molte lingue e dialetti che gli permise di stabilire un contatto diretto con le popolazione e di superare le diffidenze.

Fosco Maraini, in Segreto Tibet, scrisse che a lui e agli altri membri della spedizione del 1948 non fu permesso di entrare nella città sacra di Lhasa e che poi, solo Tucci, come buddhista, ricevette il lam-yig, l’autorizzazione al transito. Nel periodo del suo insegnamento in India, Tucci era entrato in contatto con Rabindranath Tagore, poeta, filosofo, prosatore indiano di lingua bengalese, che gli aveva presentato Gandhi. Il Mahatma, a vederlo, raccontò poi l’italiano, sembrava «insignificante, vestito di una pezza di cotone tessuta da lui medesimo, le gambe e il torso nudi, occhialuto e calvo, sgraziato nelle mosse, di scarsa se non addirittura nulla sensibilità artistica». Tagore, invece, «aristocratico» e «ieratico» gli apparve «sospettoso del prossimo avvento della tecnica» e «spirito sommamente svelto e sottile».
Eppure, queste due persone, così diverse fra loro e che gli sembrava «non si comprendessero» lo colpirono profondamente. Con Tagore, ebbe un rapporto intenso, tanto da essere affascinato della sua passione per l’Italia. Per la verità, Tagore fu anche (e non ne fece mistero) un ammiratore di Mussolini e del fascismo anche se, poi, ridimensionò la portata di talune sue dichiarazioni in proposito, dopo il 1945. In quel periodo probabilmente, Tucci conobbe il patriota bengalese Subhas Chandra Bose, perché nel 1937 in una delle varie occasioni in cui il politico venne ricevuto da Mussolini, fu lui ad accompagnarlo in udienza. In una relazione sulla missione in India, inviata il 31 marzo 1931 al ministro degli Esteri Dino Grandi, Tucci propose la creazione di un istituto culturale finalizzato finalizzato ad agevolare gli studi dei giovani indiani in Italia e presso le istituzioni italiane, a promuovere la conoscenza dell’Italia in India, a mettere in contatto studiosi con interessi affini. Mussolini, che già accarezzava l’idea di dar vita ad un istituto per le relazioni con quella parte dell’Asia, ricevette in udienza il professore e rimase d’accordo con lui che avrebbe esaminato il suo progetto quando egli fosse ritornato dal viaggio di esplorazione che si accingeva ad intraprendere nel Tibet. Rientrato in Italia nel novembre del 1931, Tucci riuscì a coinvolgere nel suo progetto il presidente dell’Accademia d’Italia, Giovanni Gentile, che nel luglio dell’anno successivo ottenne da Mussolini l’approvazione definitiva.

L’IsMEO (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente) nacque ufficialmente, nel febbraio 1933 con presidente e Tucci uno dei due vicepresidenti (l’altro fu G. Volpi di Misurata). Mussolini il giorno dell’inaugurazione parlò di “reciproca comprensione creativa” tra l’Italia e l’oriente asiatico. A seguito del caos del dopoguerra, l’IsMeo riprese le attività solo nel 1948, sotto la presidenza di Tucci che fondò un nuovo periodico “East and West”. Fu Giulio Andreotti a fornire l’impulso decisivo per la ripresa delle attività perché comprese perfettamente il valore scientifico e culturale di quelle missioni e il ritorno d’immagine che con esse ne aveva l’Italia. Tra i due, ci fu negli anni una corrispondenza epistolare.
Tucci nel 1971 in un discorso al Campidoglio disse che “Asia ed Europa sono un tutto unico, solidale per migrazioni di popoli, vicende di conquiste, avventure di commerci, in una complicità storica che soltanto gli inesperti o gli incolti, i quali pensano che tutto il mondo concluso nell’Europa, si ostinano a ignorare”. Più tardi nel 1977, ribandendo la necessità di considerare Europa e Asia accumunati da un unico destino, dirà: “in realtà si deve parlare di un unico continente, l’Eurasiatico”.

Il mistero di Fulcanelli

Nell’autunno 1926 uscì a Parigi in tiratura limitata un libro dal titolo accattivante: Il mistero delle cattedrali, l’autore si firmava Fulcanelli. Il testo era stato scritto da un uomo che si dichiarava un alchimista e si rivolgeva a lettori di un certo spessore intellettuale e potenziali seguaci. La tesi portante del libro era che le grandiose cattedrali gotiche non sono semplici luoghi di culto della religione cristiana, ma anche dei simbolici “libri di pietra”, dove si possono rintracciare gli elementi di una sapienza antica che usa come riferimento la simbologia alchemica. Secondo Fulcanelli, la parola gotico non deriva dall’antico popolo germanico dei Goti, ma dalla parola “argot” che significa gergo.

