spari nella notte del conformismo

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Ritratto di Saint Just: il rivoluzionario intransigente e il dandy politico

Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato a Parigi in mezzo alla tempesta rivoluzionaria prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, il più giovane tra i deputati. Il suo impressionante percorso politico si consuma in un arco temporale di appena un paio d’anni, talmente intensi e carichi di aspettative da avvolgere in una coltre enigmatica lo stesso personaggio di Saint Just. Carattere incostante ma a tratti geniale, a 22 anni, all’alba della Rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra i gruppi rivoluzionari. Definito l’Arcangelo della Rivoluzione o del Terrore a seconda dei punti di vista, su di lui si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende – agiografiche o denigratorie – in mezzo alle quali è difficile orientarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero. La famosa bellezza del ventenne Saint-Just se non fu anch’essa un’invenzione, cosa esprimeva? Una bellezza tenebrosa? Ieratica? Virile? Portava l’orecchino come si diceva? Interrogarsi sull’aspetto del personaggio non è un dettaglio marginale, i ritratti rimandano alla dimensione nella quale si nasconde la chiave del rebus Saint-Just. Una giovinezza che, sebbene presto troncata, gli lasciò comunque il tempo di vivere una vita plurima: da poeta a tribuno incendiario, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine, utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica freddezza.

Insomma, un uomo che in un bienno di militanza iperattiva salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maudits tuttavia, Antoine sfugge a un’immagine definitiva, come molti protagonisti di quel tempo è un catalizzatore di sentimenti contraddittori, amore e odio.

Gli esordi

Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con la famiglia andrà poi a vivere in Piccardia. Il padre muore quando il ragazzo ha dieci anni, è un ex militare diventato notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Figlio della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali prenderà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse che desidera sposare se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d’un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: saccheggia l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Se si sia dedicato a qualche piacere libertino poco importa perché la fortuna dura poco: essendo ancora minorenne pende su di lui un mandato di cattura a seguito della denuncia sporta dalla madre. Alla fine Saint Just viene rintracciato e finisce in carcere e durante la breve detenzione si mette a scrivere un poema prolisso, confusamente licenzioso, anti-aristocratico e anti-clericale, intitolato l’Organt e stampato nel 1789. Nel frattempo ha trovato il tempo per laurearsi in Legge, ma quello è un anno particolare dove la Storia europea arriva a un punto di svolta.

20 Febbraio 1909. Il Futurismo irrompe sulla scena dell’Europa

Il 20 febbraio 1909 è una giornata fredda e lievemente piovosa. Un uomo poco più che trentenne si aggira tra i giganteschi carri colmi di verdure del mercato di Parigi. È impaziente, ha atteso con fervore l’apertura dei chioschi di giornale per potere acquistare una copia di “Le Figaro” che ha appena pubblicato in prima pagina uno scritto esplosivo intitolato Le Futurisme. Un autentico fuoco incrociato contro ogni conformismo. In calce una firma che diventerà leggenda F.T. Marinetti. La redazione del quotidiano ha ritenuto opportuno far precedere il testo da una presa di distanza nei confronti del “giovane poeta italiano e francese dal talento notevole e focoso”, lasciandogli tutta la responsabilità “delle sue idee singolarmente audaci e d’una violenza spesso eccessiva per delle cose eminentemente rispettabili”. Quello che sembrava solo uno scritto ad alto tasso di provocazione, segnerà l’inizio dell’avventura di una delle più dirompenti avanguardie artistiche del Novecento.

Il proclama, nelle intenzioni di Marinetti, serve ad innescare la miccia per fare esplodere i conformismi, il culto del passato e la tirannia delle accademie che opprimono la letteratura contemporanea. Ma il Futurismo andrà oltre l’arte, diventerà azione nella società.

In quel febbraio del 1909 sono ancora in pochi a comprendere l’irruenza sibillina di quel grido rivoluzionario. “Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestato su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture”.

