Nel lessico e nell’immaginario politico da qualche anno è ricomparso il populismo. Parola non nuova, fenomeno e sentimento che si manifestano in momenti di forte crisi o di passaggio verso qualcosa di nuovo. Illusione, minaccia, deriva, tentazione autoritaria, sono alcune delle espressioni che ricorrono maggiormente nel discorso pubblico dominante quando si parla di populismo. La descrizione del piccolo diavolo tentatore che stimola i cattivi comportamenti dei ceti popolari, serve alle classi dirigenti per stigmatizzare chi rimprovera loro di aver confiscato il potere utilizzandolo senza freni. Si vorrebbe gettare il populismo nella pattumiera della storia, definirlo come un corpo estraneo per evitare di fare i conti con il sostanziale fallimento della democrazia rappresentativa liberale, ridotta a semplice sequenza procedurale che si adatta per inerzia all’interesse economico-finanziario dominante.
A partire dallo schianto finanziario del 2008–2009, il forte desiderio di contestazione del sistema di rappresentanza è aumentato sempre di più. E quando il popolo ha espresso un parere deviando dal percorso definitivo e gradito dalle classi dirigenti, è iniziato lo stato d’agitazione.
Messa in tutte le salse, la parola populismo perde ogni significato, sfugge alla diagnosi e alla corretta definizione del fenomeno. Coloro che accusano i partiti populisti di genericità o demagogia, sono i primi a comportarsi allo stesso modo perché utilizzano il populismo come una parola passepartout che apre le porte a qualsiasi interpretazione, il più delle volte peggiorativa. Sembra di assistere ad un’attività tesa a scoraggiare ogni teoria del populismo, quindi è più semplice oltraggiarlo che studiare la natura del fenomeno.
Roger Eatwell e Matthew Goodwin nel saggio intitolato “National Populism — The Revolt Against Liberal Democracy, rimproverano questo atteggiamento: “molti di noi hanno troppa fretta nel condannare più che nel riflettere rimanendo aggrappati agli stereotipi che corrispondono al loro punto di vista più che affrontare le rivendicazioni basandosi su prove concrete”.
Il termine populismo per le classi dirigenti è sinonimo di patologia, siccome se ne dà sempre una definizione poco chiara, si ricorre a termini medici come “cura” o “rimedio” per inculcare sempre qualcosa di negativo, suscitare repulsione morale e alzare il muro del recinto dove segregare i cattivi e proteggere i bravi cittadini. Concretamente, si è sviluppato una specie di cordone sanitario che permettesse di separare nelle menti e ai seggi elettorali, i partiti “perbene” e quelli “infrequentabili”. Una tattica “morale” che ha fatto cilecca. Il populismo ha spezzato il recinto e ha costretto gli altri a mettere in discussione molte certezze.
Nella maggior parte dei paesi occidentali, ha prevalso la concezione liberale della democrazia, dove la sovranità parlamentare si sovrappone e sostituisce a quella popolare. La società liberale è aggregativa nel senso che vede il campo politico come un spazio di interessi per lo più economici, dove si presume che gli individui e i gruppi cerchino solo di massimizzare i propri vantaggi con scarse o del tutto assenti, preoccupazioni per il bene comunitario.
Le attuali istituzioni allontanano e dissuadono il maggior numero di persone dal partecipare agli affari pubblici, il motivo risiede nella decisione di sostituire alla decisione popolare la gestione delle cose, la sovranità dei mercati finanziari, l’autorità degli esperti e il governo dei giudici. Così il ceto politico assume una fisionomia oligarchica e non è più responsabile davanti alle comunità, ma solo agli interessi privati che lo sostengono.
La democrazia implica normalmente il primato del politico sull’economico, non si può diluire nella semplice procedura e soprattutto è migliore quando conserva una caratteristica agonistica: il dibattito deve esserci, lo scontro non deve mancare, poi si può discutere sulle modalità, ma non si può chiedere l’estinzione del conflitto alla ricerca di un consenso sempre più largo che riduce le differenze tra i partiti politici, a dettagli programmatici. I fenomeni di disaffezione anche verso il Politico e forme di diserzione civica, si sviluppano a partire dal riconoscimento di questa destrutturazione del discorso politico, della formulazione di programmi sempre più generici e poco ambiziosi.
Il populismo non ha una natura anti-democratica, al contrario, esprime la necessità di incidere di più sulle scelte, di riannodare il filo con la comunità, chiede una ripresa del controllo politico nei settori decisivi. Il primo errore da non commettere, è cercarvi un’ideologia o identificarlo con una dottrina precisa. La diversità degli uomini politici e dei partiti che sono stati definiti populisti e la polisemia del termine, dimostrano come esso possa combinarsi con idee molto diverse. Alla base di tutto c’è l’esaltazione di forme di autonomia contro una democrazia fasulla e svuotata da una classe apolide che disegna una società ridotta a poltiglia. Ecco spiegato la capacità di ampliare il consenso oltre le categorie destra/sinistra.
Nessuno può dirsi fuori dalla storia o dall’identità cui appartiene. Una citazione di Carl Schmitt, aiuta a comprendere la crisi in corso: “la nozione di democrazia è il popolo e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità”. Classi dirigenti sempre più autoreferenziali sognano di sbarazzarsi del demos, ma non hanno il coraggio di dirlo apertamente, si limitano a conservare una serie di forme apparenti per far credere che esista ancora qualche possibilità di decidere e incidere.
Il politologo Marco Tarchi propone di definire il populismo “come una specifica forma mentis, connessa a una visione dell’ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle virtù innate del popolo, di cui rivendica il primato come fonte di legittimazione dell’azione politica e di governo”
In questa definizione si può individuare anche un difetto della mentalità populista, il riconoscimento spesso ingenuo di una innata bontà popolare. Tuttavia alla necessità di instaurare una relazione più diretta tra popolo e governanti, senza troppe intermediazioni, si possono associare altri elementi: il riferimento al popolo come un aggregato omogeneo depositario di valori permanenti; la volontà di restituirgli più potere, una visione molto idealizzata della comunità nazionale.
Il popolo vede il Politico, intesa come categoria soggettiva, sommerso dall’economia, dal giuridicismo procedurale e dall’espertocrazia e dalla morale ed esige, un ritorno del Politico nel suo significato migliore, contro le vecchie idee di Saint-Simon che voleva sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose. È falso dire che il populismo esprime un disgusto o un rifiuto della politica. In realtà, esso manifesta un’ostilità verso la classe politica cui si rimprovera di essere poco presente nelle questioni decisive. Interrogarsi sul populismo costringe tutti a riflettere su ciò che intendeva Arthur Moeller van den Bruck negli anni Trenta quando scrisse: “La democrazia è la partecipazione di un popolo al suo destino”.