Amundsen aveva constatato sulla carta che partendo dalla baia delle balene la distanza che lo separava dal polo era di 150 chilometri inferiore a quella che c’era tra l’isola di Ross (base Scott) e il polo. Tutte le speranze risiedevano nella rapidità con cui avrebbe saputo condurre la corsa. Secondo quanto dicevano Scott e Shackleton, e a conferma di quanto era generalmente ritenuto, la banchisa non era stabile ma si muoveva, ed era quindi suscettibile di spaccature, come la gigantesca scogliera di ghiaccio della Grande Barriera, col pericolo di inghiottire il quartier generale della spedizione. Amundsen aveva scelto quel posto, prendendo spunto dalle descrizioni fatte da James Ross nel 1842 che scoprì quella baia. Non avendo subito sostanziali mutamenti, appariva solidamente ancorata alla roccia di una grande isola. Se Amundsen si era rifiutato di servirsi di cavalli, in favore unicamente di cani groenlandesi, era perché questi animali, leggeri, resistenti, abituati ai freddi molto intensi, atti a scalare le asperità nevose, erano più facili da nutrire rispetto ai cavalli.

Amundsen aveva selezionato un centinaio di cani con la massima attenzione; quanto alle slitte, ne aveva prese otto lunghe quattro metri e costruite con legno di frassino, con i pattini ricoperti d’acciaio. Inoltre, aveva venti paia di sci, un accampamento di ventuno tende e la famosa casetta prefabbricata molto comoda, la cui triplice parete di tavole, intercalate dal vuoto, garantiva una buona protezione contro il freddo. Una struttura di 8 metri per 3,50 e alta 3,50 metri, sarebbe stata il quartier generale.

L’undici gennaio, verso mezzogiorno, Amundsen scorse un’immenso biancore: la famosa Grande Barriera di Ross. Questo gigantesco ghiacciaio, largo un centinaio di chilometri e con un’altezza media di 150 metri, si innalzava sul mare con l’aspetto d’una scogliera alta una trentina di metri; c’erano però dei punti in cui la parete a strapiombo non era più alta di 5 o 6 metri. Intorno al 17 gennaio il gruppo di Amundsen intraprese la costruzione dell’accampamento; esso era situato a quattro chilometri dal mare, con la casa del quartier generale simile a un villino norvegese, dal tetto appuntito. Per andare alla conquista del polo bisognava calcolare tutto: la costruzione dell’accampamento, la disposizione dei magazzini, i tempi di ritorno alla base, i viveri per gli uomini e i cani.

Lo stesso Amundsen diede una mano per i depositi. Una volta di più il suo esempio dimostrava agli uomini l’utilità del lavoro; per controllare le proprie previsioni secondo le opinioni dei propri compagni, egli notava accuratamente tutte le loro frasi. Alla fine del mese, faceva la media di colui le cui previsioni si erano dimostrate le più vicine al tempo realmente impiegato e riceveva un premio: un orologio o un libro. Amundsen avrebbe voluto partire all’attacco del polo già nel mese di agosto, ma il freddo era troppo intenso. I giorni passavano senza che fosse possibile partire; essendo però gli uomini sicuri che avrebbero raggiunto il polo nel corso di quell’anno, il loro morale era ottimo, nonostante il crudelissimo inverno. Per non essere sepolti bisognava continuamente spalare la neve intorno alla capanna che già per tre quarti ne era ricoperta. Altro loro nemico erano le malattie; quanti esploratori e navigatori erano stati costretti alla resa da ostacoli imprevisti, quali malattie provocate dal cibo o dalla mancanza di aerazione negli interni, o dal più implacabile dei nemici: il freddo.

Amundsen si era preoccupato di imbarcare grandi quantità di pemmican preparato con le sue stesse mani: alla carne e al pesce secco aveva aggiunto legumi secchi. La “dispensa”, costituita da aringhe, cioccolato, farina e lievito artificiale, dava un senso di sicurezza a tutto il gruppo. Il guardaroba era stato predisposto tenendo conto dei risultati delle precedenti esperienze. Il petrolio, questo vero e proprio “sangue del villaggio” era l’elemento più prezioso utilizzato con la massima parsimonia. Bisognava avere scorte sufficienti per il ritorno.