La nascita del Futurismo viene narrata in chiave mitico-allegorica con una tecnica di comunicazione innovativa. Il salotto orientale è quello del poeta a Milano, arredato con i mobili della casa paterna di Alessandria d’Egitto, dov’è nato il 22 dicembre 1876. Il bivacco di giovani ha un duplice significato autobiografico e simbolico: è una specie di veglia funebre attorno al cadavere del passato culturale da cui l’autore intende sganciarsi, rifiutando una buona volta quella concezione dell’arte come attività separata dal flusso della vita. Leggiamo:

“Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”.

 

Le avventure lisergiche di Jünger e Hofmann

Una vita lunga un secolo quella di Ernst Jünger, morto il 17 febbraio 1998 all’età di 103 anni. Una vita che il suo biografo, Heimo Schwilk ha così riassunto: “Jünger è stato uomo d’azione e di lettere, scrittore e filosofo, “prussiano” e anarchico, tedesco e ribelle, e in fin dei conti testimone della complessità del Novecento”. Lo scrittore tedesco ha combattuto due guerre mondiali, è stato decorato con la Croce di Ferro Pour le Mérite, ha visto due volte il passaggio della cometa nel 1910 e nel 1986, è stato il testimone di un secolo dove le forze della Tecnica hanno assunto dimensioni titaniche. Jünger ha descritto le figure e le strutture emerse da questo magma incandescente, ha tracciato il profilo dell’anarca e del ribelle e di come essi possono vivere in un’epoca dove il potere è sempre più invasivo. Tuttavia non bastano poche righe per descrivere la complessità del pensiero di questo ribelle metafisico con dallo stile aristocratico, quello che vogliamo raccontarvi è il lato nascosto di Jünger, quello che non ti aspetti e del suo rapporto controverso con le droghe psichedeliche e l’amicizia con Albert Hofmann, lo scienziato svizzero che scoprì casualmente l’Lsd e i suoi effetti.

 

“Gentilissimo signor Hofmann, la ringrazio di cuore per i gentili auguri del 20 marzo, così come per i graditi doni, soprattutto per le droghe”.

Comincia così una cordiale lettera del tedesco datata 4 aprile 1949, dove ringrazia l’amico. Anni dopo, nel 1970, Jünger pubblicherà un resoconto di questo suo lungo rapporto speciale con le sostante stupefacenti: il libro intitolato “Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza”, un testo dalla trama irregolare, un’autobiografia su quella oscura passione che spazia tra ricordi di gioventù, suggestioni psichedeliche e letterarie, un vero trip messo per iscritto.

 

“Irradiazione – è la parola che meglio di altre esprime l’influenza sulla mia persona della figura e dell’opera letteraria di Ernst Jünger. Attraverso l’estensione del suo sguardo, che abbraccia in maniera stereoscopica le superfici e le profondità delle cose, il mondo aveva acquistato ai miei occhi un nuovo diafano splendore”. Queste parole scritte da Albert Hofmann testimoniano la forza e il legame tra due uomini straordinari. Il chimico svizzero, vissuto anche lui più di 100 anni, è un personaggio fondamentare per la storia psichedelica.

Nel 1938, Hofmann lavorava sugli alcaloidi, per cercare una sostanza che potesse agire sulla circolazione del sangue. Dopo diversi tentativi, sintetizzò la dietilammide dell’acido lisergico (Lsd-25), ma l’ambiente della chimica non trovò la cosa molto interessante.

Qualche anno dopo, siamo nel 1943, Hofmann tornò a lavorare su quel composto: il 16 aprile, durante un processo di purificazione, urtò un contenitore bagnandosi una mano con l’Lsd. Poco dopo si accorse di essere in uno stato mentale di irrequietezza, con emozioni piacevoli, potenti e una visione complessivamente alterata. Hofmann capì che aveva scoperto qualcosa di importante e cominciò subito a fare degli esperimenti su stesso. Il 19 aprile prese una dose della sostanza di proposito e successivamente, convintosi di avere esaurito l’effetto, tornò a casa in bicicletta. Nel corso del tragitto si accorse che lo spazio interno a lui era deformato, cose e persone assumevano un tratto minaccioso e il suo umore divenne cupo. Il giorno dopo, al contrario, avvertì un effetto di carica positiva. Quella sostanza funzionava ma andava analizzata bene e trattata con estrema accortezza. Da quel momento Hofmann cercò di esaminare e scomporre tutto quello che poteva dall’Lsd, ma dovette riconoscere che era decisamente poco addomesticabile, perché come tutti gli allucinogeni agisce in base all’umore del consumatore. Definiva quella sostanza, “il mio bambino difficile” e nel 1979 uscì il suo libro con quel titolo. L’Lsd poteva dare grandi gioie, ma anche visioni spaventose e incubi e provocare il famigerato bad trip.

