Che cos’è la proprietà? La proprietà è un furto!

Questa frase, apparsa nel 1840 in un volumetto di Pierre Joseph Proudhon, diventerà uno dei più efficaci slogan rivoluzionari dell’Ottocento, mentre al suo autore, poco più che trentenne, garantì una certa fama. Le origini e la giovinezza di Proudhon sono importanti per comprendere le sue teorie. Nel corso dei decenni, il rivoluzionario francese, nativo di Besançon, troverà consensi trasversali. Visse tra Lione e Parigi, ma il suo orizzonte morale e politico rimase sempre quello del giovane puritano di provincia, sdegnato e inorridito dal lusso, dalla stravaganza e dalla corruzione della metropoli, questo centre de luxe et de lumières. La sua famiglia, di origine contadina, si stava inserendo nel ceto medio urbano e per questo Marx, prese a chiamarlo un “piccolo borghese” (come era lui del resto…). Suo padre dopo aver lavorato come bottaio, si era dato alla fabbricazione e allo smercio della birra nel capoluogo; ma non ebbe molta fortuna negli affari e la famiglia attraversò periodi frequenti di miseria. La madre invece, incarnava l’ideale contadino di frugalità e indipendenza, che dovette suggerire molte idee del figlio circa la società futura.
Delle sue origini, Proudhon era orgoglioso: «I miei avi erano contadini indipendenti, celebri per la loro audacia nel resistere alle pretese dei signori…Sono nobile io». La sua concezione del mondo, rimase fino all’ultimo di tipo rurale; la società ideale, composta di contadini solidi, liberi e autosufficienti. Nei suoi scritti, come in quelli di tanti anarchici successivi, corre una vena continua di nostalgia per le virtù scomparse (e spesso immaginarie) di una società semplice e agreste, quale esisteva prima che le macchine e i falsi valori di banchieri e industriali la deturpassero.


Proudhon era quello che oggi si definirebbe un self made man, e i suoi scritti traboccano di squarci disordinati ed imprevisti di cultura non sistematica. Prima fu un bovaro, poi divenne un’apprendista tipografo (mestiere che produrrà in futuro un nutrito ceppo di anarchici seri e riflessivi). Proudhon imparò il greco e il latino e lesse un gran numero di libri di filosofia e religione. Infine, nel 1838 vinse una borsa di studio a Parigi che l’accademia di Besançon aveva messo in palio. A questo consesso di accademici dedicò l’opuscolo Q’est-ce que la propriété? (Che cos’è la proprietà?), mentre un secondo libro, apparso due anni prima, sullo stesso argomento, era stato sequestrato per ordine del procuratore di un tribunale locale. Il suo successo e la notorietà procurata dalle diatribe con l’autorità giudiziaria, lo resero celebre e per il resto della vita fu un propagandista e un poligrafo instancabile, un critico spietato della società contemporanea. Come scrisse in un celebre passo del libro sopra citato, si era votato per sempre allo studio dei «mezzi per migliorare le condizioni fisiche, morali e intellettuali, della classe più numerosa e più povera».

Quel volumetto, come altre opere successive, per non parlare del processo intentatogli a Besançon, gli assicurarono una considerevole notorietà nei circoli radicali in Francia e all’estero ma non gli fecero guadagnare denaro. Negli anni che seguirono dovette lavorare per una ditta di trasporti fluviali a Lione e qui poté studiare sul campo i problemi dello scambio e della produzione di beni e servizi, e avere una prima esperienza diretta dei circoli militanti operai. Fece pure ripetute visite a Parigi, dove si stabilì definitivamente nel 1847 e in quegli anni conobbe Marx e Bakunin. I suoi scritti sulla proprietà lo avevano inquadrato come economista radicale; le sue idee erano già discusse largamente; ma lo furono ancor più quando egli le formulò in un’opera filosofica, il “Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria”. Un libro che esprime bene la sua forma mentis; discorsivo, pieno di divagazioni, enciclopedico, che passa da discussioni sull’esistenza di Dio a critiche minuziose dei sistemi di controllo delle nascite, fino ad una concezione puritana del matrimonio e della famiglia.

