Nel Noveau dictionnaire étymologique et historique, è scritto che la parola “Capitalisme” appare nell’Encyclopedie del 1753 con la seguente definizione: “état de celui qui est riche”.
Sintetica, forse troppo banale rispetto all’articolata disamina di Marx nel Capitale – eppure geniale nella sua semplicità. Il capitalismo è in effetti il tendere allo stato di chi è ricco, c’è dentro vanità e desiderio del superfluo. Funziona quando induce all’invidia, sentimento di rancore che evolve a continuo astio. Per esempio, i ragazzi super ricchi che ostentano lusso e spreco su Instagram, alimentano un odio che non evolve in un conflitto politico, ma in una profonda invidia nei confronti della fortuna altrui.
Il capitalismo è prima di tutto pulsione della vanità che si rende concreta in un sistema economico. Tra il 1847 e il 1848 William Thackeray scrisse un romanzo a puntate dal titolo significativo “Vanity Fair” (La fiera delle vanità). Thackeray, meglio di qualunque analisi socio-politica, descrive la vanità come potenza sociale, capace di sovvertire la percezione di Sé tale da provocare un’insopportabile sensazione di vuoto.

Un’economia che necessita di questo particolare stato d’animo, dove il desiderio e l’accumulo di oggetti materiali, provoca questo svuotamento da riempire continuamente con qualcosa. Proprio in Vanity Fair: “… la superiore condizione sociale delle ragazze che la circondavano facevano sentire a Rebecca i morsi dell’invidia”. Nella commedia umana, tra brame di titoli e denaro, Rebecca (Becky) Sharp si fa più vanitosa: “Che aria si dà costei per essere una nipote di un conte! Come strisciano davanti a quella piccola creola perché ha centomila sterline. Io sono mille volte più intelligente e più graziosa di lei”.
Così il capitale, trasmuta Rebecca in Becky, fino a farle acquisire quel potere capace di provocare l’invidia altrui: “(…) la vista delle stelle e dei grandi cordoni che abbellivano l’umile salotto di Rebecca avrebbe fatto impallidire d’invidia tutta Baker Street”. L’invidia è la materia del romanzo di Thackeray: seduce e innesca la vanità, in un continuo desiderare oggetti e soddisfare il bisogno del riconoscimento.

Riguardo alle politiche economiche odierne, chi cerca una soluzione richiamandosi a Keynes, dimentica il difetto d’origine di quel pensiero: intensificare l’occupazione attraverso la vanità e viceversa, ci riporta a fondare l’economia su consumi di massa e produzione del superfluo. Non sembrano rendersi conto che restiamo imprigionati nel tornado del consumismo, senza prestare troppa attenzione a ciò che si produce e consuma. Si arriva al paradosso, irrisolto da più di due secoli, di un sistema economico che per mantenersi in equilibrio deve promuovere la crescita compulsiva e artificiale dei bisogni e che va in tilt non appena si abbassa la soglia del consumo vanitoso.