“La parola Dada fu casualmente scoperta da Ball e da me in un vocabolario tedesco-francese, mentre stavamo cercando un nome d’arte per Madame Le Roy, cantante del nostro cabaret. Dada è una parola francese che significa cavallo a dondolo”. Così Richard Huelsenberg, uno dei fondatori del dadaismo, ricorda come la scelta del nome sia derivata da un atto casuale e privo di intenzione logica.
Un altro interprete della scena, Hans Arp, racconta un’altra storia più bizzarra: “Tristan Tzara ha trovato la parola dada al Café de la Terrasse di Zurigo mentre mi portavo una brioche alla narice sinistra. Ero presente coi miei dodici figli quando l’ha pronunciata per la prima volta, destando in tutti noi un entusiasmo legittimo. Sono convinto che questa parola non ha alcuna importanza e non ci sono che gli imbecilli o i professori che possono interessarsi ai dati”.
Non ci interessa la versione dei fatti sull’origine di quella parola dal suono infantile, quel che è sicuro, nella sonnacchiosa Zurigo del 1916, un gruppo di intellettuali di orientamenti diversi, si rifugiarono in territorio neutrale per sfuggire al fuoco e al fango delle trincee della guerra per creare un movimento artistico urtante e irragionevole.

Hugo Ball e la sua compagna Emmy Hennings vi sono giunti nel 1915, raggiunti di lì a poco da Huelsenbeck, Marcel Janco, Hans Arp, Tristan Tzara e molti altri. La loro formazione è letteraria, artistica e musicale. L’idea di fondo è di realizzare una forma d’arte totalmente priva di logica e di destino. Se la cultura ufficiale (borghese), così piena di buon senso, può generare guerre e distruzioni, solo un’arte che si fa beffe del senso e di ogni bon ton può essere la risposta. Spiegherà Arp: “Cercavamo un’arte elementare che curasse gli uomini dalla follia dell’epoca, un ordine nuovo che ribaltasse l’equilibrio tra il cielo e l’inferno”.
La scelta è di riprendere lo stile più provocatorio delle manifestazioni futuriste che, fra letteratura, teatro, arti visive, avanspettacolo, sbeffeggiavano la cultura ufficiale e accademica. Nei primi giorni di febbraio del 1916, prese forma il Cabaret Voltaire, in cui Ball, Janco, Taeuber, Wigman, Arp e Richter, mettevano in scena sketsches insensati, recite di improvvisate poesie onomatopeiche, danze anomale ed esecuzioni musicali paradossali. L’effetto sul pubblico era forte-mente provocatorio: il rifiuto di ogni estetica e di ogni tecnica è proclamato come unica possibilità di espressione artistica.
Tristan Tzara, pseudonimo di Samuel Rosenstock, poeta e saggista rumeno che viveva in Francia, fu tra i maggiori animatori del movimento dadaista. Nel 1918, ridicolizzava la seriosità militante e il gusto per i proclami definitivi dell’ambiente artistico, con un Manifesto Dada che recitava:

“Per lanciare un manifesto bisogna volere: A,B,C, scagliare invettive contro 1,2,3, eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffonder grandi e piccole a,b,c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non plus ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio.
Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi (misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro, sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buon senso. DADA non significa nulla”.

Dada si scaglia contro il razionalismo dell’arte, rifiuta i concetti definiti ai quali contrapporre una libertà irrazionale, l’ironia e il gusto per il gesto irridente. Gli oggetti utilizzati al di fuori della loro funzione specifica, sono parte di questa nuova impostazione, così come le tecniche di foto-montaggio. Tre opere di Marcel Duchamp illustrano visivamente questa nuova mentalità: la ruota di bicicletta sullo sgabello, i baffi disegnati alla Gioconda e il culmine, l’orinatoio firmato R.Mutt.

 

Dada politico
Dal punto di vista geografico il dadaismo è stato policentrico. A Parigi Tristan Tzara eliminò progressivamente l’elemento politico per competere con altri movimenti artistici, mentre Hausmann, Grosz, Baader e altri, formeranno un Club Dada a Berlino dai forti connotati politici con punte di utopismo estremo. Nel manifesto Cos’è e cosa vuole il dadaismo in Germania?, Richard Huelsenbeck chiedeva “l’introduzione della disoccupazione progressiva attraverso la completa meccanizzazione di ogni occupazione e l’istituzione di “una consulta dadaista per cambiare la vita nelle città con più di cinquantamila abitanti”.
Nel suo saggio En avant Dada: una storia del dadaismo (1920) spiegò ulteriormente il rapporto tra l’arte e il suo utopismo scrivendo che “il borghese deve essere privato della possibilità di accaparrarsi l’arte per la propria giustificazione”. Dada è un perpetuo pathos rivoluzionario scagliato contro le convenzioni e il gruppo di Berlino rifiutava i concetti di arte e lavoro (temi ripresi poi dai Situazionisti).
Nel settembre 1919, gli artisti del Dada berlinese, notoriamente impegnati a sinistra, dopo aver saputo che il giorno 12 Gabriele D’Annunzio, partito da Ronchi con un gruppo di militari diser-tori, aveva occupato la città istriana di Fiume per restituirla all’Italia, inviarono al Corriere della Sera il seguente telegramma:

Ill.mo Signore Gabriele D’Annunzio. Corriere della Sera, Milano.
Se gli alleati protestano preghiamo telefonare Club Dada di Berlino. Conquista grandiosa impresa dadaista per il cui riconoscimento interverremo con tutti i mezzi. L’atlante mondiale dadaistico DADAKO (editore Kurt Wolff, Leipzig) riconosce Fiume già come città italiana.

