La Storia non è finita e non ci sono motivi per pensare il contrario, come i tanti ingenui che negli anni Novanta celebravano la sua dipartita convinti che tutto fosse piatto e diluito nel contenitore delle democrazie liberali. Fortunatamente ci hanno pensato gli eventi a bruciare la convinzione che ogni tradizione, passione e retaggio identitario si potessero disperdere e mescolare in asettiche pratiche di governo.
La Storia fa irruzione anche nelle terre d’Europa, quelle che più si sono immaginate pacificate e post storiche. Mentre a Est sorgono nuove potenze, mentre gli imperi, definizione imperfetta ma efficace, si danno battaglia per un lembo di terra, una disputa linguistica, per una idea diversa di Dio, mentre antiche contese regionali, cartografiche, diventano motivo di mobilitazione, cosa succede qui da noi? In Europa sono ancora troppi, soprattutto tra le élites al governo, a credere nell’abbaglio post-storicista. Il sentimento della fine sembra profondamente radicato nella mentalità diffusa dei popoli europei contemporanei, come nelle loro istituzioni, depurate a sola funzione amministrativa, gestionale e giurisprudenziale.
Osservando il quadro attuale lo sconforto prende il sopravvento: mancano istituzioni capaci di assolvere una funzione mitopoietica. Nessuna spinta alla mobilitazione. La grandezza di un popolo è sempre determinata dalla misura delle sue passioni, più che dall’oculatezza nella gestione dei propri interessi, mansione in cui si esaurisce la funzione degli ordinamenti europei e sempre più spesso dei governi nazionali, ridotti a liste di scritture contabili.
Mark Fisher parla di questa condizione definendola “realismo capitalista”, un sistema paradigmatico di saturazione dell’immaginazione che ha imposto con successo una specie di “ontologia imprenditoriale” per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come azienda.
La Storia bussa alle porte del Vecchio Continente e qualcuno si ostina a frenarla con il rischio di perdere il controllo della realtà. Se prendiamo spunto da Guy Debord l’élite ha perso il senso del tempo, come scrisse negli anni sessanta: “la storia che si aggira per la società moderna come uno spettro, che si trova nella pseudo storia a tutti i livelli di consenso della vita”. Frase sibillina ma non troppo per chi sa intendere.
Chi afferma che non ci sono alternative, impone una mentalità che prepara il terreno per la rassegnazione verso l’impossibilità di cambiare, di invertire il senso e la rotta.
Le grandi potenze concorrono inseguendo il proprio destino manifesto, un’idea di mondo incarnata che non smettono di comunicare a sé e agli altri, mobilitando le proprie energie. Gli Europei vivono in una condizione di senescenza e di “spossatezza” immaginativa, poco disposti ai sacrifici per grandi obiettivi. Gli Europei non vogliono occuparsi del costo della potenza che implica l’intervento costante negli scenari di crisi, la partecipazione attiva nei maggiori conflitti internazionali e un ruolo più attivo nelle risoluzioni diplomatiche.
Meglio delegare agli americani e poi mugugnare se questi ultimi, non hanno più intenzione di fare sempre il lavoro sporco per noi. Sigmund Freud ci ha insegnato che il rimosso non torna mai nella forma originaria. Eppure nuove energie puntano ad emergere, un magma incandescente pronto ad emergere in superficie.
Lentamente la vecchia Europa economicista, post-storica e geopoliticamente inerte si sta dissolvendo ma la nuova stenta a nascere. La transizione tra questi due momenti sarà lunga, dolorosa e non permette di indovinarne i contorni. Quando vedrà la luce, avrà fatto i conti con sé stessa anche se l’esito non è scontato. È arrivato il tempo di liberarsi dai vincoli psicologici e varcare la linea d’ombra della maturità geopolitica.