spari nella notte del conformismo

Mese: Ottobre 2024

Contro tutte le “teorie del genere”

Fare a meno del maschile e del femminile e arrivare ad un individuo emancipato dalla natura. Sembra impossibile, un discorso al limite del delirio, ma non è così per i propugnatori della “teoria del genere”. Una tesi sviluppata negli anni Sessanta che ha avuto un’ampia diffusione a partire dagli anni Novanta. L’anno di svolta è proprio il 1990, quando la filosofa americana Judith Butler, pubblica un libro controverso: Gender Trouble, Feminism and the Subversion of Identity (trad. it. Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità). Testo che avrebbe conferito una forma canonica alla teoria del genere come costruzione culturale da smontare e rimodellare. Proprio da un particolare settore del pensiero femminista, quello egualitario, diverso da quello identitario che concentra la propria attenzione nella difesa o rivalutazione del dato femminile, si è diffusa una concezione dove la cancellazione di ogni differenza tra uomini e donne, dovrebbe rappresentare il presupposto di un’autentica uguaglianza. Mescolando con furbizia concetti contraddittori con l’alterazione del vero significato della parola “genere”, è stato composto un pastone ideologico che ha come ingrediente base l’idea di una società composta da individui autosufficienti, privi di legami e radicamento, al di fuori di quello volontario, razionale o contrattuale. Da qui è scaturito l’attacco al dato biologico, al maschile e femminile, finiti nel mirino della critica “decostruttiva”.
La parola chiave è “decostruzione”. Prima, si “costruisce” il genere artificiosamente secondo le proprie inclinazioni e poi si decostruiscono tutti quei processi socialmente riconosciuti come indicatori del genere. Prima l’individuo si “emancipa” dalla natura e poi si “rompe” con l’ordine sociale. Il genere viene superato dal transgender, lemma che definisce tutti coloro che si posizionano al di fuori della dicotomia maschio-femmina. Si pongono al di là, come suggerisce il prefisso trans. Il rifiuto del genere come dato naturale e la sua definizione come qualcosa di costruito e artificiale, sostiene l’esistenza solo di un’identità percepita e innumerevoli possibilità: si può essere agender, bi-gender, pan gender, gender fluid. In questa confusione, se ci pensate, l’esito è tragicomico.

Lo scopo dei propugnatori di queste teorie è rompere la dialettica di genere, per cui i sessi sono due, e così, superare la polarità uomo-donna, maschio-femmina, distinti e irriducibili. Anzi si sostiene che tale polarità sia qualcosa di arbitrario, determinato da pratiche sociali sviluppatesi nel corso dei secoli. Quindi se non ci sono un maschio e una femmina prede-terminati, tutte le variabili si sviluppano intorno a tre elementi che caratterizzano il genere in senso lato: percezione di sé, espressione di genere (es. come mi vesto), orientamento sessuale. È un problema antico, quello del rapporto fondamentale fra natura e cultura.

La pericolosa attività di predazione dei fondi d’investimento

 

 

In Italia non mancano soggetti in grado di elaborare un pensiero strategico di ampio respiro. Manca un ceto politico diffuso, capace di intercettare questo pensiero per trasformarlo in azione, sia nello spazio domestico che in campo internazionale dove si misura la forza persuasiva delle nazioni. L’Italia ha un nervo scoperto con la propria sovranità, la sconfitta nell’ultima guerra mondiale, ha ridotto spietatamente il campo di manovra.

Il nostro è un paese a sovranità limitata, sorvegliato dagli Stati Uniti e vincolato nel perimetro europeo secondo i rapporti di forza tra gli stati membri dell’Unione Europea. Niente di nuovo ma su un punto continuiamo ad insistere: questi limiti condizionano l’agenda politica, ma avere una capacità di manovra ridotta non significa rinunciare al movimento, non dobbiamo essere spettatori passivi nello spazio internazionale, né tollerare una mentalità economicista che rifiuta la storia per non avere troppi fastidi. Siamo nella sfera di influenza americana ma prendere coscienza di tale legame non significa rispondere nevroticamente “signorsì” ad ogni richiesta di Washington. Stesso discorso con l’Unione Europea: ogni richiesta di Bruxelles non è un ordine perentorio.

Riconoscere i limiti della nostra sovranità, significa imparare a muoversi fino a quella linea di confine oltre la quale il danno per il nostro paese potrebbe essere pesante. Lo spazio per l’interesse nazionale c’è, solo che andrebbe definito con precisione non limitandosi a generiche enunciazioni con l’atteggiamento tipico di chi non vuole urtare la suscettibilità del più potente.

La traiettoria di un governo è sempre di difficile interpretazione, soprattutto nella fase storica attuale, in cui sono le crisi contingenti a stabilire le priorità. Molte nazioni attuano una politica di lungo respiro, mentre l’Italia sembra ancora intrappolata nella programmazione a breve termine.

Il recente accordo tra Black Rock ed Enel evidenzia uno scenario difficile che travalica i confini italiani e assume una dimensione europea. Questo mega fondo americano, già famoso per il dominio nei mercati globali, ha avviato una strategia di acquisizione delle centrali elettriche da dismettere o riconvertire in molte zone d’Europa.

Nel caso italiano, l’accordo prevede la cessione a prezzi irrisori di alcune centrali a carbone svelando tutta l’incoerenza e l’ipocrisia della narrazione sulla transizione ecologica. Infatti queste centrali potrebbero essere riattivate per fornire energia ai data center delle grandi corporation come Google e Microsoft che necessitano di enormi quantità di energia per il funzionamento delle reti digitali e di tutta l’infrastruttura. A dimostrazione di quanto ancora siano indispensabili i combustibili fossili.

Ci domandiamo: il governo italiano non poteva realizzare un fondo sovrano per fare un’operazione di acquisizione e poi mediare con gli attori economici continuando ad assicurarsi il controllo di queste strutture industriali? La domanda resta sospesa.

L’attività di predazione di Black Rock non si ferma all’Italia e si basa su uno schema consolidato: fondi di investimento e multinazionali riescono a trarre vantaggio dalle crisi economiche, da eventuali difficoltà strutturali e dalle trasformazioni industriali per accaparrarsi le risorse strategiche nei paesi europei. Queste azioni dimostrano la capacità dei fondi di inserirsi nelle falle delle politiche pubbliche con un obiettivo semplice: indebolire il controllo statale sulle infrastrutture strategiche. Attualmente, tutti i discorsi carichi di emotività sull’ambiente, servono a coprire quelle operazioni che riproducono una dipendenza energetica e tecnologica gestita da pochi attori globali.

L’Italia e l’Europa rischiano di rendersi troppo vulnerabili. La transizione ecologica diventa una copertura per la svendita del patrimonio strategico e per nuove colonizzazioni economiche. Il capitalismo sta prendendo una nuova forma, i mezzi di produzione si trasformano e si prepara una sfida per il loro controllo. L’Italia dentro lo spazio europeo non può andare alla ricerca dell’utile più semplice. Insieme ai maggiori paesi europei, occorre rispondere con una visione strategica per non compromettere ancora di più la sovranità. Servono idee capaci di ergersi oltre le circostanze e i tempi brevi. Lo ripetiamo. È giunto il momento di una maggiore maturità geopolitica.

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