La Fram era una nave costruita interamente di legno, ma Amundsen non poteva certo pensare di utilizzare questo legno per finire la traversata dell’Atlantico, come faceva il comandante dell’Henrietta nel romanzo di Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni.

Quanto a Scott, egli aveva finito di installare il suo quartier generale e si spostava in slitte automobili lungo la Grande Barriera, per costruirvi depositi vari. Gli accampamenti delle due spedizioni erano ambedue nella baia della Balene, ma nonostante distassero circa 600 chilometri in linea d’aria dai norvegesi, i compagni di Scott dovettero notare, nel corso dei loro spostamenti, la presenza della Fram. Un giorno di febbraio, Amundsen aveva lasciato il “villaggio” per andare sulla Fram, quando udì qualcuno che lo chiamava: “Capitano, tornate subito!”. Si affrettò a tornare indietro e dall’alto della scogliera un’immagine inattesa si presentò ai suoi occhi: un bastimento aveva accostato la Fram. Era la “Terra Nova”, la nave della spedizione inglese. Il tenente Pennel si presentò con alcuni membri dell’equipaggio e venne ricevuto cordialmente in modo cavalleresco.

Gli inglesi cominciarono a interessarsi al materiale di cui disponeva Amundsen e si meravigliarono di scoprire nei norvegesi dei concorrenti tanto imprevisti quanto pericolosi. La loro attenzione fu attirata soprattutto dal loro equipaggiamento, così come dai cani: l’accoglienza per dir poco rumorosa che essi avevano riservato alla loro rappresentanza ne era la prova migliore.

Il capitano scozzese, non senza un pizzico di arroganza, disse:

“Non si può certo dire che i vostri cani non siano in buona forma, ma non crediamo che siano in grado di svolgere il compito al quale li destinate”.

Amundsen replicò: “Le vostre slitte motorizzate potrebbero presto rivelarsi inutili, nessun motore resiste a questo clima spaventoso. Le macchine vanno forse bene per circolare sulla banchisa, ma non sulle montagne”.

“Ma abbiamo anche i cavalli”, fu la replica.

“Eccellenti per la Scozia, ma siete sicuri che resisteranno in queste zone tra neve e ghiaccio a temperature così basse? Perché non gli fate indossare il gonnellino”.

“Non vi preoccupate, abbiamo tutto quello che ci serve, se vi capita di essere in difficoltà non esitate a chiedere aiuto, vi daremo una mano”. Tra una provocazione verbale e l’altra, alla fine tutto si risolse tra risate e bicchieri di whisky. Tuttavia Amundsen, consigliò ai suoi cortesi avversari di non partire con i cavalli, tanto da offrire metà dei cani in cambio di una collaborazione nella spedizione. I britannici non vollero sentire ragioni, avevano un’altra idea di come si dovesse affrontare il polo sud rispetto ai norvegesi. I primi avevano scelto gli animali da tiro in funzione del carico, i secondi avevano scelto il materiale in funzione degli animali da tiro. I britannici furono corretti ma irremovibili e, mentre lasciavano l’accampamento, conclusero:

“Partiremo con i nostri cavalli”.

“E noi con i nostri cani”, ribatté Amundsen. Da quel giorno iniziava la gara per la conquista del polo tra le due spedizioni, non rimaneva che aspettare il tempo buono per partire. Fino a quando la luce non fosse ricomparsa, l’equipaggio sarebbe vissuto asserragliato a Framheim – così era stato battezzato il campo base dei norvegesi. L’alloggio principale della cittadella è composto di due locali, uno lungo sei metri, che serve da dormitorio, da sala da pranzo e da soggiorno, e in cui sono state disposte, tutt’intorno, cuccette da nave. L’altro locale, largo due metri, serve da cucina, gli attrezzi indispensabili sono sistemati in un magazzino, i viveri in una dispensa scavata nel ghiaccio e protetta da una tenda; gallerie sotterranee collegano queste caverne alla casetta. Sempre sottoterra sono immagazzinati il carbone e il petrolio; mentre sono stati organizzati persino dei bagni turchi. Insomma, la base è come una piccola città a cui non mancano delle comodità. Fuori regna un freddo tremendo. Siamo sessanta gradi sotto zero. La neve ha sepolto la casetta, di cui emergono solo i camini di areazione. Una decina di tende protegge in parte i viveri e in parte i cani.

