La netta vittoria di Donald Trump ha evidenziato una nuova tendenza di politica estera basata su un approccio, l’unilateralismo, e un metodo, la transazione. Sarà su queste basi che Washington agirà in campo internazionale. Sapevamo da più di un anno cosa sarebbe accaduto e nei circoli di potere europei dovranno confrontarsi con gli effetti potenziali delle politiche annunciate dalla futura amministrazione a partire dal 2025. Per questo motivo è molto importante stabilire a cosa potrebbe somigliare uno scenario apparentemente sfavorevole per gli europei e proviamo a tracciarne i contorni e descrivere le risposte necessarie affinché l’Europa recuperi quella maturità geopolitica smarrita da tempo.

Il tempo stringe

La prima urgenza, la questione del sostegno all’Ucraina e della gestione politica del conflitto, si porrà in modo acuto. Occorre prepararsi all’ipotesi di una sconfitta di Kiev dalle dimensioni e proporzioni tutte da scoprire. Infatti, sebbene il fronte non sia crollato, la dinamica delle operazioni sul campo di battaglia, sono favorevoli alla Russia. Mosca trovandosi tutto sommato in una posizione di vantaggio non ha alcuna intenzione di adottare una posizione troppo conciliante, nonostante il conflitto abbia dei costi enormi sul piano economico e militare.

Trump e i suoi sostenitori hanno chiaramente annunciato di volere un piano di pace al più presto possibile. I contorni sono ancora incerti. C’è da aspettarsi, nell’ipotesi di una vittoria russa sul campo, richieste che comprenderanno probabilmente la secessione dei territori ucraini occupati o uno status di forte autonomia, la neutralità piena dell’Ucraina, le dimissioni del governo Zelensky e l’ufficializzazione di sfere d’influenza russe, con un controllo serrato su Georgia, Bielorussia e Moldavia.

In altre parole, a breve termine occorre prepararsi alla possibilità di dislocare truppe europee sulla linea di confine russo-ucraina proprio per garantire la stabilità degli accordi di pace. Senza contare le critiche alle principali nazioni europee, Germania, Francia e Italia soprattutto, che non hanno fatto abbastanza per agire politicamente sul conflitto, per attivare le necessarie forze di dissuasione e che dopo un timido tentativo di agire in autonomia, si sono piegate alle indicazioni americane. È passato troppo tempo ma non è ancora troppo tardi per provare a rimediare, ma servirebbe un cambio di mentalità e un pensiero strategico che definisca una volta per tutte l’interesse europeo.

Gli Stati Uniti allentano la presa?

Accanto a questo scenario non è da escludere un lento sganciamento delle truppe americane in Europa, con le inevitabili conseguenze di un netto deterioramento della sicurezza militare.  Nel 2019, l’International Institute for Strategic Studies stimava che, a seconda della dimensione di un ritiro americano, gli europei dovrebbero collettivamente investire tra i 288 e i 350 miliardi di dollari all’anno nella loro difesa, semplicemente per mantenere il livello delle capacità attuali garantito dalla presenza americana. Anche se antecedenti l’invasione su larga scala del 2022, queste cifre offrono un’idea dell’enorme contributo statunitense alla sicurezza europea e degli investimenti necessari per non migliorare, ma almeno conservare le capacità esistenti. Anche gli investimenti reali nella difesa che si sono susseguiti dal 2022 in poi sono ancora ben lontani dall’essere sufficienti. Di fatto, al di là delle carenze che non tarderanno ad emergere, la riduzione delle truppe americane sarà un segnale molto chiaro di un minore impegno in Europa, anche perché la competizione decisiva per Washington si trova nell’area dell’Indo Pacifico contro la Cina. A questo punto quale sarà la fisionomia della Nato? C’è chi scommette in un conflitto e un confronto più aspro con la Russia, ma francamente non crediamo alla volontà di Mosca di forzare troppo con uno scontro aperto. La guerra con l’Ucraina ha riattivato la Nato, oggetto di critiche anche presso le cancellerie europee (vedasi Francia) e forse realisticamente sono gli europei a dovere rivendicare più potere e più responsabilità, mettendo più soldi.

