Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riagganciarsi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo verboso di moderati, con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Una lunga sequenza di frasi che invitano alla commozione e niente più. I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale. Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito profluvio di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.

Salvo rare eccezioni, la quasi totalità di intellettuali, ecclesiastici, politologi e studiosi di ogni tipo, rimuovono il problema per partito preso o peggio fingono di non vedere l’attività opaca di molte organizzazioni non governative. Conta solo il sentimento, l’appello dolciastro all’umanità. Su questo fronte il ceto clericale è prima linea: cita le sacre scritture, ma la mente è rivolta ai libri contabili delle associazioni caritatevoli.

Tutti fanno appello all’umanità, ma preferiamo Carl Schmitt e il suo invito alla diffidenza: “Il concetto di umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche, ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico” (Il concetto di politico, 1932). I sostenitori delle “porte aperte” al migrante mescolano con furbizia e sapienza diritti umani e logica di mercato e, anche quando sono in buona fede, fanno il gioco di tutti quei settori produttivi dove l’immigrato è solo una “risorsa” per la deflazione salariale. Al capitalismo senza limiti, infastidisce il territorio, la frontiera e l’identità.

Fino a che punto sia sostenibile, per popoli che si sono forgiati nel corso del tempo un’identità ormai consolidata, l’impatto di una multiculturalità complessa e frammentata. È una domanda che molti tendono ad eludere. Salvo rare eccezioni, la risposta fornita dai moderati cosmopoliti è di due tipi: una semplice, basata sull’emotività, sul buon senso, sul dovere dell’accoglienza; l’altra invece, più articolata e riconducibile alla dimensione dell’integrazione individuale: l’illusione di poter convincere all’assimilazione una gran massa di persone, con l’acquisizione dalle abitudini e dello stile di vita dei Paesi di accoglienza. Peccato che l’ostacolo maggiore è il rifiuto di molti immigrati a rimuove l’impronta della propria cultura d’origine e sempre più spesso, anche di quei tratti distintivi che ripugnano noi Europei. È il loro modo di difendere l’identità, di conservare qualcosa di cui ancora dispongono, in mezzo al disordine e alla precarietà esistenziale. Se questa volontà fosse circoscritta a pochi individui, non sarebbe un problema, il conflitto esplode quando si consente, come accade ormai nelle periferie di molte città, di costituire delle enclavi etniche, governate da codici e leggi in contrasto con le norme delle nazioni ospitanti. E c’è di più, molti figli delle vecchie generazioni di immigrati, cresciuti in Europa, ritornano all’origine e rifiutano l’integrazione.

Il delirante approdo del multiculturalismo e di una tolleranza che approfitta del deterioramento interiore di noi europei è tutto qui. Come ricordava Dominique Venner, siamo imbottiti di concetti tesi a colpevolizzarci e a dimostrare di essere i responsabili dei mali che affliggono molte terre lontane. Qualcosa si è inceppato, siamo alla bancarotta del cosmopolitismo. Le civiltà possono venire in contatto, ricevere innesti positivi, rettificarsi ma non possono integrarsi senza conflitti e ci sono popoli che non condividono lo stesso retroterra identitario, con i quali è impossibile ipotizzare qualunque tipo di integrazione. A chi sostiene le ragioni della differenza, ripugna un ordine normato che non tiene conto delle culture popolari. Non si può ridurre all’unità ciò che è plurale. Tantomeno si può tollerare un comunitarismo estraneo che indebolisce la struttura portante della nostra Polis.  

La storia può facilmente andare fuori controllo. Si manifestano dei segnali e tutto improvvisamente si rompe. Chi continua ad ignorare volontariamente certi segnali, come gran parte del sistema mediatico-culturale, mette in pericolo la sopravvivenza stessa di ciò in cui crede per tutelare un piccolo fortilizio di certezze intellettuali. Rassegnarsi al fatto che ormai “le cose vanno così” e che l’andazzo è inarrestabile, rafforza la possibilità di trasformare il problema di oggi nella tragedia di domani. I venti di guerra soffiano di buone intenzioni.