In dieci giorni la Siria laica governata dalla famiglia Assad non c’è più. Si chiude un’epoca sotto il fuoco incrociato delle milizie islamiche bene equipaggiate e addestrate. Siamo alle battute finali di uno scontro che vede protagonisti soprattutto la Turchia, gli Stati Uniti, l’Iran, la Russia e Israele che hanno trasformato la Siria in un territorio di scontro che punta alla definizione di nuovi equilibri di potere nel Medio Oriente.
È una storia iniziata nei primi mesi del 2011 all’epoca delle prime rivolte in Siria trascinate delle cosiddette “primavere arabe”. Da lì si è innescata una miccia che ha provocato uno stato di tensione permanente nella composita società civile siriana. Una guerra civile strisciante e parzialmente assopita nel 2015 con l’intervento militare di Russia, Iran ed Hezbollah che hanno evitato il collasso definitivo del governo di Bashar Al Assad e delle strutture statali. Da quel momento per la Siria è cominciata una nuova storia: lo Stato non ha mai recuperato la piena sovranità, dato che alcune di queste milizie, islamiste e curde, hanno continuato ad avere il controllo di alcune porzioni di territorio.
Alla fine è arrivata la resa dei conti e la rivolta che ha rapidamente rovesciato il governo, sembra essersi sviluppata da intese combinate prima ancora degli spari sul campo di battaglia. Dopo l’ingresso ad Aleppo, l’esercito siriano non ha fatto altro che ritirarsi e arrendersi.
Sono tante le incognite sul futuro della Siria divisa in fazioni che si guardano con diffidenza, seppure a parole, già si parla di intesa e unità.
Chi sono i principali protagonisti di questa vittoria?
Il maggiore sforzo militare sul campo è stato sostenuto dai combattenti di Hayat Tahrir Al Sham (Hts) sostenuti dalla Turchia con il loro leader Mohammed al-Jolani il più mediaticamente esposto tanto da rilasciare interviste dove manda segnali concilianti, con inviti alla calma e ad evitare vendette. Al Jolani figura ambigua dal passato controverso, arrivato a Damasco, si è inginocchiato e ha baciato la terra del quartiere dove era cresciuto, ovviamente con il fotografo a immortalare la scena. Abu Havrebbe preso le distanze dall’islam fanatico ha appena dichiarato: “Non sostituiremo un potere con quello di un altro” e ha garantito il rispetto di tutte le minoranze, tanto da avere incontrato i capi delle comunità cristiane con la mediazione del vicario apostolico di Aleppo. Ricordiamo che la Siria è un mosaico di etnie, gruppi e orientamenti religiosi: islamici sunniti e sciiti, alawiti, cristiani, arabi, drusi, armeni, curdi. curdi. Solo il tempo ci dirà se questa nuova immagine sia il risultato di una tattica di comunicazione o un’autentica volontà di cambiamento. Dietro l’apparente unità d’intenti, lo schieramento ribelle è unito solo nella vittoria ma diviso sul futuro. Sembra prevalere l’Hts ma altri gruppi potrebbero prendere il sopravvento e molto dipende dagli sponsor stranieri che li sovvenzionano.
Quello che stiamo osservando somiglia a una transizione ordinata: quasi tutti i funzionari pubblici sono rimasti per ora al loro posto, così come il primo ministro Mohammed Ghazi Al Jalali, rimasto a Damasco, ha già avuto contatti con i capi della rivolta per preparare il passaggio di poteri. Solo la famiglia Assad già fuggita a Mosca e i collaboratori più stretti hanno lasciato il paese dopo essere stati adeguatamente avvisati. Ci sono tutti gli elementi per una crisi pilotata dove ognuno degli attori politici ha avuto adeguate garanzie.
Al momento Muhammad al-Bashir sarà incaricato di formare un nuovo governo per gestire la fase di transizione. Lo riporta Al-Jazeera, secondo cui il nome è emerso durante un incontro tra il comandante del dipartimento operativo dell’opposizione armata, Ahmed Al-Sharaa, lo stesso Al-Bashir, e l’ultimo primo ministro Muhammad Ghazi Al-Jalali. Al nuovo capo dell’esecutivo spetterà il compito di definire le modalità del trasferimento dei poteri ed evitare che la Siria precipiti nel caos.
Chi ha vinto e chi ha perso
Le prossime settimane saranno come un rebus da risolvere. Gli Stati Uniti con il nuovo presidente Trump si sono affrettati a dichiarare di volere restare fuori dalla contesa, difficile pensare a un disinteresse con 900 militari nelle zone curde del nord e con i finanziamenti al Sdf (Syrian Democratic Force). Israele ha subito spedito i soldati nella zona demilitarizzata e contesa del Golan, dopo che in precedenza aveva colpito la Siria con continue violazioni dello spazio aereo. Bruciante è la sconfitta dell’Iran che aveva nella Siria un crocevia fondamentale per i movimenti di tutte le milizie sciite fino al Libano. Così come un duro colpo è stato assestato ai libanesi di Hezbollah che adesso perdono un importante retrovia logistica.
La Russia ha assistito impotente allo sfaldamento del governo siriano ma è quella ad avere incassato meglio il colpo avendo avuto garanzie sulla sicurezza delle sue basi sulla costa orientale, quella navale Tartous e quella aerea di Hmeimim.
Sicuro vincitore è la Turchia e dobbiamo ammetterlo, il presidente Erdogan ha dimostrato una capacità di saper cogliere le occasioni al momento giusto. Con gli Stati Uniti impegnati nell’interregno del passaggio di poteri tra un’amministrazione e l’altra, con la Russia impegnata sul fronte caldo ucraino, Ankara ha saputo muovere le bene i pezzi sulla scacchiera. La Turchia mantiene il corridoio di sicurezza al confine con la con la Siria, una zona cuscinetto di 35 km, può confrontarsi con un governo amico e decidere sul futuro della Siria per rafforzare la propria influenza politica in tutto il Levante e il Mediterraneo orientale.
In questo momento storico di rimescolamento delle forze in Medio Oriente c’è un grande assente: l’Europa. Nazioni come l’Italia, la Francia o la Germania non provano nemmeno a giocare la partita, limitandosi ad accettare passivamente le scelte delle altre potenze. C’è da restare sconfortati.