Club Dada
Huelsenbeck, Baader, Grosz.

 

Julius Evola e il dadaismo italiano

La curiosità di Julius Evola verso Dada, comincia nel 1919, dopo l’esperienza poco edificante della guerra e in un momento in cui si dedicava alla pittura nel tentativo di fendere l’oscurità opprimente del materialismo. La conoscenza del movimento dadaista avviene probabilmente attraverso il “sentito dire” degli amici come Enrico Prampolini.
Tramite la collaborazione alla rivista romana Noi, Evola entra in contatto epistolare con Tristan Tzara con una missiva scritta il 7 ottobre. La lettura del Manifeste Dada 1918 farà scattare l’adesione entusiastica al movimento. Evola nei suoi scritti giovanili pone l’accento su una dimensione spirituale dell’arte, in un certo senso magica, che porta l’uomo e il suo Io ad innalzarsi di livello. E questo anelare verso l’assoluto, rintracciabile negli scritti di Tzara, accompagnato dal necessario lavoro di distruzione, che spinge il giovane aristocratico romano verso il dadaismo. Tendenza che si manifesta nell’astrattismo pittorico e in parte nell’uso della parola. La connessione tra astrattismo e dadaismo si rintraccia nella piccola pubblicazione del 1920, intitolata Arte Astratta, dove l’autore sintetizza con la parola e il disegno, la propria concezione dell’arte e della vita. È sorprendente come in poche pagine si possa già reperire tutto quello che sarà il suo percorso politico-filosofico dei successivi decenni. In un certo qual modo il dadaismo recuperava una dimensione del mondo più pura, rispetto agli stravolgimenti apportati dall’organizzazione sociale. “Dada– affermava Tzara – aspirava ad una verità indiscutibile, quel-la dell’uomo che si esprime senza le formule oppresse o imposte dalla comunità, dalla logica, dal linguaggio, dall’arte e dalla scienza”.

Evola apprezzava il forte individualismo del dadaismo e la tendenza alla purità, che una volta raggiunta, sarà la propria fine. Nel 1923 in un articolo pubblicato sulla rivista Impero, specificherà: “Il dadaismo attua l’esasperazione, il potenziamento massimo del principio individuale e la negazione, la contraddizione nel dadaismo non sono altro che il fenomeno dell’assoluta autarchia dell’Io che è giunto al fine (…), alla persuasione che egli è in sé stesso il libero creatore ed il signore assoluto, di tutte quelle forme da cui egli, svegliandosi a sé, vive la sua esperienza”. Una concezione magica che si ritrova nel poemetto, da lui scritto in lingua francese, intitolato La parole obscure du paysage intérieur. Lì sono contenute quattro voci, simboleggianti i quattro elementari della vita interiore: Mr Ngara, la volontà, M.lle Lilan, il sentimento, Mr. Raaga, la contemplazione descrittiva e Mr Hhah, l’astrazione disinteressata.

Evola è un protagonista della breve stagione del dadaismo italiano e forse per alcuni aspetti l’unico, perché grazie alla sua attività che Dada riesce a riunirsi e a organizzarsi in Italia. Su indicazione di Tzara, verso la fine del 1920 entra in contatto con Cantarelli, Fiozzi e Bacchi che a Mantova avevano fondato Bleu, una rivista dichiaratamente dadaista. L’impronta evoliana caratterizza il terzo e ultimo numero della rivista uscito nel 1921. La prima pagina è occupata proprio dal suo scritto Note per gli amici, che si apre proclamando “Per noi l’arte è un’altra cosa”. La presenza di illustrazioni e scritti dei migliori artisti dadaisti (Picabia, Tzara, Ribemont-Dessaignes, Ernst e altri), fu il risultato di questo enorme lavoro.
Sempre nel 1921, venne annunciata sulla rivista, l’organizzazione a Roma di un “Jazz-band Dada ball” e una serie di eventi successivi. Evola avrebbe voluto la presenza di Arp, ma riuscì solo a rimediare la presenza di Christian Schad il quale però, si ritirerà all’ultimo momento. Nel mese di aprile sarà organizzata una mostra presso la Galleria Bragaglia, con la presenza di Fiozzi e Cantarelli. Tuttavia Evola, si troverà in difficoltà e isolato nel contesto romano dopo l’esposizione alla Casa d’Arte Bragaglia. Passano i mesi e la crisi del dadaismo coincide con quella del suo animatore italiano. Tra scontri insanabili con i suoi amici e una forte crisi interiore, decide nel 1922 di smettere di intervenire nell’ambiente artistico e non dedicarsi più alla pittura.