Arti gotiche deve intendersi come argotiques, dove argot è il linguaggio segreto usato da coloro che si rivolgono a un pubblico di iniziati, gli unici in grado di interpretare correttamente quei messaggi. Il libro contiene una descrizione delle più importanti cattedrali gotiche, da Notre Dame de Paris, Amiens fino a Bourges. La prefazione della prima edizione era firmata da un certo Eugene Canseliet, il quale dichiarava che l’autore, ora scomparso, era stato il suo “maestro”. “Fulcanelli non è più”, dichiarava Canseliet e proseguiva ringraziando l’artista Julien Champagne a cui lo stesso autore avrebbe affidato il compito di illustrare il testo.
Con una tiratura di appena trecento copie, il libro acquisì un’enorme notorietà legata soprattutto al mistero intorno allo scrittore. Nel 1957 venne proposta un’edizione con una nuova prefazione di Canseliet, dove si chiariva che Fulcanelli non era altro che lo pseudonimo utilizzato dal suo maestro per celare la sua vera identità e non si doveva ipotizzare altro.


La leggenda del maestro si è ingrossata molto con la citazione di un episodio tratto da Il mattino dei maghi (1960) di Louis Pawels e Jacques Bergier, libro a cui si deve il revival dell’occultismo.
Stando a quando riferito da Pauwels, l’amico Bergier dal 1934 al 1940, aveva collaborato con il fisico Andrè Helbronner, che tra i suoi collaboratori annoverava vari personaggi, ma uno di questi in particolare aveva colpito la sua attenzione, un tipo cordiale e riflessivo che all’improvviso era sparito dalla circolazione. Bergier era convinto che quell’uomo fosse Fulcanelli e di averlo incontrato nuovamente nel 1937 nel laboratorio della Direzione del Gas di Parigi, su richiesta dello stesso professor Hellbronnes. L’uomo misterioso parlò dei risultati della ricerca del professore francese e l’aveva messo in guardia sui potenziali pericoli della radioattività, ma una frase lo colpì su tutte: «Il segreto dell’alchimia è questo: esiste un modo di manipolare materia e energia capace d produrre quello che in termini moderni definiamo un “campo di forze”. Questo campo ha il potere di agire sull’osservatore e lo mette in una condizione privilegiata di contemplazione diretta dell’universo. Da qui, da questa postazione privilegiata, egli ha la possibilità di accedere a delle realtà normalmente precluse dal tempo e della spazio, dalla materia e dall’energia. Ecco quella che gli alchimisti definiscono la “Grande Opera”».

Un’altra storia interessante è quella fornita da Robert Ambelain (1907-1997), uno studioso di esoterismo, autore di numerosi saggi e in contatto con l’editore Jean Schemit, che pubblicava Fulcanelli.
Schemit gli rivelò che nei primi mesi del 1926 era andato a trovarlo un signore elegante e demodé con dei grandi baffi. Lo sconosciuto aveva cominciato a parlargli dell’architettura gotica, dicendo che in realtà si trattava di un sorta di codice, noto anche come “linguaggio verde” (per inciso, nel romanzo di Meyrink, “Il viso verde” si trovano richiami in tal senso). Qualche settimana dopo nell’ufficio dell’editore si era presentato Eugene Canseliet, con in mano il famoso manoscritto di Fulcanelli e Schemit, ci mise poco a riconoscere nella scrittura, il modo di esprimersi del personaggio che aveva conosciuto qualche tempo prima. Successivamente Canseliet era ritornato con Jean Julien Champagne, l’illustratore del libro “Il mistero delle cattedrali” e l’editore riconobbe l’uomo che si era presentato molto tempo prima. L’atteggiamento deferente di Canseliet e il rivolgersi al disegnatore come “maestro”, lo convinse del fatto che Champagne e Fulcanelli, fosse la stessa persona.

La trama si infittisce. Il giornalista francese Jean Boucher, sembrava confermare la supposizione tanto da riportare ad Ambelain un particolare su Champagne. Pare che l’uomo non si separasse mai da una scatoletta di latta contenente quella che all’apparenza sembrava resina di gomma. Ogni tanto prendeva un pizzico e la inalava profondamente, spiegando a Boucher che quella polverina aveva delle proprietà straordinarie che gli consentivano di raggiungere una conoscenza “intuitiva e profonda”.