Felice Beato, fotografo e avventuriero

Il 2 febbraio 1870 il Japan Weekly Mail di Yokohama pubblicava un curioso annuncio: “Signor F.Beato, “ha il piacere di annunciare al pubblico di Yokohama e ai viaggiatori in visita in Oriente di avere appena completato una bella collezione di album di varie dimensioni, con la descrizione delle scene, degli usi e dei costumi della gente; realizzato dopo aver visitato tutti i luoghi più interessanti del Paese durante un soggiorno di sei anni”. In basso, l’indirizzo dello studio fotografico dove acquistare i souvenir.

Felice Beato era un veneziano con passaporto britannico, un gaudente pieno di talento, il precursore di un’arte che ha cambiato il mondo di vedere il mondo. Nato nel 1832, in Giappone dal 1863, di professione fotoreporter di guerra, uno dei primi al mondo in un’epoca nella quale la tecnica fotografica muoveva i primi passi. Avventuriero, giocatore d’azzardo, Beato è uno dei tanti le cui vite furono segnate dall’epopea bella e dannata dell’espansione coloniale inglese.

Nessuna biografia ufficiale, non ha lasciato diari o corrispondenze che possano aiutarci a cogliere pienamente la sua personalità. Anne Lacoste, curatrice nel 2010 di una mostra fotografica sulle sue opere presso il Getty Museum di Los Angeles ha confermato questo difficoltà, stesso discorso fatto dallo scrittore Sebastian Dobson: “Beato è un soggetto al tempo stesso interessantissimo e frustrante: le fonti primarie scarseggiano”.

La storia del veneziano può essere ricostruita per lo più attraverso la sua attività di fotografo e viaggiatore. Quanto sappiamo di lui è spesso desunto da lettere e citazioni di personaggi che l’hanno conosciuto e ci raccontano qualche aneddoto.

Nella piccola comunità straniera di Yokohama era diventato un personaggio in vista. Amante della compagnia e del buon cibo, racconta il capitano Sydney Henry Jones-Parry che lo aveva conosciuto durante la guerra in Crimea e ritrovato dopo una sosta a Yokohama. Beato dopo averlo insistentemente invitato presso il club che gestiva, gli aveva fatto conoscere degli amici. “Sono stato presentato a un russo come uno che ha trucidato centinaia di suoi connazionali a Sebastopoli e insieme abbiamo concordato che bere buon champagne con Beato fosse meglio che combattere in Crimea”.

Questo è uno dei tanti aneddoti che aiutano a dissipare la nebbia che avvolge la vita del fotografo che sappiamo da ragazzo visse a Corfù e nel 1844 era con la famiglia a Costantinopoli dove c’è stata la prima importante svolta della sua vita. In mezzo all’opulente decadimento dell’Impero Ottomano, Felice Beato aveva conosciuto l’inglese James Robertson, impiegato alla Zecca imperiale turca che si dilettava nella fotografia.  Tra i due si consolida un’amicizia rafforzata dal matrimonio della sorella di Beato con l’inglese. Felice, insieme al fratello Antonio, iniziano come apprendisti nello studio fotografico del cognato che si trovava a Pera, il quartiere fondato dai mercanti genovesi e frequentato dagli occidentali, dove aveva sede il distretto finanziario della capitale.

Negli anni ‘50 dell’Ottocento cominciano una serie di viaggi in Grecia, a Malta e a Gerusalemme. Ormai l’Oriente era tornato a suscitare il fascino per molti europei e se nei decenni passati erano i pittori a descrivere e riprodurre quei luoghi fantastici, adesso con la fotografia i ricchi europei potevano avere un’istantanea di quelle terre senza lasciare il salotto di casa.