Proudhon criticava qualunque forma di rigenerazione della società limitata al riordino degli elementi istituzionali: trasferire il potere da un gruppo all’altro, o togliere la proprietà del capitale ai suoi detentori per sostituirli con una nuova consorteria di monopolisti sfruttatori, non serviva a nulla. Egli è quindi avverso tanto alle grandi aziende industriali ipotizzate da Saint Simon come mezzo per abolire la miseria, quanto alla produzione e al consumo di massa nei falansteri ideati da Fourier; non guarda con simpatia né ai progetti di comunità utopistiche in cui tutto è di proprietà comune ma il lavoro è sottoposto a una rigorosa direzione centrale, né d’altra parte, alle dottrine dei liberisti, sulla libera circolazione dei capitali e l’abolizione delle tariffe doganali, pur avendo studiato sugli stessi testi dai quali avevano attinto Smith, Ricardo e Say.
Invece di società basate sull’accumulazione, sulla circolazione di capitale e sull’esercizio di un potere statale centralizzato, Proudhon, convinto federalista, sognava un’organizzazione della società poggiante sul lavoro effettivamente svolto dal singolo, mettendolo in rapporto diretto con i bisogni. Ognuno lavorerà per mantenere sé e la propria famiglia senza produrre un utile per il proprietario o l’imprenditore fannullone.

La proprietà (intesa sia come terra che come capitale) è furto, appunto perché il suo detentore si appropria di ciò che dovrebbe essere liberamente disponibile a tutti: «Sostengo che l’uomo può solo avere il possesso e l’uso, alla condizione permanente che lavori, lasciandogli per intanto la proprietà delle cose che produce». La prima condizione per stabilire un rapporto diretto fra ciò che l’uomo produce e ciò che consuma, è l’abolizione dell’intero sistema d’intermediazione di credito e scambio. Scomparsi i finanzieri, le banche e lo stesso denaro, i rapporti economici dovrebbero ritornare a una sana e naturale semplicità. Nel 1849, lo stesso Proudhon farà un breve e sfortunato tentativo fondando una Banca del popolo, che non avesse capitale né realizzasse profitti, ma in cui i clienti potessero accumulare credito in contropartita di beni consegnati, in modo da scambiare prodotto contro prodotto senza l’intermediazione del denaro.

«Bisogna distruggere la regalità dell’oro», scriverà dopo il fallimento dell’esperimento, «facendo di ogni prodotto del lavoro una moneta corrente». A Parigi, fu attraverso i contatti con gli emigrati tedeschi, che conobbe il pensiero della filosofia tedesca, soprattutto  di Hegel. Un anno dopo la pubblicazione del Sistema, Karl Marx criticò a fondo le teorie economiche di Proudhon, con un libro che parodiando il sottotitolo dell’opera, s’intitolava Miseria della filosofia.
Marx aveva il brutto vizio di celare dietro le divergenze teoriche, una profonda diversità di temperamento. Quando i due si conobbero, Proudhon era già conosciuto, Marx invece, non era altro che un povero e ignoto giornalista radicale. Comprese quanto il francese potesse essergli utile e gli propose di diventare il rappresentante parigino di una rete di corrispondenze organizzate, intese a collegare i socialisti di diversi paesi, primo embrione di quella Internazionale che Marx fonderà molti anni dopo. La proposta non fu accolta con entusiasmo, malgrado l’ammirazione nei confronti del tedesco, Proudhon intuiva quanto sarebbe stato difficile lavorare con lui.
In realtà l’attacco sferrato da Marx fu la conseguenza del tentativo fallito di assicurarsi la collaborazione di Proudhon e, se è vero che il barbuto, fosse migliore come economista e filosofo, avendo molte ragioni di critica nei confronti delle teorie dell’ex amico, non è forse priva di fondamento la risposta di quest’ultimo: «Il vero senso dell’opera di Marx è che egli si dispiace che dappertutto io abbia pensato come lui e l’abbia detto prima di lui».