L’ultima compagna di Champagne raccontò sempre ad Ambelain che lui e Canseliet, condividevano delle stanze di un grande attico al numero 59 di rue de Rochechouart, confermando l’atteggiamento di profondo rispetto di Canseliet e che lo chiamava maestro. Da qui la deduzione che fosse il suo “maestro alchemico” e quindi, Fulcanelli.
Queste e altre tracce non conducono a una verità accertata. Ovviamente Canseliet ha sempre negato tutto e, addirittura, avrebbe incontrato Fulcanelli a Siviglia, rimanendo stupito dalle fattezze dell’uomo che aveva l’aspetto di un cinquantenne, pur avendo 113 anni. Sono decenni che si cerca d’identificare il misterioso alchimista, spuntano tanti nomi e nessuna certezza. Persino il grande musicista americano Frank Zappa scrisse un brano intitolato, But who was Fulcanelli?

http://www.youtube.com/watch?v=isqlsZ1LEGk

John Dillinger: la vita breve di un rapinatore cortese


La domanda è sempre la stessa: fondare o sfondare una banca? Per John Dillinger era sufficiente entrarvi pistola in pugno e svuotare le casse senza fare troppo baccano. Il più simpatico dei rapinatori dell’America degli anni Trenta aveva uno stile che dispiaceva alle signore. “Mi passeresti i soldi tesoro?”, era il modo educato con cui si rivolgeva, sfoderando un bel sorriso, alle cassiere. Donnaiolo impenitente, alla fine sarebbe stato tradito per le assidue frequentazioni dei bordelli. Figura popolare, come altri gangster cresciuti zappando la terra ci teneva all’eleganza: abiti di sartoria, camicie perfettamente stirate e l’immancabile Borsalino sulla testa. Sui giornali lo paragonavano al personaggio di Tom Sawyer, il ragazzo povero di campagna dei romanzi di Mark Twain o al bandito gentiluomo Jesse James.
Dillinger era un divo, esaltato persino dagli adolescenti, assai distante dal contemporaneo zoticone malvestito alla Gomorra. Famoso il caso del boy scout in visita agli uffici del governatore dell’Indiana che, interrogato dai cronisti su cosa pensasse del fuorilegge, aveva risposto: “Io sto con lui …”, poi di fronte all’imbarazzo generale, tentò di correggersi: “Intendo dire che sto dalla parte degli underdog, di chi è svantaggiato”.
Una rivista specializzata, Detective, condusse un sondaggio tra i gestori delle sale cinematografiche americane su chi fossero i personaggi più popolari tra quelli che passavano sullo schermo nei notiziari proiettati prima dei film. Dillinger era il più applaudito, molto più di Roosevelt e Lindbergh.
Siamo tra il 1933 e il 1934 nei tredici mesi in cui si concentrò l’attenzione sulle sue imprese criminali e l’FBI si affannava in una spasmodica ricerca per acciuffarlo. Ogni settimana i quotidiani nazionali si sbizzarrivano nei resoconti e le persone che si trovarono coinvolte nelle rapine, non facevano altro che confermare la reputazione di “bandito cortese”. Specie con le donne. Tuttavia, non bisogna credere che ogni assalto di Dillinger e dei suoi complici fosse indolore. Durante le fughe rocambolesche accompagnate dal suono metallico dei proiettili, non mancarono i morti anche se la tendenza era di incolpare i poliziotti. A confermarlo è l’ironia di un cronista del Chicago Times: “Avevano circondato Dillinger, ed erano pronti a sparargli, ma vennero fuori prima gli ostaggi e spararono a loro. Forse la prossima volta riusciranno a beccare anche Dillinger, se gli capitasse accidentalmente di trovarsi in mezzo ai passanti innocenti”.
Formalmente fu accusato di un solo omicidio diretto, quello dell’agente di plizia William O’Malley, ma non fu nemmeno condannato. Leggenda vuole che la più famosa delle evasioni si realizzò prendendo in ostaggio 17 agenti con una pistola finta. Per essere precisi, Dillinger intagliò un pezzo di legno a forma di pistola che annerì con del lucido di scarpe; con questo trucco minacciò il primo poliziotto e si fece consegnare la sua pistola e con quella si fece strada verso la libertà.