La svolta nella carriera di Beato arriverà con il conflitto in Crimea, iniziato nell’ottobre del 1853 che vedeva contrapposta la Turchia sostenuta da Francia e Inghilterra e la Russia imperiale.

Il gesuita che scrisse il primo trattato sul Giappone del XVI secolo

Il 25 luglio 1579 nel porto di Kuchinotsu in Giappone, un uomo sbarca con un seguito di persone, è un gesuita che conosce bene l’Asia, si chiama Alessandro Valignano, è stato inviato in missione da Everardo Mercataro, terzo successore di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

Tre anni dopo, sarà il responsabile di tutta l’attività di evangelizzazione a Est del Capo di Buona Speranza: l’Africa, l’India, Malacca (odierna Malesia), la Cina e il Giappone sono sotto la sua giurisdizione “spirituale”.

Nato a Chieti nel 1539 da una nobile famiglia di origine normanna, destinato a entrare nella Curia romana, si reca a Padova per studiare giurisprudenza e nel 1557, consegue la laurea in utroque jure (ovvero in diritto canonico e diritto civile). Tra Padova e Venezia, conduce per qualche anno una vita spericolata, tanto che il 28 novembre del 1562 viene arrestato proprio a Padova con l’accusa di aver ferito una donna con un coltello. Proclamatosi innocente, resta in carcere per 18 mesi, fino a quando il Quarantia criminal, il tribunale supremo della Repubblica di Venezia, lo condanna all’esilio. Il suo rilascio sarà possibile grazie al risarcimento ricevuto dalla vittima e, soprattutto, per l’intervento del cardinale di Milano, Carlo Borromeo.

Nel corso degli studi presso il Collegio romano scopre gli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, che gli offriranno una chiave di lettura del metodo con cui il Cristianesimo si era diffuso nei primi secoli mediante un adattamento flessibile alle culture preesistenti, greco-romana e siro-giudaica.

Legge affascinato le lettere dall’India e dall’Estremo Oriente di Francesco Saverio, il primo missionario gesuita a mettere piede in Giappone e a quel punto, decide di fare richiesta al superiore generale per andare nelle “Indie orientali”. Passa solo qualche mese e, nel 1573, Mercuriano lo invia in Oriente come Visitatore, cioè suo delegato personale. Passa da Lisbona (le colonie asiatiche sono soggette al Portogallo) e si imbarca il 21 marzo dell’anno successivo per una missione che durerà tutta la vita, fino alla morte a Macao nel 1606.

Pechino-Parigi, 1907. Il primo raid automobilistico della storia

 

Il 31 gennaio 1907 apparve un annuncio sul quotidiano francese Le Matin: “Dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa e andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?” Fu così che prese il via il raid “PECHINO-PARIGI”. Un equipaggio, a bordo di altrettante vetture, doveva raggiungere la capitale francese lungo un percorso di sedicimila chilometri, attraverso la Russia e l’Europa. Non c’erano premi in palio, nessun percorso definito, nessuna assistenza tecnica per le squadre, non era una gara di velocità, si trattava solo di attizzare il fuoco dell’avventura e vincere una scommessa tecnologica: dimostrare che l’automobile, considerata poco più che un mezzo da passeggio, sarebbe diventata il mezzo di trasporto più importante in grado di competere con il treno e le navi. Alla proposta aderirono una quarantina di gruppi e il giornale, per evitare forme di adesione esibizionistiche, chiese una somma di duemila franchi a titolo di cauzione, che sarebbe poi stata restituita a coloro che si fossero presentati a Pechino.