Partita con 110 cani, la spedizione ne conta ora 166, perché dopo la partenza alcune nascite sono state occasione di feste fuori programma. I cani sono stati attaccati, sia per impedire che cadano in qualche crepaccio, che per evitare che si azzuffino. Inoltre Amundsen ha creato una specie di ufficio divertimenti, col lo scopo di combattere la depressione morale che è così frequente durante gli inverni di sosta forzata. Trascorsero sei mesi e il termometro si era stabilizzato a meno cinquanta. Il sole fece una timida apparizione. Il 29 settembre 1911 Amundsen annotava nel suo diario: “è stato segnalato un volo di procellarie antartiche. Il loro arrivo annuncia la primavera”. Il piano definitivo della campagna era stato fatto, ora non restava che metterlo in pratica. Il capo era dell’opinione che la spedizione doveva avere due scopi: la conquista del polo sud e l’esplorazione delle regioni costiere dell’Antartico intorno alla baia delle Balene, nonché il rilievo topografico della Terra Vittoria. Quello che contava era di tornare con risultati scientifici estremamente precisi. Il tenente Pestrud era un tecnico abile, ma non aveva esperienza di terre boreali o australi, per cui Amundsen gli mise accanto, per realizzare questo programma di studi, un esperto delle esplorazioni, Hjalmar Johansen.

AMUNDSEN ARRIVA PER PRIMO

Cinque uomini si sarebbero diretti al polo, altri tre si sarebbero occupati della Terra Vittoria. Il 23 ottobre, a 160 chilometri da Framhein, viene raggiunto il primo deposito. I cani divorano la carne di foca e, siccome quella tappa era stata molto faticosa vengono loro concessi due giorni di riposo. A ciascuna slitta è applicata una ruota che sfiora la neve, ma non si tratta di un timone, bensì di un primitivo tassametro che con ogni giro registra il cammino percorso; era un sistema da usare solo per brevi distanze, mentre per le grandi distanze rimanevano validi i metodi di misurazione scientifica. Per segnare il cammino percorso, Amundsen decide di innalzare delle piccole piramidi di neve, su ciascuna delle quali viene issata una canna con in cima un berretto nero. L’equipaggio di Hanssen parte come avanguardia, seguito dagli altri tre. In un’ora i cani hanno percorso dieci chilometri. Il 29 ottobre la carovana giunge al secondo deposito. Il 31, la slitta di Hanssen scompare in un crepaccio e Wisting si incarica del salvataggio, riuscendo, per mezzo di una corda, a recuperare non solo il compagno ma anche la slitta. Il giorno dopo la temperatura è di meno 35 gradi. Il 4 novembre i cani sono in grande forma e galoppano come dannati, bisogna a ogni costo raggiungere il deposito posto sul parallelo 82. Ci arrivano, l’equipaggio crede di avere ormai in pugno la vittoria, ma bisogna essere ragionevoli. Viene concesso un giorno di riposo ai cani: saranno le loro ultime ferie. Il 6 novembre si riparte. La Barriera presenta sempre lo stesso aspetto: una pianura infinita sulla quale si può procedere senza particolari intoppi. Il gruppo ha stabilito tappe da 37 km e si procede a 7,5 km all’ora. Ecco di nuovo la nebbia. Immaginate una pianura sconfinata ricoperta da una nebbia fitta e sotto i piedi la neve uniforme, senza un minimo taglio, una situazione che fa perdere ogni riferimento visivo. Fino a quel punto, il gruppo si è orientato più con i paletti indicatori piantati durante i giri di perlustrazione che non sulla bussola. Gli esploratori, sci ai piedi e nelle mani una corda attaccata alla slitta, scivolano senza fatica. La nebbia è così fitta che è impossibile vedere qualsiasi cosa sia pure a pochi passi di distanza. La regione è solcata a profonde crepe, che si irradiano e si intersecano come le incrinature su un cristallo rotto. Il cielo sembra sciogliersi tutto in neve, la terra sembra sollevarsi nei turbini che il terribile vento proietta verso l’alto. Con stravagante brutalità, il blizzard sferza il viso dei nomadi della neve. Una slitta trainata da tredici cani forma l’avanguardia e segna la strada. A un tratto, si odono grida disperate: la slitta è scomparsa in un crepaccio, apertosi nel ghiaccio infido. Tutti accorrono a portare soccorso ad Hanssen e ad Hassel. Wisting si tramuta di nuovo in cane san bernardo, sono momenti di paura ma per fortuna il gruppo riprende senza danni.

