La domanda è sempre la stessa: fondare o sfondare una banca? Per John Dillinger era sufficiente entrarvi pistola in pugno e svuotare le casse senza fare troppo baccano. Il più simpatico dei rapinatori dell’America degli anni Trenta aveva uno stile che dispiaceva alle signore. “Mi passeresti i soldi tesoro?”, era il modo educato con cui si rivolgeva, sfoderando un bel sorriso, alle cassiere. Donnaiolo impenitente, alla fine sarebbe stato tradito per le assidue frequentazioni dei bordelli. Figura popolare, come altri gangster cresciuti zappando la terra ci teneva all’eleganza: abiti di sartoria, camicie perfettamente stirate e l’immancabile Borsalino sulla testa. Sui giornali lo paragonavano al personaggio di Tom Sawyer, il ragazzo povero di campagna dei romanzi di Mark Twain o al bandito gentiluomo Jesse James.
Dillinger era un divo, esaltato persino dagli adolescenti, assai distante dal contemporaneo zoticone malvestito alla Gomorra. Famoso il caso del boy scout in visita agli uffici del governatore dell’Indiana che, interrogato dai cronisti su cosa pensasse del fuorilegge, aveva risposto: “Io sto con lui …”, poi di fronte all’imbarazzo generale, tentò di correggersi: “Intendo dire che sto dalla parte degli underdog, di chi è svantaggiato”.
Una rivista specializzata, Detective, condusse un sondaggio tra i gestori delle sale cinematografiche americane su chi fossero i personaggi più popolari tra quelli che passavano sullo schermo nei notiziari proiettati prima dei film. Dillinger era il più applaudito, molto più di Roosevelt e Lindbergh.
Siamo tra il 1933 e il 1934 nei tredici mesi in cui si concentrò l’attenzione sulle sue imprese criminali e l’FBI si affannava in una spasmodica ricerca per acciuffarlo. Ogni settimana i quotidiani nazionali si sbizzarrivano nei resoconti e le persone che si trovarono coinvolte nelle rapine, non facevano altro che confermare la reputazione di “bandito cortese”. Specie con le donne. Tuttavia, non bisogna credere che ogni assalto di Dillinger e dei suoi complici fosse indolore. Durante le fughe rocambolesche accompagnate dal suono metallico dei proiettili, non mancarono i morti anche se la tendenza era di incolpare i poliziotti. A confermarlo è l’ironia di un cronista del Chicago Times: “Avevano circondato Dillinger, ed erano pronti a sparargli, ma vennero fuori prima gli ostaggi e spararono a loro. Forse la prossima volta riusciranno a beccare anche Dillinger, se gli capitasse accidentalmente di trovarsi in mezzo ai passanti innocenti”.
Formalmente fu accusato di un solo omicidio diretto, quello dell’agente di plizia William O’Malley, ma non fu nemmeno condannato. Leggenda vuole che la più famosa delle evasioni si realizzò prendendo in ostaggio 17 agenti con una pistola finta. Per essere precisi, Dillinger intagliò un pezzo di legno a forma di pistola che annerì con del lucido di scarpe; con questo trucco minacciò il primo poliziotto e si fece consegnare la sua pistola e con quella si fece strada verso la libertà.

Buono o cattivo che fosse, di sicuro Dillinger non era uno stratega del crimine. Le rapine in banca non rendevano molto, quando andava bene racimolava qualche decina di migliaia di dollari che finivano presto. Infatti i soldi erano appena sufficienti per pagarsi qualche lusso e il suo esoso e fantasioso avvocato Louis Piquett, al quale deve la celebrità e la possibilità di sfuggire alla giustizia e fuggire dalla prigione.
Piquett oltre alla dimestichezza con il diritto, fu quello che costruì l’immagine pubblica di Dillinger, trasformando ogni azione giudiziaria in processo mediatico. Una sorta di portavoce e responsabile della comunicazione.
Le foto che lo ritraggono mentre abbraccia calorosamente lo sceriffo che l’aveva arrestato e il procuratore che avrebbe dovuto accusarlo, sono un capolavoro della comunicazione. Era impossibile non spopolare sui cinegiornali. Piquett arrivò a proporre all’American Chicago un’intervista esclusiva al suo assistito latitante per 50mila dollari. Il giornale rifiutò.
A Dillinger a un certo punto era venuta l’idea di farsi filmare. Aveva un’autentica passione cinematografica. L’avvocato propose l’acquisto di una cinepresa per filmare una “lezione” del gangster insieme al suo più stretto collaboratore Van Meter, ma tra i due ci furono contrasti perché pare che Dillinger non volesse mostrare un profilo esaltante, ma volesse sconsigliare i giovani dal percorrere la strada del crimine. Ci fosse stata la televisione, sarebbero stati ospiti fissi in qualche talk show.
Dopo la rocambolesca fuga del 3 marzo 1934 dalla prigione di Crown Point nell’Indiana, riuscì ancora una volta a far perdere le tracce. Dillinger fu identificato e ucciso a tradimento con cinque colpi d’arma da fuoco da alcuni agenti dell’FBI mentre si trovava all’esterno di un cinema di Chicago, dal quale usciva assieme alle prostitute Polly Hamilton e Ana Cumpanas dopo aver assistito alla proiezione del film poliziesco Manhattan Melodrama con Clark Gable. Era il 22 luglio 1934, aveva appena 31 anni.
A tradirlo fu proprio Ana Cumpanas, conosciuta nell’ambiente dell’epoca anche come Anna Sage e in seguito nota come la “Donna in Rosso” (per via del colore sgargiante dell’abito indossato per farsi riconoscere dalla polizia). Fu lei a passare le informazioni alla polizia in cambio della permanenza negli Stati Uniti per evitare l’espulsione in Romania, sua terra d’origine. Dopo aver tradito Dillinger fu ingannata dall’ufficio federale che confermò il provvedimento di espulsione. Fatti a fidare degli sbirri.