spari nella notte del conformismo

Categoria: Politica Page 1 of 3

Anni decisivi per l’Europa

Berlino, la porta di Brandenburgo

 

L’Europa è il continente più rilevante, il più ambito per prestigio culturale, posizione geografica e capacità diffuse dei suoi abitanti. I dati economici non bastano a decifrate il pianeta, le potenze imperialiste guardano all’Europa per misurarsi. Lo sanno bene i cinesi che puntano in questa direzione per disarticolare la globalizzazione di impronta americana per insidiare la superiorità di Washington.
L’Europa è al centro di una contesa tra soggetti politici esterni ad essa, problema grande e non nuovo, ma è proprio nei momenti più difficili, quando la pressione si fa più forte che si intravedono nuove opportunità all’orizzonte.
La politica estera degli Stati Uniti sembra capricciosa e imprevedibile, ma esiste un filo conduttore che lega l’atteggiamento politico di tutti i governi dell’intero spettro politico americano dell’ultimo secolo: l’ostilità nei confronti di una potenza rivale nello spazio eurasiatico. Il controllo dell’Europa passa per il contenimento della Russia ma anche per l’ambiguo e furbesco rapporto con Mosca dove le rivalità mascherano una complicità di fondo: rallentare, ritardare ed eventualmente sabotare l’autonomia strategica europea, facendo leva sulle divisioni interne e sulle carenze delle istituzioni comunitarie.
La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovradimensionata e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa della contesa principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.
Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina, iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono. È accaduto, e sta accadendo ancora che l’Europa, proprio nel momento in cui giungeva alle soglie dell’unità politica ed economica, si scoprisse in preda a spinte opposte, centrifughe, a resistenze di ogni tipo – teoriche e pratiche –, come se il segno dell’unità fosse innanzitutto in questo acuto sentimento di crisi. È giunto il tempo per l’Europa della piena maturità politica. Decenni di pace e vita tranquilla, l’avere delegato il lavoro sporco agli Stati Uniti, ha deformato il nostro approccio con il resto del mondo e sono in troppi ad accontentarsi in una condizione di comoda subalternità. La posta in gioco è enorme, i popoli europei devono decidere se rassegnarsi o riprendere il cammino nella direzione di un comune destino storico.

L’impatto sull’Europa del nuovo corso politico americano. Scenari possibili.

 

La netta vittoria di Donald Trump ha evidenziato una nuova tendenza di politica estera basata su un approccio, l’unilateralismo, e un metodo, la transazione. Sarà su queste basi che Washington agirà in campo internazionale. Sapevamo da più di un anno cosa sarebbe accaduto e nei circoli di potere europei dovranno confrontarsi con gli effetti potenziali delle politiche annunciate dalla futura amministrazione a partire dal 2025. Per questo motivo è molto importante stabilire a cosa potrebbe somigliare uno scenario apparentemente sfavorevole per gli europei e proviamo a tracciarne i contorni e descrivere le risposte necessarie affinché l’Europa recuperi quella maturità geopolitica smarrita da tempo.

Il tempo stringe

La prima urgenza, la questione del sostegno all’Ucraina e della gestione politica del conflitto, si porrà in modo acuto. Occorre prepararsi all’ipotesi di una sconfitta di Kiev dalle dimensioni e proporzioni tutte da scoprire. Infatti, sebbene il fronte non sia crollato, la dinamica delle operazioni sul campo di battaglia, sono favorevoli alla Russia. Mosca trovandosi tutto sommato in una posizione di vantaggio non ha alcuna intenzione di adottare una posizione troppo conciliante, nonostante il conflitto abbia dei costi enormi sul piano economico e militare.

Trump e i suoi sostenitori hanno chiaramente annunciato di volere un piano di pace al più presto possibile. I contorni sono ancora incerti. C’è da aspettarsi, nell’ipotesi di una vittoria russa sul campo, richieste che comprenderanno probabilmente la secessione dei territori ucraini occupati o uno status di forte autonomia, la neutralità piena dell’Ucraina, le dimissioni del governo Zelensky e l’ufficializzazione di sfere d’influenza russe, con un controllo serrato su Georgia, Bielorussia e Moldavia.

In altre parole, a breve termine occorre prepararsi alla possibilità di dislocare truppe europee sulla linea di confine russo-ucraina proprio per garantire la stabilità degli accordi di pace. Senza contare le critiche alle principali nazioni europee, Germania, Francia e Italia soprattutto, che non hanno fatto abbastanza per agire politicamente sul conflitto, per attivare le necessarie forze di dissuasione e che dopo un timido tentativo di agire in autonomia, si sono piegate alle indicazioni americane. È passato troppo tempo ma non è ancora troppo tardi per provare a rimediare, ma servirebbe un cambio di mentalità e un pensiero strategico che definisca una volta per tutte l’interesse europeo.

