La politica russa nei confronti del Medio Oriente, è stata condotta, per lungo tempo, non tanto per ciò che poteva produrre ma per ciò che poteva togliere all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti a partire dagli anni quaranta.
Il Medio Oriente che noi conosciamo è nella struttura geografica un prodotto “artificiale” occidentale, perché è il risultato di una serie di interventi diplomatici, economici e militari che vanno dall’accordo Sykes-Picot del 1916 all’invasione dell’Iraq nel 2003. Tutti progetti decisi, attuati e gestiti dalle potenze occidentali a partire dalla prima guerra mondiale, a seguito del crollo dell’Impero Ottomano. La Russia nei secoli XVII e XVIII, ha sempre lottato per avere una via d’accesso al Mediterraneo. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sono riusciti nella prima metà del novecento, a tenere lontana la Russia con una politica di contenimento. La breve premessa storica serve a dimostrare come, a nostro avviso, solo con la presidenza di Putin, la Russia abbia sviluppato una politica per il Medio Oriente più definita. Il motivo è presto detto: Putin è cresciuto e si è fatto strada come leader politico negli anni novanta, un decennio tremendo per il suo paese quando il Cremlino perdeva posizioni nel mondo e subiva umiliazioni. Diventato presidente nel 2000, dovette affrontare un rompicapo politico: come recuperare posizioni per una nazione all’epoca indebolita finanziariamente e accerchiata.
La Russia ha una strategia definita e in questi anni ha ricostruito una rete stabile di relazioni mediorientali, tale da costringere la Casa Bianca a fare qualche compromesso in un’area storicamente a predominio americano. Quello che vuole Putin è chiaro da molti anni, una prima risposta l’ha fornita ancora prima che gli fosse richiesta nel 1991, appena tornato dall’incarico nella Germania est per conto del Kgb, in una tesi di dottorato intitolata: “Il ruolo delle risorse naturali nella strategia di sviluppo economico della Russia”. Nel 1999, poco prima di diventare primo ministro e ancora in carica come direttore dei servizi segreti, aveva ricavato da quel lavoro, un lungo articolo, pubblicato nelle Note dell’Istituto di Mineralogia, in cui spiegava come l’attività degli imprenditori privati nel settore dell’energia doveva svolgersi, nel quadro strategico degli interessi dello Stato che si riservava il diritto di intervenire quando quell’interesse fosse minacciato.
Putin è passato in pochi anni dalla teoria alla pratica, muovendosi esattamente nella direzione indicata nei primi anni novanta. Il settore energetico è stato sviluppato e messo sotto stretto controllo dell’autorità pubblica, facendo dello stato il primo azionista di tutte le principali compagnie di estrazione, trasporto e commercializzazione di gas e petrolio. L’unica politica estera possibile per la Russia è quella di proteggere a ogni costo la propria influenza sul mercato internazionale dell’energia e il maggior grado possibile di controllo sulle vie di transito di gasdotti e oleodotti. Strategia peraltro perfettamente speculare a quella americana per questo destinata a collidere. Ora non si comprende perché se sono gli americani a difendere il proprio interesse va tutto bene, se lo fanno i russi, allora c’è da preoccuparsi. Fino a prova contraria, sono gli Stati Uniti a sganciare le bombe e a scatenare conflitti con una certa facilità per difendere le vie del petrolio e del gas. I russi nell’ultimo decennio hanno utilizzato altri strumenti di persuasione e hanno condotto in molti casi un gioco più pulito. Tutto è lecito nella difesa dell’interesse nazionale, ma almeno risparmiateci il “suprematismo moralistico”. Così, se dall’inizio degli anni Duemila la strategia degli Usa è basata sul mutamento del contesto politico dei paesi e degli assetti in contrasto con gli interessi americani, quella russa è soprattutto una strategia di consolidamento e conservazione.