Buono o cattivo che fosse, di sicuro Dillinger non era uno stratega del crimine. Le rapine in banca non rendevano molto, quando andava bene racimolava qualche decina di migliaia di dollari che finivano presto. Infatti i soldi erano appena sufficienti per pagarsi qualche lusso e il suo esoso e fantasioso avvocato Louis Piquett, al quale deve la celebrità e la possibilità di sfuggire alla giustizia e fuggire dalla prigione.
Piquett oltre alla dimestichezza con il diritto, fu quello che costruì l’immagine pubblica di Dillinger, trasformando ogni azione giudiziaria in processo mediatico. Una sorta di portavoce e responsabile della comunicazione.
Le foto che lo ritraggono mentre abbraccia calorosamente lo sceriffo che l’aveva arrestato e il procuratore che avrebbe dovuto accusarlo, sono un capolavoro della comunicazione. Era impossibile non spopolare sui cinegiornali. Piquett arrivò a proporre all’American Chicago un’intervista esclusiva al suo assistito latitante per 50mila dollari. Il giornale rifiutò.
A Dillinger a un certo punto era venuta l’idea di farsi filmare. Aveva un’autentica passione cinematografica. L’avvocato propose l’acquisto di una cinepresa per filmare una “lezione” del gangster insieme al suo più stretto collaboratore Van Meter, ma tra i due ci furono contrasti perché pare che Dillinger non volesse mostrare un profilo esaltante, ma volesse sconsigliare i giovani dal percorrere la strada del crimine. Ci fosse stata la televisione, sarebbero stati ospiti fissi in qualche talk show.
Dopo la rocambolesca fuga del 3 marzo 1934 dalla prigione di Crown Point nell’Indiana, riuscì ancora una volta a far perdere le tracce. Dillinger fu identificato e ucciso a tradimento con cinque colpi d’arma da fuoco da alcuni agenti dell’FBI mentre si trovava all’esterno di un cinema di Chicago, dal quale usciva assieme alle prostitute Polly Hamilton e Ana Cumpanas dopo aver assistito alla proiezione del film poliziesco Manhattan Melodrama con Clark Gable. Era il 22 luglio 1934, aveva appena 31 anni.
A tradirlo fu proprio Ana Cumpanas, conosciuta nell’ambiente dell’epoca anche come Anna Sage e in seguito nota come la “Donna in Rosso” (per via del colore sgargiante dell’abito indossato per farsi riconoscere dalla polizia). Fu lei a passare le informazioni alla polizia in cambio della permanenza negli Stati Uniti per evitare l’espulsione in Romania, sua terra d’origine. Dopo aver tradito Dillinger fu ingannata dall’ufficio federale che confermò il provvedimento di espulsione. Fatti a fidare degli sbirri.

Al cinema la vita straordinaria di Gertrude Bell


Il deserto è un luogo molto amato dal cinema, solo un regista come Werner Herzog si è spinto a sacrificare ottiche e macchine da presa per girare dentro una vera tempesta di sabbia. Il suo nuovo film, Queen of the Desert, è un ritratto dal tono epico di una donna poco conosciuta, Gertrude Bell, molto popolare fra i beduini del Medio Oriente agli inizi del XX secolo. Soprannominata Al-Khatun, La signora del deserto, è stata un’esploratrice di quel mondo e poi una spia dell’intelligence britannica, archeologa e una personalità politica notevole. Nel film è interpretata da Nicole Kidman.

Architetto della “pax britannica” in Medio Oriente oppure l’origine delle tensioni di quell’area strategica nel pianeta? Questione di punti di vista. Gertrude Bell è un nome che ai più dice poco, oscurata dal più famoso Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’Arabia), ma la sua attività politica ha lasciato un segno indelebile. Nasce nel 1868 in una famiglia di “vittoriani eminenti”, industriali dell’acciaio: la nuova nobiltà del denaro contrapposta a quella del rango. A diciotto anni è la prima donna inglese a laurearsi in storia moderna a Oxford. A ventidue ha già trascorso vari mesi in Romania, in Germania, Persia e Turchia, ospite di uno zio diplomatico. A venticinque anni è l’autrice di Ritratti persiani, un libro recensito come un capolavoro. Parla cinque lingue oltre alla sua: tedesco, francese, italiano, turco e persiano. Grande cavallerizza, nuotatrice e alpinista. Alta e seducente, Gertrude ha tutti gli uomini ai suoi piedi, ma non è una donna da sposare e passa da una passione all’altra senza raggiungere un equilibrio. Il sogno di un matrimonio con dei figli pare irrealizzabile. A 30 anni, si rifugia in Medio Oriente, va in Egitto, Palestina e Siria. Scrive libri e articoli, si dedica all’archeologia e alla politica. Dal 1905 il mondo arabo diventa la sua patria, e il lavoro la sua ragione di vita. Bell visita molti territori arabi, studiandone le rovine archeologiche e risiedendo talora tra i Drusi e i Beni Sakhr, incontrando un gran numero di loro capi. Le sue osservazioni sono contenute nel libro Desert and the Sown del 1907 dove descrive il viaggio nelle città della Grande Siria (bilas al-Sham): Damasco, Beirut, Antiochia documentandolo con foto. Le vivide descrizioni di Bell fecero conoscere i deserti arabi al mondo occidentale, che di essi ignorava pressoché ogni cosa e molti di questi resoconti finirono nelle pagine del Times. Nel gennaio 1909, si sposta nell’antica Mesopotamia. Visita la città ittita di Carchemish , disegnandone l’area e descrivendo le rovine del sito preislamico  lakhmide di Ukhaydir; visita anche Babilonia e Najaf. Nel 1914 Gertrude è a Londra, in Europa si sta innescando la miccia della prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano puzza di petrolio e sta cadendo a pezzi, francesi e britannici decidono di mettere da parte i contrasti e allearsi per evitare che la Germania prenda il controllo di quelle regioni. Due anni prima ha conosciuto Thomas E. Lawrence al Cairo, dove si sta organizzando l’Arab bureau per definire la strategia politica nei territori arabi. Lei è una celebrità: ha scoperto le rovine della mitica Ukhaidir e stampato un altro libro Da Amurath ad Amurath. Si racconta che cavalchi nel deserto in abiti principeschi, ceni ogni sera sotto la tenda a una tavola finemente imbandita e fumi tanto. Il giovane Lawrence ne rimane affascinato, più tardi lei lo chiamerà “il mio caro ragazzo”. Accomunati dall’amore per il Medio Oriente e dal patriottismo, hanno lo stesso obiettivo: convincere gli arabi a ribellarsi contro la Turchia con la protezione diplomatica della Gran Bretagna.

