Nello scritto “Il concetto del politico” (1932) il giurista Carl Schmitt annotava: “il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove invece entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quella cioè di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. La sfiducia critica nei confronti dello Stato e della politica si spiega facilmente in base a principi di un sistema per il quale il singolo deve rimanere il terminus a quo e terminus ad quem”.
Nel mondo liberale, c’è una propensione ad addomesticare la lotta politica trasformandola in concorrenza economica-commerciale, riducendo i conflitti a semplici dibattiti dove trionfa l’opinione elementare e molto spesso la noia soporifera. Il risultato di tutto questo è di far perdere le tracce di ogni “autonomia” del politico, privilegiando, invece, tutto il disordine di passioni e di aneliti puramente egoistici.
Ma se l’effetto inaspettato di questa concezione non sia proprio la ripresa del Politico sotto altre forme?
Michel Maffesoli nel 1988 in un celebre saggio, parlava del tempo delle tribù e della fine di quella modernità caratterizzata da tre aggettivi: individualista, razionalista e progressista.
Questa tribalizzazione non è una moda effimera venduta da qualche multinazionale dell’intrattenimento. Essa indica in realtà il “ritorno alla normalità”: le ideologie moderne, credevano di poter ridurre la persona ad un individuo calcolatore, il legame sociale a contratto razionale e la storia a progresso in marcia verso destino prestabilito. A smentirle sono i fatti. Certo, la superficie mediale dei discorsi resta più o meno la stessa: ufficialmente tutto sembra andare per il meglio nel migliore dei mondi possibili a parte qualche intoppo. Tuttavia, lo spessore degli avvenimenti, la somma delle evidenze e degli indizi che compongono la trama della nostra vita quotidiana, contraddice questa narrazione. “Certo”, nota Maffesoli, “si può starsene silenziosi su quel che disturba e non si capisce. Taluni lo fanno con successo, e spesso accademici, giornalisti e uomini politici preferiscono discutere e chiacchierare su argomenti scontati con idee totalmente preconcette”. Siamo entrati in una fase di neo-tribalismo, dove il recupero della cultura identitaria, il dominio di una neo lingua veloce e tagliente, ha diviso i gruppi, creato nuove aggregazioni e messo in crisi la democrazia liberale. Il futuro potrebbe prendere la forma di poteri decentralizzati non necessariamente sotto il controllo dello Stato.
Moises Naim, nel saggio “La fine del potere” (2013), aveva compreso la crisi dei macro-poteri (statali e transnazionali) a favore dei micro-poteri. Comunità politiche, ribelli, hacker, gruppi che si agitano nell’agorà digitale, nuovi media, personaggi carismatici, sembrano spuntati dal nulla e scuotono il vecchio ordine.
Naìm parla di micropoteri: figure minori, sconosciute, un tempo trascurabili, che hanno modo di indebolire, contrastare, bloccare i grandi e tradizionali protagonisti del potere mondiale, le mega organizzazioni burocratiche che hanno retto il mondo nell’ultimo secolo. Nel 1992 Neal Stephenson pubblicava “Snow Crash” che diventerà un classico della letteratura distopica: la storia racconta di un onnipresente Metaverso virtuale in cui gli individui potevano usare gli avatar e cambiare identità a piacimento. Nel romanzo gli Stati Uniti sono ridotti a un agglomerato di “Burbclaves”, suddivisioni suburbane abitate da persone che condividono le stesse idee.
Vi sembrano scenari improbabili? Presto o tardi ci sarà una collisione. Confini, fortezze, zone esclusive fisiche e virtuali, comunità che rivendicano spazi e si organizzano al di fuori del recinto istituzionale sono già reali.