La pericolosa attività di predazione dei fondi d’investimento

 

 

In Italia non mancano soggetti in grado di elaborare un pensiero strategico di ampio respiro. Manca un ceto politico diffuso, capace di intercettare questo pensiero per trasformarlo in azione, sia nello spazio domestico che in campo internazionale dove si misura la forza persuasiva delle nazioni. L’Italia ha un nervo scoperto con la propria sovranità, la sconfitta nell’ultima guerra mondiale, ha ridotto spietatamente il campo di manovra.

Il nostro è un paese a sovranità limitata, sorvegliato dagli Stati Uniti e vincolato nel perimetro europeo secondo i rapporti di forza tra gli stati membri dell’Unione Europea. Niente di nuovo ma su un punto continuiamo ad insistere: questi limiti condizionano l’agenda politica, ma avere una capacità di manovra ridotta non significa rinunciare al movimento, non dobbiamo essere spettatori passivi nello spazio internazionale, né tollerare una mentalità economicista che rifiuta la storia per non avere troppi fastidi. Siamo nella sfera di influenza americana ma prendere coscienza di tale legame non significa rispondere nevroticamente “signorsì” ad ogni richiesta di Washington. Stesso discorso con l’Unione Europea: ogni richiesta di Bruxelles non è un ordine perentorio.

Riconoscere i limiti della nostra sovranità, significa imparare a muoversi fino a quella linea di confine oltre la quale il danno per il nostro paese potrebbe essere pesante. Lo spazio per l’interesse nazionale c’è, solo che andrebbe definito con precisione non limitandosi a generiche enunciazioni con l’atteggiamento tipico di chi non vuole urtare la suscettibilità del più potente.

La traiettoria di un governo è sempre di difficile interpretazione, soprattutto nella fase storica attuale, in cui sono le crisi contingenti a stabilire le priorità. Molte nazioni attuano una politica di lungo respiro, mentre l’Italia sembra ancora intrappolata nella programmazione a breve termine.

Il recente accordo tra Black Rock ed Enel evidenzia uno scenario difficile che travalica i confini italiani e assume una dimensione europea. Questo mega fondo americano, già famoso per il dominio nei mercati globali, ha avviato una strategia di acquisizione delle centrali elettriche da dismettere o riconvertire in molte zone d’Europa.

Nel caso italiano, l’accordo prevede la cessione a prezzi irrisori di alcune centrali a carbone svelando tutta l’incoerenza e l’ipocrisia della narrazione sulla transizione ecologica. Infatti queste centrali potrebbero essere riattivate per fornire energia ai data center delle grandi corporation come Google e Microsoft che necessitano di enormi quantità di energia per il funzionamento delle reti digitali e di tutta l’infrastruttura. A dimostrazione di quanto ancora siano indispensabili i combustibili fossili.

Ci domandiamo: il governo italiano non poteva realizzare un fondo sovrano per fare un’operazione di acquisizione e poi mediare con gli attori economici continuando ad assicurarsi il controllo di queste strutture industriali? La domanda resta sospesa.

L’attività di predazione di Black Rock non si ferma all’Italia e si basa su uno schema consolidato: fondi di investimento e multinazionali riescono a trarre vantaggio dalle crisi economiche, da eventuali difficoltà strutturali e dalle trasformazioni industriali per accaparrarsi le risorse strategiche nei paesi europei. Queste azioni dimostrano la capacità dei fondi di inserirsi nelle falle delle politiche pubbliche con un obiettivo semplice: indebolire il controllo statale sulle infrastrutture strategiche. Attualmente, tutti i discorsi carichi di emotività sull’ambiente, servono a coprire quelle operazioni che riproducono una dipendenza energetica e tecnologica gestita da pochi attori globali.

L’Italia e l’Europa rischiano di rendersi troppo vulnerabili. La transizione ecologica diventa una copertura per la svendita del patrimonio strategico e per nuove colonizzazioni economiche. Il capitalismo sta prendendo una nuova forma, i mezzi di produzione si trasformano e si prepara una sfida per il loro controllo. L’Italia dentro lo spazio europeo non può andare alla ricerca dell’utile più semplice. Insieme ai maggiori paesi europei, occorre rispondere con una visione strategica per non compromettere ancora di più la sovranità. Servono idee capaci di ergersi oltre le circostanze e i tempi brevi. Lo ripetiamo. È giunto il momento di una maggiore maturità geopolitica.

