I media tradizionali descrivono Bannon come un personaggio di dubbie qualità intellettuali, un manipolatore in camicia da ranch. È una sceneggiatura già letta: se sono democratici sono tutti eleganti e raffinati, se sono repubblicani non sono buoni. Nei salotti editoriali si commette sempre il solito errore: sminuire l’avversario che non si riesce a inquadrare in categorie predefinite. In Europa da qualche anno si sta ridisegnando la mappa, popolari e socialdemocratici sono spintonati dalle forze politiche identitarie all’assalto del fortilizio di Bruxelles. Steve Bannon pensa che il vecchio continente sia sulla via di quello che lui chiama “tectonic shift”, uno smottamento del territorio politico.
Bannon è un uomo colto, un attento osservatore della storia, la sua biografia poliedrica dovrebbe suggerire prudenza del giudicarlo e innescare curiosità: percorso accademico solido (Virginia tech, Georgetown University, Havard Business School) autore e produttore cinematografico, operatore finanziario, militare (sette anni da ufficiale di marina), animatore di iniziative editoriali (Breitbart), stratega della comunicazione e soprattutto, un lettore forte.
Nella sua biblioteca c’è un libro scritto negli anni Novanta da due storici, William Strauss e Neil Howe, intitolato “The Fourth Turning”. Secondo i due studiosi, la storia americana si sviluppa in cicli di 80-100 anni, scanditi da periodi di crisi e rinascita. L’idea risale ai tempi dell’antica Grecia quando si pensava che alla fine di ogni secolo ci sarebbe stato un ekpyrosis, un evento catastrofico in grado di distruggere il vecchio ordine e mettere le fondamenta di uno nuovo. Il periodo di transizione è il Fourth Turning.
Si possono opporre validi ragionamenti alle dichiarazioni di Bannon, ma ci sono dei fatti incontrovertibili che non hanno ancora trovato una risposta. Quali? Gli eccessi del capitale finanziario, l’impoverimento delle nuove generazioni e dei ceti medi, lo strapotere delle corporation della Silicon Valley, le rivendicazioni scadenti delle minoranze organizzate, mascherate nel lessico dei “nuovi diritti”. Tutto ciò provoca una reazione composta di idee e pulsioni.
Su queste incertezze Bannon ipotizza una riduzione del potere tecnocratico, il richiamo alle forze popolari e l’auspicio che si formi una nuova élite dal basso. Non è un messaggio innovativo, ma è di stretta attualità.
Bannon propone un immaginario, piaccia o meno, al quale il sistema dei partiti tradizionali risponde con la riproposizione dello status quo con un’altra fisionomia, senza dare una risposta adeguata all’inquietudine che attraversa tutto l’Occidente. L’idea di creare una rete transnazionale di movimenti sovranisti è affascinante, ma non è sufficiente attivare energie emotive, si deve fare di più, formare l’élite, evitare di incagliarsi in dispute provinciali e comprendere che tra Europa e Stati Uniti non c’è sempre una comunanza di interessi.