Il liberalismo non si è mai presentato come una dottrina unificata. Gli autori che si sono richiamati ne hanno fornito interpretazioni talvolta divergenti, se non contraddittorie. Sarebbe più corretto parlare di “liberalismi”. Solo nel Novecento, per limitarsi alle correnti principali, possiamo distinguere i liberali conservatori come Ortega, Croce, Einaudi e Aron; i liberali progressisti, o liberal, come Hobhouse, Rosselli, Rawls e Bobbio; i Libertarians, come Murray Rothbard e infine la scuola austriaca di economia (Mises, Hayek, Menger). Una pluralità di voci che si avverte soprattutto nei riguardi dell’agire politico ma tutte accomunate dalla stessa sinfonia. Il liberalismo è prima di tutto una dottrina economica che considera il modello del mercato autoregolatore il paradigma dei fatti sociali. Quello che chiamiamo liberalismo politico non è altro che una maniera di applicare alla vita politica dei principi dedotti dalla dottrina economica, la quale tende il più possibile a limitare la funzione del politico. Il rapporto col politico è delicato. I liberali conservatori sostengono la causa del saggio realismo politico, i più progressisti quella del costruttivismo iperpolitico, libertarians, vicini intellettualmente alla scuola austriaca, celebrano la scomparta dello stato o comunque una depoliticizzazione totale, sostituendo all’atto politico, l’azione del mercato. In sintesi, per i conservatori senza decisione politica non c’è mercato, per i liberal, la decisione politica deve sostituirsi al mercato, per i libertarians il rapporto è rovesciato e la decisione economica deve sostituire quella politica. Il pensiero dell’economista tedesco, Wilhem Roepke, nato a Schwarmstedt, il 10 ottobre 1899, rappresenta una sintesi particolare tra economia di mercato e conservatorismo politico ed etico. La sua teorizzazione di una “Dritter Weg” (terza via) per compensare l’eccesso di stato o l’opposto eccesso di mercato, è una soluzione di compromesso concreta ed efficace. Un pensiero che apprezza la decisione, ma non il decisionismo liberal, celebra l’individuo ma non degenera in un individualismo senza limiti.

Due passaggi di Roepke sull’economia di mercato e sulla concentrazione industriale e finanziaria, spiegano bene la sua filosofia economica.

“Per quanto sia essenziale, l’economia di mercato da sola non può bastare, occorre risolvere alcuni problemi che si risolvono al di fuori dell’ordine economico. L’economia di mercato deve trovare il suo posto, quale istituzione di inestimabile valore nella cornice più ampia di un ordine politico, sociale e morale. Questo ordine economico deve integrarsi negli altri ordini, più ampi e più alti da cui dipende il successo dell’economia di mercato”.
Più interessanti sono le osservazioni di Roepke sul problema della concentrazione industriale:

“L’opinione che la concentrazione sia inevitabile non è altro che un mito (…) La politica intenzionalmente, o ancora più spesso senza avvedersene, sposta i pesi a favore delle grandi imprese. È una lotta ad armi disuguali (…) Un programma liberale di decentramento consisterebbe in primo luogo nel rendere le armi pari (…) è giustificata la domanda su come potrebbe cambiare la situazione nel senso da noi desiderato, se, al contrario, i pesi venissero spostati a favore delle imprese medie e di giusta misura. Perché in fin dei conti, è più importante l’optimum umano e sociale di quello tecnico-economico dell’azienda.

In buona sostanza, mentre il liberalismo disordinato di Mises, Hayek e dei libertarians preferisce lo scambio economico, quello ordinato di Roepke fa dipendere il mercato, pur sovrano nel suo ordine, da altre istituzioni culturali, religiose morali e in primis dalla decisione politica. Egli non considera il mercato come un meccanismo perfetto, ma qualcosa da azionare e sorvegliare, inoltre, è diffidente verso gli automatismi e la metafora smithiana della “mano invisibile”, incarnazione profana della Provvidenza. Ecco spiegato lo scontro che contrappose Hayek e Mises da una parte e Ropke ed Eucken dall’altra negli anni sessanta. I primi difensori di un mercato completamente autonomo dalla politica, i secondi invece, più attenti agli elementi concreti in cui si compone la società. Roepke più volte utilizzava l’espressione, “uno Stato che sa tracciare”, a voler significare che a decidere in ultima istanza deve essere sempre la politica e non l’economia.

