Esistono libri che sono l’autobiografia di un secolo. Qualche esempio: Ulisse di Joyce, Nelle tempeste d’acciaio di Junger o Sulla strada di Kerouac, hanno descritto momenti della storia e dello spirito dell’Occidente contraddistinto da quella tensione vitale che scuote l’immobilità di un’esistenza troppo ferma. Libri come questi resistono nel tempo a differenza di quelli senza sostanza e carattere che si ammassano nelle librerie. Sono consultati come oracoli, non da tutti, ma da uomini e donne che riescono a svelare il mistero che trasforma i suoi autori in complici e ti fa esclamare, “è uno di noi”. Un codice fatto di segni, gesti e parole.
Nel 1974 usciva negli Stati Uniti un libro che diventerà un culto, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, scritto da Robert M. Pirsig. In Italia sarà tradotto da Adelphi nel 1981. Un successo strepitoso, oltre tre milioni di copie vendute dopo avere collezionato un numero impressionante di rifiuti editoriali, ben 191. Un record anche questo.
Quello di Pirsig è un discorso filosofico inserito nella trama di un romanzo. La storia racconta il viaggio in motocicletta dal Minnesota verso Ovest di un padre, Fedro, (chiaro riferimento a Platone) in compagnia del figlio undicenne, Chris.
“Abbiamo più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito”.
Un’avventura attraverso l’America sulla sella di una moto, ma anche la descrizione di una visione del mondo alla ricerca delle migliori qualità individuali, senza la pretesa di imbastire grandi progetti utopistici o programmi di correzione sociale. Una riflessione tra spiritualità e tecnica, esoterismo, cultura di massa e tradizioni. In questa prospettiva, Pirsig non rifiuta la modernità, ma assume un atteggiamento assertivo, sarcastico verso chi intimorito dalle forze esplosive della tecnica, immagina alternative di vita neo bucoliche, ma poi non riesce a rinunciare a certe “comodità”.
“Penso – si legge nelle prime pagine – che la fuga dalla tecnologia e l’odio nei suoi confronti portino alla sconfitta. Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”.
Questo libro apparve in un periodo storico di ubriacature ideologiche e per molti servì a smaltire la sbornia delle feroci contrapposizioni. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta registrava uno stato d’animo diffuso: basta con le velleità di cambiare il mondo, è arrivato il momento di riscoprire il gusto di occuparsi di sé stessi, della propria vita, di recuperare quelle qualità individuali disperse nel disordine delle passioni di massa.
È stato un ripiegamento rispetto alle grandi ambizioni di cambiamento della società? Forse sì, ma da un’altra prospettiva, Pirsig indicava strada diversa: “Non voglio più entusiasmarmi per grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale (…)”
Con la sua moto, egli presenta una nuova etica cavalleresca. In fondo chi sono i motociclisti? Nuovi cavalieri con araldi e vessilli: giubbotti, guanti, stivali, caschi, toppe, adesivi e l’asfalto come spazio libero di manovra e contesa. Istinto e ragione.