Furono cinque le squadre ai nastri di partenza nella capitale cinese: Charles Godard e Jean du Taillis a bordo di una SPYKER, automobile olandese, due auto francesi marca “De Dion-Bouton”, rispettivamente condotte da George Cormier e Victor Colignon, il triciclo francese CONTAL con Auguste Pons e infine l’ITALA, pilotata da Scipione Borghese con il suo chauffer Ettore Guizzardi, accompagnati dall’inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini. L’equipaggio italiano si mostrò il migliore in assoluto per superiorità tecnica e organizzativa. La preparazione di Borghese fu meticolosa e le sue intuizioni semplici, si rivelarono vincenti. Giunto con largo anticipo a Pechino, Borghese aveva ispezionato una prima parte del percorso a dorso di cammello e a cavallo, misurando i passaggi più stretti. Seppure non ci fosse un percorso definito, la scarsa disponibilità di strade carrozzabili, rese obbligatoria la scelta del tragitto. Per risolvere il problema dei rifornimenti, non potendo caricare eccessivamente le auto, da Pechino e da Mosca partirono delle carovane cariche di olio e carburante che vennero depositate in postazioni stabilite a distanze regolari.

Prima della partenza, c’era stata una discussione tra i piloti sul tipo di automobile da utilizzare e tutti convennero sulla necessità di utilizzare mezzi leggeri e poco potenti. Al contrario, Borghese decise di utilizzare un’auto di quaranta cavalli di potenza e del peso di 1,5 tonnellate. Le altre non superavano i 10-15 cavalli di potenza. L’intuizione dell’italiano, gli consentì di attraversare meglio i punti stradali più duri e di scorrere veloce nei tratti dove il tracciato lo consentiva. Altrettanto ingegnosa fu la scelta di sostituire i parafanghi con delle assi asportabili, da impiegare all’occorrenza come rampe per gli ostacoli. Per risparmiare sulle forniture e l’usura delle gomme, si scelse di utilizzare pneumatici delle stesse dimensioni avanti e dietro, per renderli intercambiabili. Una novità per l’epoca.

 

La partenza venne fissata per il 10 giugno alle otto. La corsa fu anche un evento mediatico: Barzini inviava i suoi dispacci attraverso le stazioni di posta telegrafica più remote. Rimbalzando da una postazione all’altra, impiegavano mediamente otto-dieci ore per giungere alle redazioni del Corriere e del Daily Telegraph. Il racconto del viaggio divenne un libro di successo, “Metà del mondo visto dall’automobile”, tradotto in undici lingue. La Pirelli che forniva gli italiani e la Dunlop, fecero a gara per il rifornimento di pneumatici, inaugurando la prima forma di sponsorizzazione della storia automobilistica.

Alle quattro e un quarto del 10 Agosto 1907 l’equipaggio italiano a bordo dell’Itala, fece il suo ingresso trionfale a Parigi, accolto da una folla di curiosi, giornalisti e cineoperatori. Godard, a bordo della Spyker, arrivò secondo con venti giorni di ritardo esattamente il 30 agosto. Le due De dion Bouton accumularono un tale ritardo che non se ne ricorda neppure l’arrivo, mentre il Contal di Auguste Pons, non resistette al deserto del Gobi e l’equipaggio si salvò da morte sicura grazie al soccorso di un gruppo di nomadi mongoli.

Charles Godard, pur di partecipare al raid e pagarsi il biglietto per Pechino, si era fatto prestare la Spyker (costosa e lussuosa per l’epoca) e se l’era rivenduta sulla parola a pezzi e, per questo motivo, venne arrestato per truffa. Borghese e Guizzardi, accumularono un tale vantaggio sugli altri che decisero di deviare verso San Pietroburgo allungando di oltre mille chilometri. Coprirono l’intero percorso di 16000 km, in 60 giorni di cui solo 44 di viaggio effettivi.

L’ITALA 35/45 HP perfettamente restaurata ha ripercorso alcuni tratti del famoso raid in occasione del centenario nel 2007. Oggi la Pechino-Parigi è una massacrante corsa per auto d’epoca che si snoda su un percorso di poco più di 12mila chilometri da terminare in 33 giorni.

