spari nella notte del conformismo

Mese: Marzo 2020

Alle origini del movimento luddista

Nelle cinque contee che compongono il cuore della Britannia – Yorkshire, Lancashire, Cheshire, Derbyshire e Nottinghamshire – c’è un territorio triangolare ancora “marchiato” dalla leggenda di Robin Hood. Nel tardo XIII, nella città di Wakefield, nacque un tal Robert Hode (Robin Hood), figlio di un boscaiolo che si unì al conte Thomas di Lancaster per combattere contro le politiche di disboscamento promosse dalla monarchia inglese per adibire quelle terre al pascolo. La leggenda di Robin Hood e dei suoi Merry Men in lotta contro i soprusi del Re, al riparo nella foresta di Sherwood, riapparve molti secoli dopo, nel primo decennio del XIX secolo, nelle lotte del movimento “luddista” contro le storture della prima industrializzazione. In quel periodo, la vita di migliaia di tessitori, cardatori, conciatori di lana e artigiani del cotone, venne sconvolta dall’arrivo delle nuove macchine industriali. Dopo aver lavorato per secoli fuori dalle proprie case o nelle piccole botteghe di villaggio, in piena libertà, con macchinari manovrati da un solo uomo, improvvisamente dovettero assistere all’introduzione di nuove e complesse attrezzature, sistemate in grandi edifici che sorgevano nelle loro valli.

Decisero di sollevarsi contro tutto ciò, non per un sentimento passatista ma contro quella tecnologia “nociva” che scardinava un ordinamento sociale fondato su arte, comunità, tradizione e tempo libero. L’industria stava deformando città e campagna ed essi avvertirono subito la sensazione che tutto stesse sfuggendo dal loro controllo.

La prima azione avvenne il 4 novembre 1811, nel villaggio di Bulwell a poche miglia da Nottingham. Quella notte un gruppo di individui con il volto tinto di nero, armati di asce e martelli, assaltarono un’industria tessile, spaccando i macchinari per poi dileguarsi nell’oscurità. Da quel giorno e per quindici mesi, minacciarono il nuovo ordine economico, con attacchi feroci, organizzati ed efficaci. In una delle prime lettere di rivendicazione scrissero: “dal covo di Robin Hood, Foresta di Sherwood”, ma poi apparvero lettere e manifesti firmati “Ufficio di Ned Ludd, oppure “Generale Ludd”.

Ma chi era costui? Si è propensi a credere che si tratti di uno pseudonimo utilizzato dai gruppi che tra il 1811 e il 1812, rivendicarono gli attacchi alle fabbriche. Ecco perché li conosciamo con il nome di “luddisti”. La parola potrebbe ricordare l’espressione della Cornovaglia, sent all of a lud, che significa “rimanere stordito”, rovinato, oppure la parola dell’antico inglese loud, “rumoroso”.

I luddisti non furono degli ottusi demolitori. La macchina industriale e la tecnologia in senso lato, non furono mai il vero obiettivo, ma solo ciò che rappresentavano: la prova tangibile per gli uomini, di essere soggiogati da forze incontrollate che spezzavano i ritmi di vita, piegandoli alle esigenze della produzione, allontanandoli dalla vita comunitaria e disperdendo un patrimonio di saperi che si trasmetteva attraverso l’apprendistato. Gli uomini erano subordinati della macchina e non più i padroni dello strumento e la fabbrica era il luogo dove si “rompevano” gli antichi legami comunitari e pertanto, il simbolo fisico di quella “rottura” andava frantumato.