“Confessa che non ti dispiace di essere uscito dal tuo buco” dice Amundsen ad Hassel. In mezzo alle difficoltà gli uomini non perdono il buon umore, ma si rendono conto che le condizioni del terreno richiedono maggiore cautale e un rallentamento della velocità di marcia. La superficie era completamente solcata da squarci e con quella nebbia sarebbe stato un errore muoversi troppo distaccati.

7 novembre: laggiù, verso sud-ovest, ai confini dell’orizzonte, si profilano masse biancastre. Che siano quei vapori sognati da Edgar  Allan Poe in cui scomparve il suo eroe Gordon Pym? Non sono nuvole, né ghiacciai, ma alte montagne ammantate di neve, quelle che Shackleton e compagni avevano descritto e segnalato.

10 novembre. Sono trascorsi dieci giorni dall’inizio della marcia, le montagne ricompaiono con precisione di contorni nel loro imperioso splendore. Contro quelle pareti scoscese, bisogna ingaggiare la lotta più dura. Nessun occhio umano ha mai contemplato sinora quelle cime, perché Shackleton aveva sì raggiunto quella catena montagnosa, ma in un punto più occidentale, a circa 200 chilometri di distanza. I norvegesi provano l’impressione di essere finiti su un altro pianeta. Le montagne sono d’un azzurro cupo su cui si distacca netto il bianco del cappuccio di neve. Amundsen è incantato, esprime questo sentimento al gruppo. Le montagne disegnano una muraglia, viste a una certa distanza somigliano a un assembramento di castelli. L’uniformità della pianura immensa e la monotonia del cielo annuvolato sono causa di una grande stanchezza, gli uomini sono costretti a proteggersi gli occhi perché la luce falsa del cielo e il bianco accecante che li circonda si riverberano con riflessi taglienti sulla distesa ghiacciata. Altro problema di orientamento. I pezzi di bambù con cui contrassegnare il percorso sono finiti. Amundsen ha una soluzione originale: usare le anguille essiccate come segnalatori, in questo modo il gruppo riduce il peso dei viveri da trasportare ma allo stesso tempo non li perde perché potrà consumare quel pesce al ritorno. La marcia prosegue. Si cerca una breccia dove potersi infilare, le due catene di montagne vengono battezzate Fridtjof Nansen e Don Pedro Christophensen Fjell, in omaggio a due sostenitori della spedizione. Fino al giorno 15 prosegue la marcia di avvicinamento alle montagne. È il momento decisivo. Il 17 il dado è tratto. Il tempo è superbo, lo stato della pista eccellente.

I cani fanno miracoli, la colonna avanza su una distesa in pendio, circondata da cime alte dai 1000 ai 2000 metri. Le cime sono ricoperte d’un cappuccio rosso fiammante: è l’effetto della luce solare sulla neve. In 18 chilometri i norvegesi si trovano a 600 metri d’altezza e qui Amundsen, su un terrazzo di ghiaccio, tra grandi crepacci, fissa l’accampamento. Il 18 novembre lo schiocco d’una frusta è sufficiente per rimettere in movimento i cani, che partono come se sentissero che devono dare il loro apporto alla vittoria. Un colle risalito faticosamente presenta poi una rapida discesa, e gli uomini devono frenare i cani per evitare una catastrofe. Quindi, ancora una nuova salita su due ghiacciai molto ripidi con il superamento del secondo che presenta il momento più tragico di tutto il viaggio: bisogna raddoppiare i cani al tiro perché nella neve molle non si possono quasi muovere. Le distanze, inoltre, sono tre volte superiori di quanto non sembrino. Il giorno successivo, il gruppo è giunto a un’altezza di 2400 metri e tutti sono in preda all’inquietudine perché devono superare il punto in cui le due catene di ghiacciai si incontrano.