Nel 1916 lavora nell’Intelligence britannica al Cairo con Lawrence: è lei in un rapporto a indicare nel leader ribelle Ibn Saud e in Sharif Hussein, guardiano della Mecca, i due uomini più potenti d’Arabia sui quali puntare. Il Foreing Office la manda a Bassora come ufficiale di collegamento. Di là proseguirà per Baghdad. Da quel momento fino alla Conferenza del Cairo del 1921, dove sarà l’unico delegato donna, Gertrude Bell si trova al centro della politica mediorientale. Il suo mentore, Sir Percy Cox, l’emissario della Corona, la nomina Oriental Secretary, la massima carica dei servizi segreti.  L’impero ottomano si sgretola, la Gran Bretagna ne occupa gran parte dei territori, Germania e Turchia si ritirano sconfitte. In un altro saggio, “Arabi della Mesopotamia”, cui fa seguito un Libro Bianco, che rappresenterà la base del futuro equilibrio del Medio Oriente, Gertrude Bell caldeggia la nascita dell’Iraq e della Giordania accanto alla Siria, e preme affinché i figli di Sharif Hussein, Abdullah, il primogenito e Faisal, il secondo, ne siano proclamati re sotto la tutela britannica. L’avventura di Gertrude Bell termina qui. Dopo promesse e tradimenti, il tormentato Faisal accetta il trono iracheno, mentre il fratello diventa il primo monarca giordano. Londra è padrona del Medio Oriente e del suo petrolio, ma già è in arrivo un altro problema: la questione sionista. Per Lloyd George, il premier inglese, Gertrude è “il nostro uomo a Bagdad”. La “regina del deserto” resta nella capitale irachena come interlocutrice di Faisal, ma è stanca e depressa, comincia a isolarsi fino alla tragica fine: il suicidio con massicce dosi di sonnifero.

Chi era davvero il conte di Saint Germain?

Il conte di Saint-Germain è un misterioso personaggio vissuto nel secolo XVII in Europa. Molti cultori di scienze esoteriche lo considerano un maestro, altri alimentano il mito dell’Immortale al punto da considerarlo ancora vivo. Sulla vita e le avventure del Conte, esisteva un corposo dossier redatto dalla polizia al tempo di Napoleone che venne distrutto nel 1871 dal governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questa circostanza non ha fatto altro che accrescere la leggenda a scapito della verità storica.

La prima volta che il Conte di Saint Germain (nome falso) comparve in Francia era nel 1756. Brillante intrattenitore, appena cinquantenne ma dall’aspetto giovanile, si fece notare per le sue conoscenze di medicina e come alchimista. Non molto alto, i testimoni lo descrivono vestito con abiti sobri e non troppo vistosi come era moda nel Settecento.
Prima di approdare in Francia, Saint Germain era stato a Vienna dove conobbe il generale e di-plomatico francese Fouquet de Belle Isle che aveva contratto una malattia durante la guerra nei territori germanici. Il conte lo aveva guarito e come atto di gratitudine, il generale l’invitò a Parigi dove venne chiamato al capezzale di una donna di corte avvelenata da funghi non commestibili. Saint Germain, dopo averla guarita, entrò nel salotto della favorita di re Luigi XV, Madame de Pompadour. Le donne di corte lo trovavano affascinante e spesso lui si divertiva a sostenere che fosse in vita da qualche secolo. Straordinario affabulatore, fece spaventare una contessa del salotto, Madame Von Gergy, il cui marito era stato ambasciatore a Venezia.
La donna sosteneva di ricordare chi fosse realmente Saint Germain e gli chiese se in quel periodo fosse stato in Laguna. Alla risposta affermativa del conte, la donna ribatté: «Impossibile, signore, l’uomo da me conosciuto aveva all’incirca la vostra età». Saint Germain sorridendo, le disse di essere molto vecchio e descrisse una serie incredibile di dettagli sui luoghi veneziani citati dalla contessa che presa dallo spavento gridò: «Ma allora voi siete il diavolo!»