Le azioni luddiste nella fase più recrudescente e organizzata, tra la fine del 1811 e l’inizio del 1813, assunsero i tratti dell’insurrezione tanto che il governo britannico dovette reagire con estrema violenza. Il territorio fu presidiato dall’esercito e si arrivò persino ad applicare la pena di morte per chi danneggiava le fabbriche e questo consentì lentamente il ritorno alla calma. I motivi della rapida ascesa e dell’altrettanto veloce declino del movimento luddista, sono difficili da spiegare solo con la repressione militare. In un certo senso, il luddismo in quei quindici mesi di fuoco, aveva chiarito la propria posizione, lasciando un segno indelebile. Si trattò di un urlo di protesta e disprezzo, capace di attacchi spettacolari ma incapace di organizzarsi politicamente. Resta però un interrogativo. Mentre la saga di Robin Hood viene celebrata al cinema e nella letteratura, sul luddismo c’è una forte reticenza. Al massimo lo si classifica come una reazione nostalgica, cosa che peraltro non fu. In un’epoca dove la tecnica ha assunto un dominio a tratti incontrollato, forse, il loro messaggio di libertà è ancora valido.

Cronache dallo stato d’eccezione. La politica sospesa?

È molto difficile in questo clima politico che si è venuto a creare per via della paura generalizzata dall’emergenza sanitaria, ragionare secondo principi ordinari di diritto.
Il profluvio di atti amministrativi, decreti, ordinanze e divieti fanno sorgere molti dubbi, ma in queste condizioni non ha molto senso ragionare sul piano giuridico formale quando si è in uno stato d’eccezione. Piuttosto è opportuno riflettere su quello che accadrà a partire dalla sospensione temporanea delle libertà. Nel secolo scorso, il giurista Carl Schmitt spiegò come in situazioni di estrema necessità, solo colui che è in grado di sostenere la sospensione dell’ordine giuridico costituito può esercitare la sovranità.

Per la prima volta nella storia a dichiarare lo stato di eccezione è stato un ente scientifico sovranazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità, quando ha dichiarato la pericolosità a livello mondiale della pandemia del virus covid19, nel periodo in cui l’infezione era ancora localizzata in Cina e altri territori asiatici.

Questa sospensione dell’ordine costituito trasferisce la sovranità alla scienza. Infatti, le televisioni sono piene di medici ai quali è stata attribuita una capacità di parlare in nome della scienza, laddove sappiamo che di questa pandemia la stessa comunità scientifica sa poco e al suo interno ci sono pareri discordanti persino sull’efficacia delle misure di contenimento. Quando si sospende la politica in nome della scienza, perché siamo in uno stato d’eccezione che mette al centro la verità scientifica, gli argomenti promossi da altri soggetti vengono limitati o presi in considerazione con un tono altezzoso. Poco importa se tra di loro ci sono anche i decisori politici. Quando la scienza sostituisce la politica, la risposta è solo tecnologica ed è pericoloso presentarla come un dogma indiscutibile.

La situazione d’emergenza prepara una trasformazione più vasta. Nel flusso straripante della comunicazione è già cominciata la celebrazione delle virtù salvifiche delle soluzioni tecniche come lo smart working e altre forme di distanziamento. Iniziamo a sperimentare nuovi tipi di separazione sociale, “distanti e connessi” ed è in corso un gigantesco trasferimento della vita produttiva dal mondo delle relazioni fisiche, a quelle mediate dalla tecnologia.

Stupidario contemporaneo: il genere come costruzione culturale

Negli anni Settanta alcuni studi antropologici hanno introdotto la tesi secondo la quale le identità maschili e femminili si sono costruite nel corso della storia attraverso una serie di pratiche convenzionali. Questo è in minima parte vero, ma la versione più estrema, nega il dato sessuale affermando che l’identità è una scelta slegata dal dato biologico. Si nasce maschio o femmina, ma poi si può preferire di essere l’uno o l’altro, o semplicemente qualcos’altro, secondo lo stato d’animo del soggetto. Addirittura, qualcuno si è spinto a parlare di cinquantasei opzioni di genere! Cosa affermano quegli studi conosciuti con l’espressione “teorie del gender” sull’identità sessuale? C’è una tendenza crescente, anche nei documenti ufficiali a eliminare il riferimento al sesso maschile e femminile, in favore della cosiddetta identità di genere, riferita alla percezione di chi si sente svincolato rispetto a ciò che la natura gli ha dato. Ovviamente, se si nega il genere come dato biologico, le possibilità sono innumerevoli: si può essere agender, bi-gender, pan gender, gender fluid. In questa confusione, se ci pensate, i risultati sono buffi.

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