Amundsen ordina il riposo per i cani, mentre tre uomini partono alla perlustrazione del versante meridionale. Che cosa nasconde la cresta? Quando giungono al punto culminante, scoprono una specie di trincea da cui deve essere contornato l’immenso contrafforte di ghiaccio che impedisce l’accesso alla piattaforma polare. La distesa di cristallo rappresenta senza dubbio la via d’accesso migliore per la piattaforma superiore.

Questa regione, battezzata da Amundsen altipiano del re Haakon IV, costituisce la parte orientale della catena di montagne della regina Maud; il lato ovest, già scoperto da Shackleton, porta il nome del suo re, Edoardo VII.

Le difficoltà si sommano alle difficoltà: un rivestimento di ghiaccio duro, sul quale gli sci non fanno presa, ricopre tutta la zona e sotto i passi degli uomini la terra rimbomba. Amundsen scrive: “Abbiamo la sensazione di camminare su tavolati vuoti.”

Arriva il 6 dicembre e la carovana giunge a 3225 metri d’altezza, questo è il punto più alto del tragitto. Da lì, inizia una discesa non molto ripida. Sotto il sole si procede rapidamente, si avverte già la vittoria. La “quota Shackleton”, il punto toccato dalla seconda spedizione inglese, viene superato l’8 dicembre. Ormai, Amundsen e i suoi compagni sono coscienti di essere i primi sulla terra a metter piede su quelle zone ignote: nessuno sguardo ha fino allora contemplato quelle cime dell’Antartico. Due spedizioni inglesi hanno fallito e la terza è in cammino, toccherà alla piccola Norvegia vincere contro una grande potenza? Amundsen è convinto dell’importanza dell’ultimo quarto d’ora. Aumenta la velocità di marcia.

Il 14 dicembre il drappello è fresco e in buono stato. Le misurazioni indicano che la spedizione si trova a 8 chilometri dal polo. In testa alla carovana c’è Helmer Hanssen, che però a un certo punto ferma i cani e stacca dall’attacco il cane di testa. Amundsen è perplesso: “Qualcosa non va, Hanssen?”

“Si, vorrei che qualcun altro prendesse il mio posto. Non posso far andare oltre i cani”.

“Strano, hanno camminato tanto bene fino ad ora…”

“Sì, capitano, ma ora credo che sia venuto il momento in cui dovete prendere voi il comando della carovana”.

“E perché?”

“Credo che debba essere riservato a voi l’onore di toccare per primo il polo”. Sensibile a questa attenzione, il capo si mette in testa alla colonna e la marcia assume un’andatura solenne, i cani si mettono al trotto. Nel corso della notte gli otto chilometri vengono percorsi e Amundsen è il primo a toccare il polo sud. Riunisce i suoi compagni e li prega di prendere l’asta della bandiera che con un colpo viene affondata nel ghiaccio duro. Così descrive la scena nel suo diario:

“Cara bandiera, emblema della patria venerata, ti piantiamo al polo sud della terra questa regione che ci circonda la chiamiamo pianura del re Haakon VII, in onore del nostro nobile sovrano”.

I geografi ritenevano che avesse toccato il polo chi fosse giunto ad almeno dieci chilometri da esso. I norvegesi, per essere sicuri di aver messo piede sul “foro per il quale passa l’asse della terra”, calpestarono il suo per un raggio di otto chilometri. Nel corso della spedizione le osservazioni non erano state interrotte, ma furono intensificate dopo il passaggio dell’89° parallelo. Ci si serviva, per tali osservazioni e per la misurazione della distanza, di un apparecchio, il diastasimetro. Per le osservazioni al polo invece Amundsen si servì del sestante, posando l’orizzonte artificiale su una cassa; la posizione esatta venne determinata dall’osservazione oraria del sole. Amundsen studiò la posizione geografica per ventisette ore e l’unico mutamento che notò fu l’abbassamento del sole da un giorno all’altro. Sicuro ormai di trovarsi al polo sud, Amundsen lasciò nella tenda che aveva fatto issare che denominò Polheim, due lettere, una indirizzata a re Haakon VII e l’altra a Robert Scott. Il 17 dicembre iniziarono i preparativi per il ritorno. La marcia sarebbe durata quarantuno giorni.