Un’altra traccia di Saint Germain si trova a Londra dove nel 1745 conobbe lo scrittore Horace Walpole che annotò nel suo diario: “(…) l’altro giorno mi è stato presentato un singolare indi-viduo che dice di chiamarsi conte di Saint Germain. Si trovava qui da due anni e non aveva mai rivelato la sua identità né da dove giungesse … Canta, suona il violino in modo sublime, compone; potrebbe trattarsi di un folle o di una persona eccessivamente sensibile. Lo ritengono tanto un italiano, quanto uno spagnolo o un polacco; qualcuno dice abbia fatto fortuna nel lontano Messico e abbia raggiunto Costantinopoli; altro lo dicono un imbroglione, un prete, un nobiluomo. Il principe di Galles ha cercato di soddisfare la propria curiosità sul suo conto, ma non ha cavato un ragno dal buco …”
La peculiarità del personaggio, unita a un incontestabile simpatia trova conferma nelle parole rivolte a Madame de Hausset, un’altra del giro di Madame Pompadour: «Ci sono volte in cui mi diverto non tanto a convincere la gente a credermi, ma a lasciarla credere che io sono al mondo da tempo immemorabile».

Cosa sappiamo di Saint-Germain? In una lettera autografa datata novembre 1735 lo troviamo all’Aja, in Olanda, ma non ne conosciamo il motivo. Dal 1735 al 1745 era in Inghilterra, dove fu arrestato ingiustamente come spia, riuscendo poi a dimostrare la propria innocenza. Come già detto nel 1755 si era trasferito a Vienna e su invito del maresciallo Belle-Isle andò a Parigi, diventando una delle attrattive dei salotti della capitale. Diceva di vivere grazie ad un elisir da lui stesso brevettato e molti testimoni ricordano che mangiasse pochissimo e spesso si intratteneva con i commensali senza toccare cibo.
Il suo interesse più grande era la chimica e la sua specialità era di ripulire i gioielli dalle impurità, tanto che alla fine il re di Francia decise di aprire un laboratorio al Trianon nella speranza che le tecniche di Saint-Germain risolvessero il problema della cronica mancanza di denaro a corte. Luigi XV nel 1760 lo inviò segretamente in Olanda in missione diplomatica, con lo scopo di son-dare la possibilità di un’alleanza con l’Inghilterra. Per pura combinazione Saint-Germain alloggiava nello stesso albergo di un altro avventuriero, Giacomo Casanova, anch’egli sul posto per conto del governo francese. I due si erano conosciuti e il veneziano ebbe l’impressione che si trattasse di un millantatore come riporta nelle Memorie: “Un uomo straordinario, nato apposta per il re degli impostori e degli imbroglioni specie quando, parlando in tutta tranquillità, come se niente fosse, dice di essere nato trecento anni fa, di conoscere i segreti della medicina universale, di poter padroneggiare le forze della Natura, di saper lavorare e fondere i diamanti … Eppure, nonostante la sua bonaria, la sua sfacciataggine, il suo volto da bugiardo incallito, il suo palese eccentrico modo di fare, eppure, dicevo, non posso proprio affermare che si tratti di un uomo maleducato oppure offensivo”.
Nel frattempo in Francia, il duca di Choiseul ministro del re contrario alla pace con l’Inghilterra, venuto a conoscenza della missione aveva tramato contro Saint-Germain per farlo arrestare. Fu l’ambasciatore olandese a salvare il conte avvisandolo in tempo e consentirgli di scappare a Londra. Saint-Germain invece di starsene tranquillo in Inghilterra cominciò a calarsi nei panni dell’agente in missione segreta e chiese di incontrare l’ambasciatore di Prussia nella speranza di essere accolto alla corte di Federico il Grande. Terrorizzato, l’ambasciatore si era affrettato a scrivere al segretario di stato prussiano per metterlo in guardia dal conte e dal suo fascino ipnotico che avrebbe potuto incantare il re. A questo punto Saint-Germain dovette rientrare segretamente in Olanda, dove acquistò una proprietà sotto falso nome. A corto di denaro, non fu abbandonato dalla fortuna trovando un altro protettore nel ministro dell’Olanda austriaca, Coblenz. Il politico rimase talmente infatuato da scrivere una lettere piena di entusiasmo al cancelliere Kaunitz sulle capacità di Saint-Germain di lavorare i metalli e i tessuti. Coblenz intuendo il potenziale commerciale dei processi industriali brevettati dal conte, aprì uno stabilimento nei pressi di Tournai. Saint Germain si fece anticipare centomila fiorini e sparì consegnando solo una parte dei brevetti e dei segreti pattuiti. Ad ogni buon conto, gli stabilimenti di Tournai funzionarono bene, fecero guadagnare denaro, prova della buona fede del conte.

