L’Islamic State non è quell’esercito dell’apocalisse che viene descritto dai media internazionali e dai maggiori leaders politici. Non vedrete questi aspiranti saraceni scorrazzare per le via di Roma e la bandiera nera del sedicente Califfato non sventolerà sulla cupola di San Pietro. Il barbuto Abu Bakr Al Baghdadi non lo vedrete passeggiare a Piazza del Popolo e non metterà fine al regno della vanità e del superfluo tra via dei Condotti e via del Corso. State tranquilli e continuate a sorseggiare i vostri drink, almeno per ora.
Abu Bakr, o forse sarebbe meglio chiamarlo Ibrahim ‘Awad al-Badri o forse Abu Du’a non è il successore della nobile stirpe di Muhammad, ma è solo un capobanda a capo di un’armata di fanatici con discrete capacità militari e rifornita di armi e soldi da amici potenti, in primis Qatar, Arabia Saudita e i loro complici nel lato occidentale: settori politici in combutta con spezzoni di servizi di sicurezza americani, francesi e britannici. Sulla testa del predicatore in rolex, pende una taglia di 10 milioni di dollari dall’ottobre del 2011 (qui) ma questo non gli ha impedito, nel maggio del 2013, di recarsi a Idlib, sul fronte siriano e conversare amabilmente con il senatore americano John McCain, insieme ai ragazzi del Syrian Free Army un mucchio di mercenari travestiti da oppositori politici.
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Abu Bakr, il finto Califfo e tutta l’allegra brigata di John McCain |
Il 10 giugno scorso, sui siti collegati al terrorismo islamico e su Twitter con l’hashtag SykesPicotOver (1) partiva la grande offensiva mediatica dell’autoproclamato Stato Islamico (IS) e il 5 luglio Abu Bakr compariva nella moschea di Mosul per rivolgere un’allocuzione ai fedeli e affermare il proprio dominio, ovviamente in nome di Dio.
Da quel momento, l’allora ISIL (riferimento geografico al Levante) è diventato IS (Islamic State) secondo l’acronimo inglese. Una specie di brand universale, senza riferimenti territoriali e rivolto anche a coloro che vivono fuori dal dar-al-islam, nelle terre degli infedeli. Lo Stato Islamico è diventato lo strumento maneggiato da una serie di attori geopolitici utile a sfruttare la rabbia di alcuni settori della comunità islamica per rivestire di spiritualità un conflitto economico finalizzato a definire un nuovo equilibrio in Medio Oriente.
La rivista online Dabiq, dal nome evocativo di antiche battaglie tra crociati e musulmani, fornisce dettagli sulle operazioni militari ma anche sulle attività sociali a favore delle comunità tribali. Promette il ripristino dei diritti di proprietà, ingenti finanziamenti ai servizi essenziali e ampia disponibilità di cibo e prodotti di consumo sul mercato. Rivolgendosi soprattutto a quelle tribù sostenute dai sauditi (e quindi dagli occidentali), per la rivolta sul terreno. Dabiq fornisce argomenti che servono al reclutamento, spiegando e giustificando la natura del califfato, le sue intenzioni, la sua legittimità politico-religiosa su tutti i musulmani, con un abile collage di testi classici, teorie politiche e nozioni di governo locale. L’IS è un eccellente comunicatore, scaltro nell’utilizzo di internet e capace di sfruttare quell’atteggiamento giornalistico che tende all’enfasi e deforma la percezione degli eventi. Abu Bakr è il nuovo “mostro”, ma il peso specifico dell’IS non deve ingannare, le atrocità commesse sono sconvolgenti, ma è sbagliato fissare lo sguardo solo sull’efferatezze compiute, perché così si distoglie l’attenzione su chi ci sia dietro al sedicente Califfo. In Arabia Saudita le decapitazioni e le violenze sono quotidiane, eppure verso Ryad si conserva un atteggiamento ipocrita essendo il migliore alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo.
Abu Bakr non è un soggetto autonomo, non agisce in piena libertà ma è difficoltoso individuare con certezza la catena di comando di chi lo manovra, altrimenti scopriremmo che molti dei suoi amici stanno a Washington, a Londra o forse all’ombra della Tour Eiffel. Quegli amici che nel dicembre 2004 lo scarcerarono dalla prigione di Camp Bucca nel sud dell’Iraq dove era detenuto sotto stretta sorveglianza degli americani.
NOTA
1) L’accordo Sykes-Picot fu un’intesa segreta (1916) fra l’Inghilterra, rappresentata da M. Sykes (1879-1918), e la Francia, rappresentata da F. Georges-Picot (1870-1951), con l’assenso della Russia zarista, per decidere le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo ritenuto imminente dell’impero ottomano. All’Inghilterra fu riconosciuto il controllo, diretto e indiretto, di un’area comprendente la Giordania attuale e l’Iraq meridionale, con l’accesso al mare attraverso il porto di Haifa, mentre la Francia avrebbe avuto la regione siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale, e la Russia Costantinopoli con gli stretti e l’Armenia ottomana. Il resto della Palestina sarebbe stato sotto il controllo internazionale.
1) L’accordo Sykes-Picot fu un’intesa segreta (1916) fra l’Inghilterra, rappresentata da M. Sykes (1879-1918), e la Francia, rappresentata da F. Georges-Picot (1870-1951), con l’assenso della Russia zarista, per decidere le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo ritenuto imminente dell’impero ottomano. All’Inghilterra fu riconosciuto il controllo, diretto e indiretto, di un’area comprendente la Giordania attuale e l’Iraq meridionale, con l’accesso al mare attraverso il porto di Haifa, mentre la Francia avrebbe avuto la regione siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale, e la Russia Costantinopoli con gli stretti e l’Armenia ottomana. Il resto della Palestina sarebbe stato sotto il controllo internazionale.