L’importanza di alcuni scritti di Proudhon non stanno tanto nel loro contenuto teorico, per quanto affascinante e ricco di frasi ad effetto che entreranno nella retorica rivoluzionaria, ma soprattutto per il suo atteggiamento disincantato. Proudhon non crede nelle presunte virtù innate del popolo e della classe operaia, sa bene che ricchi e poveri hanno gli stessi difetti. Dirà, «il cuore del proletario è come quello del ricco, una figura della bollente sensualità, un focolaio della crapula e dell’impostura». La trasformazione delle istituzioni politiche non è sufficiente se non avviene un drastico cambio di mentalità. In altri termini, se le idee di Proudhon sull’organizzazione sociale si basano sulla fede nella possibilità di leggi economiche e sociali razionali, la sua concezione della natura umana tiene conto di tutti quegli elementi irrazionali e passionali che la contraddistinguono. Il nuovo ordine non è un’utopia semplice che si realizza con un impasto di soluzioni tecniche ed idealismo. Proudhon arriverà ad annotare nel suo taccuino queste parole: «Libertà, Eguaglianza, Fraternità!», Io direi piuttosto «Libertà, Eguaglianza, Austerità!». Questo richiamo al sacrificio colpirà non solo i teorici della violenza anarchica ma anche i pensatori della destra politica. Gli aspetti contraddittori della natura umana si riflettono anche nell’opera e nella personalità di Proudhon. La violenza del suo carattere non lo spinse mai a prendere parte attiva alle ribellioni che esploderanno in tutta Europa nel periodo storico in cui visse.

Durante la rivoluzione parigina del 1848 commentò: «Ascolto l’orrore sublime delle cannonate». La violenza è più personale e si esprime in allarmanti rampogne e, sebbene in alcune circostanze, egli contesti persino il diritto della società di punire, altre volte si esprime addirittura in favore della pena di morte. Nella sua vita e nella letteratura è sempre presente un miscuglio di moralismo puritano (soprattutto in campo sessuale) e una propensione alla violenza politica, come parte dell’istinto dell’uomo. Furono tuttavia, le esperienze della rivoluzione del 1848 a concentrare l’attenzione sul problema dell’organizzazione politica ed economica della società fino a formulare il doppio programma che egli stesso riassunse in questa frase: «La nostra idea dell’anarchia è lanciata; il non-governo matura come prima la non-proprietà». Questa duplice negazione del governo e della proprietà fa di Proudhon il primo vero pensatore anarchico.

Sebbene già noto come pubblicista rivoluzionario prima del ’48, egli non aveva mai avuto contatti con organizzazioni politiche attive, se si escludono le poche frequentazioni con il gruppo semiclandestino dei Mutualiste di Lione. Il suo istinto lo rendeva diffidente verso l’azione politica, guardava con scetticismo all’attività dei liberali e dei socialisti, pur tuttavia si gettò nella mischia, partecipando anche alla formazione delle barricate, durante alcune sommosse popolari.
Proudhon era pieno di contraddizioni, da un lato invocava la destituzione di Luigi Filippo e dall’altro criticava il movimento insurrezionale che secondo lui agiva su presupposti errati: invece di attuare una rivoluzione sociale e di procedere ad una radicale trasformazione del regime della proprietà, i politici francesi della Seconda Repubblica non facevano altro che annunciare riforme d’ordine costituzionale e politico.

Deluso dall’esperienza parlamentare, ebbe una reazione di pessimismo e successivamente si impegnò in una furiosa polemica anarchica, assumendo atteggiamenti e posizioni spesso incoerenti. Nel gennaio 1849, un violento attacco contro Luigi Napoleone, da poco eletto Presidente della Repubblica, gli costò un processo per sedizione. Per qualche mese riuscì a sfuggire alla polizia, ma in giugno fu arrestato e scontò tre anni di carcere, anche se in condizioni poco restrittive.
Trascorse il resto della vita come un pubblicista precario, con una reputazione di pensatore indipendente, che né la galera né l’esilio potevano intimidire. Il suo carattere passionale, il tenace rifiuto del compromesso, fecero di lui un giornalista molto popolare, sebbene la considerazione verso Luigi Napoleone fu ambivalente. Con il colpo di stato del 1851 egli salutò positivamente la nuova dittatura napoleonica, forse accarezzando il sogno di aver trovato un despota illuminato o forse un mezzo per sconfiggere i propri nemici e insieme il preludio di una rivoluzione.

Le critiche al sistema democratico, ebbero notevoli effetti sulla reputazione di Proudhon. Negli anni Trenta del Novecento, venne riscoperto da molti autori appartenenti al radicalismo di destra. Lo si è proclamato antenato di Maurras e dell’Action Française e negli anni della seconda guerra mondiale, durante il governo di Vichy con l’occupazione tedesca della Francia, furono molti a scorgere in Proudhon il portavoce del “vero” socialismo francese in antitesi alla variante russa del marxismo. Ecco perché in tanti considerano Proudhon non classificabile come un pensatore progressista in senso stretto per via della sua vena antimoderna e antidemocratica molto accentuata.