L’economista tedesco, morto nel 1966 con la sua critica allo spirito del tempo e alla mentalità di certi economisti liberali è ancora attuale. Il suo, rappresenta un tentativo di revisione della modernità sulla base dei principi di un originale umanesimo economico, accompagnato da scelte politiche riformatrici. Il punto di partenza del suo programma o, come egli stesso diceva, l’asse portante della “Terza Via” è la libertà economica, perché non vi è alternativa. Quelli che rifiutano il dirigismo economico devono per forza volere l’economia di mercato e tale “principio ordinatore” non può essere messo in discussione, perché secondo l’autore non c’è possibilità di scelta. La terza via si riferisce all’ambito antropologico, sociologico ed etico-religioso, nel quale l’economia, che “non è tutto”, occupa una posizione specifica. Roepke spiega bene come l’attività economica debba sottomettersi a principi che la trascendono, definiti dall’espressione “coefficiente alfa o l’umano-sociale”.

I principi basilari non sono soggetti a deroghe. “Dove si tratta del principio ordinatore non vi è alcuna “terza via”: i prezzi o regolano l’economia o non lo fanno; se non lo fanno deve farlo l’autorità”. Lo sviluppo teorico della Terza Via presenta in Roepke un duplice aspetto. Da un lato una sistematizzazione generale dei fini di una politica economica e sociale sana, dall’altro il riferimento alle misure per la realizzazione del suo programma. Roepke enunciò il principio per cui l’ideale politico si deve realizzare nella determinazione di precise regole giuridiche, poiché dalla loro solidità e persistenza dipende in buona misura la forza del mercato. Si tratta di fissare le basi di una costituzione economica, sotto la cui sovranità politica si possono realizzare la libertà e l’ordine. Il mercato, è opportuno insistere, è il risultato di un’azione politica e giuridica razionale. Vi sono dunque, schematicamente, due tipi d’intervento sullo stesso: l’intervento conforme, e l’intervento non conforme.

Il primo, chiamato anche di “riadattamento” o di “riaggiustamento”, ha la pretesa di accelerare il recupero dell’equilibrio economico alterato da “problemi particolari di dinamica”. Invece di abbandonare un settore in affanno, Roepke propone l’intervento costruttivo, sempre secondo la logica libertaria, ma attenuando nei limiti del possibile il prezzo del riaggiustamento. L’intervento “non conforme”, detto anche “conservatore” o “reazionario” è quel che si oppone al necessario adattamento dei gruppi alla dinamica economica. E si ha nelle società pluraliste dove un gruppo di pressione, come le organizzazioni imprenditoriali, il sindacato o altre lobby, può imporre determinate misure legislative atte a sovvenzionare il costo della propria inefficienza (tariffe protezionistiche, autorizzazioni amministrative troppo complesse e altre misure restrittive). Da questo punto di vista, l’Italia è un esempio negativo. La sostanza del programma riformatore di Roepke è, a rigore, una politica in grado di delineare un quadro economico in cui si possa realizzare una libera concorrenza piena e non deformata. Una politica antimonopolistica in grado di scardinare le posizioni di privilegio. Dopo di che, e una volta fondato l’ordine su questo postulato, si richiede la definizione di una politica economica capace di evitare eccessi troppo “statalisti” o troppo “mercantilisti”.

Siamo in presenza di un punto particolarmente sensibile per un economista liberale, perché la facoltà dello Stato di intervenire nel mercato, stando alla teoria degli “interventi conformi”, non può essere smisurata. Vanno individuati dei lim

iti precisi con provvedimenti circostanziati, su questo punto, lo stesso Roepke è consapevole che oltre una certa soglia, l’imposizione fiscale o altre interventi regolatori, rischiano di trasformarsi in pericolosi esperimenti collettivisti. Questo “interventismo liberale”, espressione mutuata da Ruestow, si distacca dalla politica economica convenzionale per definire una “politica di struttura”, riferita al risanamento dei “presupposti sociali” che rendono possibile un’economia libera. Quali sono? La struttura della distribuzione della rendita, la grandezza della proprietà e la sua diffusione, la dimensione delle imprese, l’equilibrio demografico fra le gene

razioni, la struttura della popolazione urbana e rurale. La critica di Roepke, serve a combattere il presunto apoliticismo liberale, considerato un trucco per disconoscere il primato della politica. Per questa ragione il pensiero di Roepke appartiene a una tradizione di liberalismo atipico, che accetta l’elemento politico come qualcosa di necessario, per una corretta libertà economica e un’azione politica che non rifiuti il concetto di bene comune e giustizia, senza degenerazioni moralistiche che negano ogni conflittualità nel campo politico.