In Libia non esiste nessuna forza politica o tribale, nessuna milizia o gruppo organizzato in grado di esercitare la sovranità nazionale. È la conseguenza della scellerata e ipocrita scelta della Francia e della Gran Bretagna, di bombardare il paese con la copertura della Nato per rovesciare Gheddafi. L’Italia riluttante dovette adeguarsi e ora il fantasma del rais ci tormenta, mentre vediamo le tribù armate in lotta e le bandiere nere del sedicente califfato sfilare per le strade.
Ve lo ricordate cosa disse Muhammar? «La scelta è tra me o Al Qaeda L’Europa tornerà ai tempi del Barbarossa».
La Libia è un caso disperato, spaccata tra il governo di al-Tinni che opera a Est tra al Bayda e Tobruk nei pressi del confine egiziano e le milizie “rivoluzionarie” di Misurata e i loro alleati che controllano Tripoli nella parte ovest. Prima del 2011 il territorio era governato con il pugno di ferro del colonnello Gheddafi che per quarantadue anni, grazie alla sua sperimentata abilità nel contrattare il consenso con le varie tribù e i poteri locali informali delle tre macroregioni: Cirenaica, Tripolitana e Fezzan.
Oggi è tutto fuori controllo e quella che ancora identifichiamo come Libia sulla mappa geografica è solo un guazzabuglio di territori controllati da milizie armate in lotta e tutte con uno sponsor esterno. In palio c’è il controllo dei pozzi e il relativo flusso di petrodollari. Le milizie dello Stato Islamico si sono inserite a pieno titolo nella battaglia e ogni tentativo di mediazione nei mesi scorsi dell’Onu e dell’Italia è fallito. Roma deve fronteggiare una situazione disastrosa, si invoca una soluzione diplomatica e un dialogo tra le parti. Ma con chi e con quali interlocutori?
In Libia i miliziani del Califfato si sono insinuati nelle fratture create dalla guerra civile, tanto da riuscire ad erodere il potere decisionale dei capi tribù e dei loro consigli tribali. L’IS ha arruolato sempre più militanti delusi dalle filiali nordafricane di al-Qaida facendosi largo con la propaganda e la ferocia. I soldati di Abu Bakr hanno bombardato pozzi di petrolio e linee di collegamento, secondo una precisa tattica di guerra finalizzata a circondare e prendere il controllo di Tripoli, isolando e assediando i centri urbani che la circondano. Parte di questa strategia è anche nella comunicazione mediatica: sotto questo aspetto va interpretato l’orrendo video diffuso su internet il 14 febbraio sullo sgozzamento di 21 egiziani copti catturati e le minacce all’Italia “crociata”.

L’onda lunga del terremoto libico ci investe in pieno. Per la prima volta, da quando nel 1911 ci fu il primo sbarco a Tripoli che entusiasmò anche il mite Pascoli tanto da scrivere “la grande proletaria s’è mossa”, torna attuale la possibilità di un invasione militare. L’Italia deve decidere come riaffacciarsi sulla quarta sponda ma il suo retaggio culturale e la sua Costituzione che retoricamente all’art.78 ripudia la guerra come strumento d’offesa, impedisce di affrontare il discorso con la franchezza e la sincerità (amara se vogliamo) che il caso richiede.
È una cultura nazionale diffusa che rende difficile l’assunzione di responsabilità, che fa perdere di vista la dimensione politica del problema di fronte a una guerra reale per uccidere nemici combattenti. Il ricorso al camuffamento lessicale dell’inglese, con parole rassicuranti tipo “peacekeeping” non muta la sostanza del problema.
Il governo italiano può impostare un’azione politica e militare improntata al realismo e prendere atto che nessun governo è possibile a Tripoli in queste condizioni, con nessuna coalizione. Detta in altre parole, è necessaria l’occupazione militare di tutti i luoghi più importanti della Libia: città, pozzi, pipelines e vie di comunicazioni che collegano una costa di oltre 1700 chilometri. Da un punto di vista operativo oltre ai mezzi corazzati adeguati, occorrono almeno centomila uomini che però non siamo in grado di schierare. Da qui un’altra domanda: è realistico ipotizzare un massiccio intervento militare con francesi, inglesi e americani (i creatori del caos libico), visto che finora hanno ignorato le sollecitazioni italiane? Difficile.
L’ipotesi di intervenire con poche decine di migliaia di unità, per affrontare migliaia di combattenti con centri di comando diffusi e senza un quartier generale centralizzato, significa esporsi ad un fallimento assicurato. Scegliendo di percorrere la strada militare occorre farlo senza cautele o autolimitazioni. Altrimenti si può optare per una via diplomatica difficile e tortuosa, senza intervenire sul campo ma erigendo un muro militare difensivo nel Canale di Sicilia.
La via puramente difensiva che comporterebbe di fatto l’abbandono della Libia, potrebbe produrre come effetto l’installazione di un centro politico-terroristico sulle sponde del Mediterraneo. Soluzione poco eroica, ma obbligata se non c’è il coinvolgimento di altre nazioni. L’idea di inviare un contingente militare di cinquemila soldati, previa autorizzazione Onu, per difendere il governo libico che agonizza a Tobruk ci farebbe schierare con le milizie di Zintan e del loro alleato, l’esercito del generale Khalifa al Haftar, longa manus dell’Egitto, con il rischio di impantanarci in una palude sanguinosa. Il primo ministro al-Tinni e il generale Haftar non perdono occasione di presentare la loro lotta come parte dello sforzo generale “contro i terroristi”.
Una scelta di tipo “legalitario” ci farebbe incorrere in un grave errore politico, perché l’Italia si schiererebbe con forze politiche espressione della Cirenaica aggravando la cronica guerra civile con la Tripolitania e il Fezzan petrolifero che il metodo autoritario di Gheddafi aveva evitato. Un autentico rompicapo.