Putin ha evitato il confronto su terreni più propizi agli americani, come lo scontro militare diretto, non ha ceduto alle provocazioni e per primo ha stretto un rapporto diplomatico vitale con l’Iran, soprattutto per le questioni legate all’energia. Le rispettive riserve di gas (33,6 trilioni per l’Iran e 32,9 per la Russia), ovvero le più vaste del mondo, se ben gestite in comune hanno potere di condizionamento dei mercati senza pari. La crisi non risolta in Ucraina, le sanzioni e altri contrasti spingono il Cremlino a non disperdere questo capitale.
Putin è stato abile nel capire che il rapporto con l’Iran offriva un’occasione per ingessare il dinamismo americano. Inoltre quest’alleanza è servita a trovare un altro elemento di dialogo con la Cina. Il legame con gli iraniani ha consentito a Mosca di farsi protettrice della Siria, altra nazione finita nella stupida lista di proscrizione degli “stati canaglia”.
La Siria nell’estate del 2000, l’anno in cui russi e iraniani riprendevano contatti, affrontava una delicata transizione con il passaggio di poteri da Hafiz al-Asad a suo figlio Bashar, entrambi esponenti del mondo islamico alauita, in grado di plasmare un paese laico, dove convivono diverse confessioni religiose. Caso raro, in un Medio Oriente, dove un subdolo fanatismo assume tratti e forme differenti a Riad, a Doha o a Tel Aviv.
Mosca difende la Siria senza mezzi termini e il suo governo legittimo, senza optare per pericolosi cambi di potere. Perché? É evidente come non è stata la convenienza economica diretta a spingere verso la difesa a oltranza ed evitare, con una complessa partita diplomatica, il bombardamento della Siria da parte di americani e inglesi, nell’estate 2013.
L’interscambio commerciale tra Siria e Russia è di appena 2 miliardi di dollari e non basterebbe a spiegare così tanto impegno. Altrettanto vale per le forniture militari verso Damasco che valgono meno del 5% del totale e per di più sono in perdita, perché i siriani hanno un debito di 3,6 miliardi di dollari e Mosca non si aspetta che saldino le fatture, in momento così difficile con un paese a pezzi a causa della guerra. Non è un motivo sufficiente neanche il famoso sbocco sul Mediterraneo rappresentato da cinque moli nel porto siriano di Tartous che neanche costituiscono una base, ma solo un punto d’appoggio tecnico per evitare alle navi russe di dover ogni volta riattraversare i Dardanelli per fare il pieno sul Mar Nero.
La Russia protegge la Siria per agganciarsi a quella che gli analisti chiamano la Mezzaluna fertile e irrobustire l’alleanza con il blocco sciita, Siria, Iran e Hezbollah soprattutto, unico elemento politico e geografico che impedisce al mondo sunnita, da sempre legato a Washington, di ottenere il monopolio del Medio Oriente, delle sue ricchezze energetiche e delle vie di terra e di mare per distribuirle. Quando Putin e il suo ministro degli Esteri Lavrov, peraltro in piena sintonia con la Cina, difendono la stabilità dei regimi, hanno in mente quel che è accaduto in passato, nell’Iraq del 2003 con il rovesciamento di Saddam Hussein, nella Libia del 2011 con la caduta di Gheddafi e la brutale repressione in Bahrein da parte dell’esercito saudita di cui nessuno parla.
Situazioni provocate dagli Stati Uniti con la complicità occasionale di qualche altro alleato. La tattica offensiva americana per scombinare le carte in Medio Oriente e ottenere vantaggi, non è mai cambiata e per questo, la Russia ha scelto la strada opposta: ricomporre, stabilizzare, placare e bloccare.
Putin non avverte notevoli affinità con gli ayatollah iraniani o con il baath siriano di Assad, semplicemente il suo è un realismo efficace. Sa che la Russia non ha la potenza militare degli Stati Uniti, tantomeno economica e politica. Si è solo reso conto che in un mondo diventato improvvisamente multipolare e affollato di nazioni che sono o ambiscono a diventare protagonisti regionali, è possibile stringere alleanze nuove per accrescere la propria forza internazionale.