Il campo economico

L’Europa deve prendere sul serio i numerosi annunci di Donald Trump e di altri rappresentanti politici repubblicani, riguardo all’imposizione di dazi generali del 10% al 20% su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti e del 60% sui prodotti provenienti dalla Cina. Bisogna quindi prepararsi a una guerra commerciale, la cui portata precisa resta da determinare, ma che avrà un impatto significativo sul commercio estero, dato l’alto grado di esposizione dell’Unione e l’importanza del mercato americano per la sua economia.

In altre parole, i paesi europei dovranno prepararsi ad una trasformazione simultanea delle fonti della loro prosperità e sicurezza. Un cambiamento così forte non si ricorda dai tempi della fine della Guerra Fredda. Scenario eventuale che non deve indurre al pessimismo, ma deve essere uno stimolo per la preparazione alla sfida. Solo che prima di tutto serve un nuovo pensiero europeo identitario e strategico.

In effetti, invece di ammortizzare i costi della guerra commerciale imminente rafforzando il mercato comune e investendo nella trasformazione dei settori produttivi europei, è altamente probabile che gli Stati europei cercheranno di salvare un modello industriale ammaccato, deviando i loro flussi commerciali verso la Cina. Dal 2018, l’Unione si è gradualmente avvicinata agli Stati Uniti nel contesto di un “grande compromesso”: la relazione transatlantica è mantenuta in cambio di un sostegno degli Stati europei nell’area indo-pacifica. Questo spiega certamente la posizione sempre più netta della Commissione europea nei confronti della Cina.

Tuttavia, questa posizione non riscuote un consenso così ampio tra gli stati membri come certificato da una recente votazione sull’imposizione di dazi ai veicoli elettrici prodotti in Cina: stati come la Francia, l’Italia, la Polonia e i Paesi Baltici hanno votato a favore, la Germania e l’Ungheria hanno votato contro e dodici nazioni si sono astenute. In altre parole, diversi Stati, ed in particolare la Germania, non sono convinti dal programma di “riduzione dei rischi” (de-risking) verso la Cina, poiché considerano il commercio con Pechino come un elemento importante della propria strategia per uscire dalla stagnazione economica. Mentre gli Stati e gli ambienti economici europei temono l’eventuale imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti, gli sguardi sono già rivolti verso la Cina. In linea con il suo programma critico verso certe derive occidentali, Viktor Orbán ha già autorizzato Pechino a gestire un campus universitario a Budapest e ha invitato la polizia cinese a effettuare pattugliamenti congiunti in Ungheria. Tuttavia si tratta di una decisione con rischi evidenti di spionaggio e sicurezza. L’industria tedesca, da parte sua, ha aumentato i suoi investimenti in Cina negli ultimi anni, con record raggiunti nel 2024, nonostante la posizione ufficiale del governo sul “de-risking”. Giorgia Meloni, pur ritirando l’Italia dall’iniziativa cinese della Nuova Via della Seta, è andata in Cina nel luglio 2024 per “rilanciare” la relazioni bilaterali.

Proprio come gli Stati europei rischiano di precipitarsi disordinatamente alla Casa Bianca per cercare di ottenere garanzie sulla sicurezza, è anche probabile che si affretteranno a Pechino per negoziare accordi commerciali al fine di cercare di salvare ciò che resta del loro commercio estero. Certo, si tratterebbe di una soluzione a breve termine necessaria per attenuare i costi economici delle politiche americane, ma creerebbe problemi di dipendenza a lungo termine. Tuttavia, le élites europee sarebbero disposte a correre questi rischi se prese nella tenaglia tra una pressione economica americana e una dipendenza a lungo termine da uno Stato-civiltà delle dimensioni della Cina. Ma nel lungo periodo serve altro, un piano più ambizioso, la definizione di una Europa come potenza. Chi sarà in grado di raccogliere questa sfida grandiosa?