Gli spostamenti di Saint Germain nei dieci anni successivi non sono noti, sebbene disse di essere stato in India. Certamente era andato a San Pietroburgo diventando amico del conte Alexei Orlov ammiraglio e importante uomo politico russo. Per motivi ignoti il conte si ritrovò a essere nominato generale dell’esercito russo. Nel 1774 è in Germania a Schwabach, sotto la protezione di Carlo Alessandro margravio del Brandenburgo che rimase colpito dal conte e fu testimone della sua grande amicizia con Orlov. Due anni dopo riprese a viaggiare: Lipsia, Dresda, Berlino dove sperava di farsi ricevere da Federico il Grande e poi di nuovo verso nord ad Amburgo. L’ultima dimora conosciuta di Saint-Germain è un laboratorio nei pressi del castello dei Eckenforde, nella regione dello Schleswig-Holstein, ospite del principe Carlo Hesse-Cassel e dove morì nel febbraio del 1784.
Saint-Germain era morto da qualche mese quando cominciarono a circolare le voci su presunte ricomparse e apparizioni. Madame de Genlis era sicura di averlo visto a Vienna nel 1821. Nel 1836 in un libro intitolato Souvenirs, l’autrice, la contessa d’Adhémar, disse di averlo incontrato cinque volte dopo la sua presunta morte e di averlo visto la prima volta a Versailles nel 1793 negli ultimi giorni della monarchia. Nel 1845 Franz Greffer dichiarò nelle sue Memorie di aver visto il conte di Saint-Germain che gli aveva annunciato che sarebbe ricomparso sui monti dell’Himalaya verso la fine del secolo. Un cumulo di menzogne e mezze verità di personaggi in cerca di visibilità. Misterioso fu senza dubbio Richard Chanfray che nel 1972 comparve alla televisione dichiarando di essere il conte di Saint-Germain e mostrando in diretta televisiva un esperimento di mutazione del metallo in oro con un semplice fornello da campo.

Avventuriero carismatico? Maestro custode di una sapienza segreta? L’enigma di Saint-Germain non è stato risolto. Solo l’ambasciatore prussiano a Dresda seppe cogliere un elemento della personalità del conte conforme alla società del Settecento: “una sorta di disordinata vanità sembra costituire il meccanismo del suo modo di essere”.

 

Oswald Spengler e i segni premonitori del globalismo occidentale

L’idea di tramonto dell’Occidente fa pensare all’esaurimento delle energie vitali di una civilità ma anche all’insorgere di altre: declino di un mondo e alba di un altro.
Oswald Spengler si è occupato del problema negli anni Venti, in piena euforia progressista, con una straordinaria capacità di anticipo sui tempi. Nelle sue pagine complesse e laboriose, si colgono i primi segni di quello che nei decenni successivi diventerà il progetto cosmopolita dell’Occidente.
Pessimista, Spengler ritiene fatale il declino e invita a tener duro rifiutando un atteggiamento passivo. Mentre altri vedevano nelle contaminazioni tra vecchio e nuovo, un fattore di arricchimento, Spengler evidenziava l’impossibilità di aggregare ciò che è non assimilabile. Il rifiuto del cosmopolitismo è inevitabile per cui considera strutturale l’unità di una civiltà, che può dirsi tale se possiede un radicamento in una precisa realtà spazio-temporale e, quindi, una forte identità. “Una civiltà – scrive – fiorisce su una terra esattamente delimitabile, alla quale resta radicata come una pianta”.

La multiculturalità che parte dal rifiuto di ogni elemento spaziale si fonda sulla convinzione che ogni tradizione può e deve convivere con altre, anche se tra di esse ci sono differenze incompatibili, talvolta manifestate con ostilità e ferocia.

Spengler quando lo scrisse non avvertiva il problema con la stessa intensità di oggi, dove più forti sono i contrasti tra gruppi etnici in Europa e Stati Uniti. Il progetto multiculturale viene utilizzato ideologicamente per affrontare la questione dell’integrazione dei flussi migratori che portano in Occidente masse di popolazioni sempre più numerose ed estranee. Non si tratta di impedire ai gruppi etnici di rispettare le loro usanze, bensì di rifiutare la protezione legale, comprensione e indulgenza culturale a quei gruppi le cui usanze risultino incompatibili, ostili e in conflitto con i nostri principi di libertà.