Corsa verso il Polo Sud. Amundsen contro Scott

Amundsen aveva constatato sulla carta che partendo dalla baia delle balene la distanza che lo separava dal polo era di 150 chilometri inferiore a quella che c’era tra l’isola di Ross (base Scott) e il polo. Tutte le speranze risiedevano nella rapidità con cui avrebbe saputo condurre la corsa. Secondo quanto dicevano Scott e Shackleton, e a conferma di quanto era generalmente ritenuto, la banchisa non era stabile ma si muoveva, ed era quindi suscettibile di spaccature, come la gigantesca scogliera di ghiaccio della Grande Barriera, col pericolo di inghiottire il quartier generale della spedizione. Amundsen aveva scelto quel posto, prendendo spunto dalle descrizioni fatte da James Ross nel 1842 che scoprì quella baia. Non avendo subito sostanziali mutamenti, appariva solidamente ancorata alla roccia di una grande isola. Se Amundsen si era rifiutato di servirsi di cavalli, in favore unicamente di cani groenlandesi, era perché questi animali, leggeri, resistenti, abituati ai freddi molto intensi, atti a scalare le asperità nevose, erano più facili da nutrire rispetto ai cavalli.

Amundsen aveva selezionato un centinaio di cani con la massima attenzione; quanto alle slitte, ne aveva prese otto lunghe quattro metri e costruite con legno di frassino, con i pattini ricoperti d’acciaio. Inoltre, aveva venti paia di sci, un accampamento di ventuno tende e la famosa casetta prefabbricata molto comoda, la cui triplice parete di tavole, intercalate dal vuoto, garantiva una buona protezione contro il freddo. Una struttura di 8 metri per 3,50 e alta 3,50 metri, sarebbe stata il quartier generale.

L’undici gennaio, verso mezzogiorno, Amundsen scorse un’immenso biancore: la famosa Grande Barriera di Ross. Questo gigantesco ghiacciaio, largo un centinaio di chilometri e con un’altezza media di 150 metri, si innalzava sul mare con l’aspetto d’una scogliera alta una trentina di metri; c’erano però dei punti in cui la parete a strapiombo non era più alta di 5 o 6 metri. Intorno al 17 gennaio il gruppo di Amundsen intraprese la costruzione dell’accampamento; esso era situato a quattro chilometri dal mare, con la casa del quartier generale simile a un villino norvegese, dal tetto appuntito. Per andare alla conquista del polo bisognava calcolare tutto: la costruzione dell’accampamento, la disposizione dei magazzini, i tempi di ritorno alla base, i viveri per gli uomini e i cani.

Da Lisbona a Calicut, il viaggio che consacrò Vasco da Gama

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

 

L’avanguardia dadaista e l’esperienza italiana di Julius Evola

 

“La parola Dada fu casualmente scoperta da Ball e da me in un vocabolario tedesco-francese, mentre stavamo cercando un nome d’arte per Madame Le Roy, cantante del nostro cabaret. Dada è una parola francese che significa cavallo a dondolo”. Così Richard Huelsenberg, uno dei fondatori del dadaismo, ricorda come la scelta del nome sia derivata da un atto casuale e privo di intenzione logica.
Un altro interprete della scena, Hans Arp, racconta un’altra storia più bizzarra: “Tristan Tzara ha trovato la parola dada al Café de la Terrasse di Zurigo mentre mi portavo una brioche alla narice sinistra. Ero presente coi miei dodici figli quando l’ha pronunciata per la prima volta, destando in tutti noi un entusiasmo legittimo. Sono convinto che questa parola non ha alcuna importanza e non ci sono che gli imbecilli o i professori che possono interessarsi ai dati”.
Non ci interessa la versione dei fatti sull’origine di quella parola dal suono infantile, quel che è sicuro, nella sonnacchiosa Zurigo del 1916, un gruppo di intellettuali di orientamenti diversi, si rifugiarono in territorio neutrale per sfuggire al fuoco e al fango delle trincee della guerra per creare un movimento artistico urtante e irragionevole.

