La Storia ha fatto un balzo improvviso. Chi sperava di ridurre cittadini e popoli e patrie a semplici consumatori e mercati da raffigurare con qualche complicata funzione algebrica, deve ricredersi e assistere al riemerge di una ribellione ancora confusa e inconscia.
Nel libro “Massa e Potere” quella che Elias Canetti ha definito massa di rovesciamento, ha trovato nei leader populisti un interlocutore diretto. L’autore la descrive riferendosi all’episodio della presa della Bastiglia (14 luglio 1789). Il populismo mette in discussione il dogma delle classi dirigenti che hanno fin qui retto le democrazie liberali, attacca simbolicamente una Bastiglia dove erano imprigionate quelle idee considerate inservibili e fuori moda per l’establishment. Non si può collocarlo in una zona precisa, può stare a destra come a sinistra.
L’effetto è quello di un duello tra la realtà, armata di parole semplici e la sociologia politica da bodoir accademico, abituata a interpretare secondo schemi ben definiti e adesso in stato confusionale perché tutto si è maledettamente complicato.
“Populista” è diventato un insulto alla moda, la pistola fumante delle presunte classi colte quando tentano di liquidare un fenomeno non previsto nel copione. Il populismo per loro è “osceno”, nel senso che sta fuori dalla “scena”.
Disprezzano tutto ciò che ha radice popolare perché avvertono un afrore irrazionale, insopportabile, nascondendo con fatica il disprezzo dietro un linguaggio raffinato e biasimante. Il populismo non è privo di difetti, spesso ricerca troppo la semplificazione, è sfuggente, inafferrabile perché mutevole. Le sue mimetizzazioni spostano e superano una realtà prescritta, confonde gli avversari costretti nel recinto di un pensiero binario dove il bene sta da una parte e il male tutto dall’altra parte.
La crisi non è quella del populismo, ma l’aridità delle élite che pensano di sapere tutto e davanti a un nuovo scenario inedito sono incapaci di pensare a una soluzione originale. Nel Seicento il polemista inglese William Hazlitt, la chiamava l’ignoranza delle persone colte:
“Il dotto non è che uno schiavo letterario. Se lo mettete a scrivere una composizione propria gli gira la testa e non sa più dov’è. Gli infaticabili lettori di libri sono come gli eterni copisti di quadri che, quando provano a dipingere qualcosa di originale, trovano che manca loro l’occhio veloce, la mano sicura e i colori brillanti, e perciò non riescono a riprodurre le forme viventi della natura”.
A queste note dobbiamo aggiungere due pilastri putrescenti dell’ideologia contemporanea: la venerazione fanatica della tecnologia e la trasformazione dell’economia da scienza sociale in dogma religioso. L’idea della politica fatta da raffinati intellettuali e inapprensibili competenti è un’illusione pericolosa. Vilfredo Pareto, un secolo fa, notava come la tecnica elimina forse il problema della competenza ma non quello della decisione a carattere generale, della rappresentanza degli interessi. Al Politico spetta la risoluzione strategica, il tecnico non può debordare e perdere la propria neutralità.
La Politica resta un dominio composto di pensiero, azione, immediatezza, un po’ di improvvisazione (senza esagerare) e la necessaria “Fortuna” descritta da Machiavelli. La sciocchezza degli avversari del populismo sta nell’affrontare la sfida senza cercare una risposta politica che metta in discussione se stessi. Il tratto della supponenza si riscontra nell’atteggiamento di chi oggi considera una mandria di rozzi manipolati gli stessi cittadini che qualche anno fa ti hanno dato il consenso elettorale. Mugugnare con il tono di Maria Antonietta: “Che mangino brioches!”, non aiuta e sapete tutti com’è andata a finire.