Culture diverse radicate in tradizioni differenti non si possono mescolare, è l’avvertimento impietoso di Spengler verso chi difende ancora l’ideologia multiculturalista, mostrando come la sua effettiva conseguenza sia l’accelerazione del declino dell’Occidente per opera di popoli che credono nella loro tradizione e identità culturale. Popoli, direbbe Spengler, ricchi di simbolicità, non disposti a farsi “contaminare” da altre civiltà e che in questa loro determinazione esprimono la forza aggressiva di una civiltà in ascesa rispetto a quella occidentale del tramonto. In questo senso si spiega come il globalismo economico dell’Occidente, sia l’atto finale della sua avventura e non un processo espansionistico della propria civiltà. Il globalismo cancella differenze storiche, identitarie, tradizionali delle popolazioni, imponendo un analogo modello di sviluppo economico che esige una cultura omogenea, necessaria per uniformare i popoli sulla base della stessa idea di benessere e di felicità. Questa omologazione trova la sua ragion d’essere in un contesto il più possibile “de-simbolizzato”.

Spengler non indica i motivi per i quali la cultura si sarebbe esaurita nel passaggio verso la civilizzazione; egli si esprime solo in termini biologico-organici.

“Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di una tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione”.

Obiettivo del globalismo è la perdita di riferimenti simbolici. Spengler ha cercato in migliaia di pagine di mostrare come sia la cultura simbolica a dare forza e energia vitale a una civiltà, consentendone la crescita. La sua desimbolizzazione non è che il segno evidente del tramonto. Quindi, la globalizzazione non può rappresentare l’apogeo di una civiltà, bensì il segno di un irreversibile declino.

 

L’uomo col fucile perfetto.

Tutto è cominciato in Siberia. Era il 1930 e chissà come, il giovane ragazzo aveva trovato una vecchia pistola tedesca arrugginita e inservibile. I poliziotti sospettarono qualcosa, lo arrestarono per farlo confessare, ma lui coraggioso e imperterrito, continuò a negare rischiando la fucilazione. La nascose, passava ore a smontarla e rimontarla, a ingrassare e studiare i meccanismi.
Ora di fucili che portano il suo nome ce ne saranno almeno 100 milioni in circolazione nel mondo. Se si facesse una graduatoria delle dieci parole più utilizzate, oltre a “mamma”, “pane” e “tv”, ci sarà sicuramente Kalashnikov. L’Ak 47, Avtomat Kalashnikov (47 sta per l’anno di progettazione) è l’arma da fuoco più diffusa sul pianeta. Utilizzata nell’esercito russo e cinese, preferita da tutti i gruppi armati, rivoluzionari, terroristi, mafiosi. Il Kalashnikov non passa mai di moda, continua ad essere favorito per la sua efficienza. Malgrado gli studi e i progressi tecnologici e tutti i cervelloni che progettano armi sofisticate, questo fucile d’assalto ha una caratteristica unica: non si inceppa mai.
Passano i Vietcong, i Fedayn e los guerrileros, ma questo mitra dal caricatore ricurvo è sempre lì, semplice nella sua concezione, prezzo modico e molto più affidabile di tanti suoi omologhi sofisticati. Come abbiamo detto, non si blocca ed è capace di sputare quattrocento proiettili al minuto in qualsiasi condizione, nel freddo glaciale o nel caldo arroventato del deserto. 
Mikhail Kalashnikov, è morto tranquillo all’età di 94 anni e a chi gli chiedeva se fosse pentito per aver costruito quel perfetto strumento di morte continuava a ripetere: “L’arma che ho creato vive la sua vita, indipendentemente dalla mia volontà”. E poi con un tono enfatico aggiungeva: “Spero che resterò nella memoria della gente come quello che costruì un’arma per difendere le frontiere del proprio paese”. Nel 2003, in un incontro a Berlino, con ironia disse che avrebbe preferito “inventare qualcosa di più utile alla gente, che rendesse la vita più facile a chi coltiva la terra, magari una falciatrice automatica d’erba anziché di uomini”.
Misha, arruolato meccanico nell’esercito, per tutta la sua carriera fu un semplice soldato, solo negli anni Novanta divenne sergente e la sua arma fu brevettata. Se fosse stato americano sarebbe diventato miliardario.
S’è detto che il Kalashnikov è un’arma costruita da un operaio per dei soldati contadini. Il segreto sta proprio nella bassa tecnologia, il fatto che si possa usurare ma restare perfettamente funzionante. Gli esperti più maliziosi sostengono che per la sua creazione, Kalashnikov si sarebbe ispirato allo Sturmgewehr 44 tedesco, utilizzato nella Seconda guerra mondiale. Tuttavia sottovalutano l’elemento di semplificazione, alleggerimento e la geniale idea di avere parti tutte staccate e mobili, “trasparenti” alle intemperie. Misha è arrivato a tutto ciò con la pratica, la pazienza e senza complicati studi. Semplicemente perfetto.

                                                                                                                                              

 

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