Alle origini del movimento luddista

Nelle cinque contee che compongono il cuore della Britannia – Yorkshire, Lancashire, Cheshire, Derbyshire e Nottinghamshire – c’è un territorio triangolare ancora “marchiato” dalla leggenda di Robin Hood. Nel tardo XIII, nella città di Wakefield, nacque un tal Robert Hode (Robin Hood), figlio di un boscaiolo che si unì al conte Thomas di Lancaster per combattere contro le politiche di disboscamento promosse dalla monarchia inglese per adibire quelle terre al pascolo. La leggenda di Robin Hood e dei suoi Merry Men in lotta contro i soprusi del Re, al riparo nella foresta di Sherwood, riapparve molti secoli dopo, nel primo decennio del XIX secolo, nelle lotte del movimento “luddista” contro le storture della prima industrializzazione. In quel periodo, la vita di migliaia di tessitori, cardatori, conciatori di lana e artigiani del cotone, venne sconvolta dall’arrivo delle nuove macchine industriali. Dopo aver lavorato per secoli fuori dalle proprie case o nelle piccole botteghe di villaggio, in piena libertà, con macchinari manovrati da un solo uomo, improvvisamente dovettero assistere all’introduzione di nuove e complesse attrezzature, sistemate in grandi edifici che sorgevano nelle loro valli.

Decisero di sollevarsi contro tutto ciò, non per un sentimento passatista ma contro quella tecnologia “nociva” che scardinava un ordinamento sociale fondato su arte, comunità, tradizione e tempo libero. L’industria stava deformando città e campagna ed essi avvertirono subito la sensazione che tutto stesse sfuggendo dal loro controllo.

La prima azione avvenne il 4 novembre 1811, nel villaggio di Bulwell a poche miglia da Nottingham. Quella notte un gruppo di individui con il volto tinto di nero, armati di asce e martelli, assaltarono un’industria tessile, spaccando i macchinari per poi dileguarsi nell’oscurità. Da quel giorno e per quindici mesi, minacciarono il nuovo ordine economico, con attacchi feroci, organizzati ed efficaci. In una delle prime lettere di rivendicazione scrissero: “dal covo di Robin Hood, Foresta di Sherwood”, ma poi apparvero lettere e manifesti firmati “Ufficio di Ned Ludd, oppure “Generale Ludd”.

Ma chi era costui? Si è propensi a credere che si tratti di uno pseudonimo utilizzato dai gruppi che tra il 1811 e il 1812, rivendicarono gli attacchi alle fabbriche. Ecco perché li conosciamo con il nome di “luddisti”. La parola potrebbe ricordare l’espressione della Cornovaglia, sent all of a lud, che significa “rimanere stordito”, rovinato, oppure la parola dell’antico inglese loud, “rumoroso”.

I luddisti non furono degli ottusi demolitori. La macchina industriale e la tecnologia in senso lato, non furono mai il vero obiettivo, ma solo ciò che rappresentavano: la prova tangibile per gli uomini, di essere soggiogati da forze incontrollate che spezzavano i ritmi di vita, piegandoli alle esigenze della produzione, allontanandoli dalla vita comunitaria e disperdendo un patrimonio di saperi che si trasmetteva attraverso l’apprendistato. Gli uomini erano subordinati della macchina e non più i padroni dello strumento e la fabbrica era il luogo dove si “rompevano” gli antichi legami comunitari e pertanto, il simbolo fisico di quella “rottura” andava frantumato.

Le azioni luddiste nella fase più recrudescente e organizzata, tra la fine del 1811 e l’inizio del 1813, assunsero i tratti dell’insurrezione tanto che il governo britannico dovette reagire con estrema violenza. Il territorio fu presidiato dall’esercito e si arrivò persino ad applicare la pena di morte per chi danneggiava le fabbriche e questo consentì lentamente il ritorno alla calma. I motivi della rapida ascesa e dell’altrettanto veloce declino del movimento luddista, sono difficili da spiegare solo con la repressione militare. In un certo senso, il luddismo in quei quindici mesi di fuoco, aveva chiarito la propria posizione, lasciando un segno indelebile. Si trattò di un urlo di protesta e disprezzo, capace di attacchi spettacolari ma incapace di organizzarsi politicamente. Resta però un interrogativo. Mentre la saga di Robin Hood viene celebrata al cinema e nella letteratura, sul luddismo c’è una forte reticenza. Al massimo lo si classifica come una reazione nostalgica, cosa che peraltro non fu. In un’epoca dove la tecnica ha assunto un dominio a tratti incontrollato, forse, il loro messaggio di libertà è ancora valido.

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