Nick Land, l’accelerazionismo e i deliri post umani

Nel 1995 nell’Università di Warwick in Gran Bretagna, un gruppo di ricercatori di varie discipline, si organizzarono al di fuori delle logiche accademiche con il nome di CCRU, acronimo di Cybernetic Culture Research Unit. Filosofi, biologi, letterati impegnati nelle elaborazioni di nuove teorie su capitalismo, società e strutture politiche. I principali promotori furono la filosofa Sadie Plant, poi Mark Fisher e infine il più sulfureo e carismatico di tutti: Nick Land.

Il CCRU in breve tempo pose le basi del movimento conosciuto come “accelerazionism” (accelerazionismo) e della theory fiction. Essi non volevano far crollare il capitalismo, ma volevano spingerlo ai massimi livelli, fino alle estreme conseguenze per mostrare tutte le contraddizioni e immaginare un nuovo inizio. Chi è alla ricerca di un facile sistema politico-filosofico, è fuori strada perché qui il discorso si complica sempre di più. All’interno del CCRU convivevano posizioni diverse e contrastanti sugli esiti dell’accelerazione. Fisher immaginava un’utopia “digital comunista” confidando nella possibilità delle macchine di sostituire progressivamente il lavoro, mentre altri come il controverso Reza Negarestani consideravano la fase oltre il capitalismo come un viaggio sperimentale esoterico ai confini dell’umano. Nick Land parlava apertamente di un momento “meccanico” e disumano della storia.

Turbolento, psichedelico, apocalittico, eterodosso. Nick Land in anticipo sui tempi, ha chiaro fin da subito la prospettiva di una fusione dell’umano con la tecnica e l’intelligenza artificiale, quasi a volere superare la condizione limitante di nevrosi e schizofrenia in cui si dimenano le società consumistiche. La raccolta di articoli scritti da Land tra il 1995 e il 2007, raccolti in un libro dal titolo suggestivo No Future sono un condensato grottesco e apocalittico di Lovecraft, il superomismo di Nietzsche, richiami a film come Blade Runner e molto altro. Tutto scritto con un la tecnica della theory fiction, una fusione tra lo stile analitico-razionale del saggio scientifico e le digressioni filosofiche e letterarie che fanno a pezzi sistemi e concetti che egli ricompone in una scrittura a tratti complicata e destrutturata.

Land parte dal presupposto che gli individui si muovono in un mondo che non conoscono e capiscono e mentre provano a dargli senso e a raccontarlo, non sanno che non potranno mai decifrarlo in profondità. I riferimenti a Deleuze e Guattari entrano nel campo della dipartita della Ragione, indicando nella società del grande capitale il massimo della schizofrenia. Per Land, non c’è via di fuga, bisogna attraversare le terre pericolose del disordine postmoderno. Lui è come il capitano Kurtz del romanzo di Conrad, il cuore di tenebra della civiltà delle macchine. Oltre la schizofrenia c’è solo la fusione con la tecnica, la singolarità biotecnologica, l’inizio del sogno (o incubo?) cybergotico. Land considera il razionalismo un simulacro putrescente che immette sangue infetto, indebolisce fino a fare marcire le idee che propaga.

Abbattendo i residui della vecchia civiltà borghese “finché la terra diventi talmente artificiale che il movimento di deterritorializzazione crei necessariamente da sé stesso una nuova terra”. Capace di creare “la fine del mercato globale e l’arrivo del cyberspazio, insurrezione degli elettromani, diluvio sciamanico nero, ibridazioni polimorfe, riclonazione genetiche macchini che. Il mondo nuovo…loading”. In un delirio lucido in cui “gli scienziati agonizzano e i cybernauti sfrecciano”. Teorie che nei testi Meltdown e Circuiterie superano la dimensione del saggio con espressioni tipo:

“Derive di rifiuti densamente semiotizzati e quasi senzienti si contorcono e appestano l’aria nella calura tropicale di un clima andato a puttane”.

“Le strutture di governo dei centri metropolitani orientali e occidentali si sono consolidate come Complessi Medico-Militari di sorveglianza della popolazione”.

Una visione ricca di anomalie, deliri e di distopie che hanno contagiato la nostra società.

 

Una storia del potere

Nel 2018 il giornalista e storico britannico Simon Heffer, ha scritto un saggio intitolato “Una breve storia del potere”, dove descrive e ricostruisce le dinamiche evolutive del potere politico agganciandole a quattro variabili fondamentali, utilizzate come bussola per orientarsi: territorio, ricchezza, religioni e ideologia. Oltre alla descrizione ricca di dati storici, dall’epoca classica al XXI secolo, Heffer propone una determinata idea del potere che tiene insieme due elementi: il realismo che descrive l’inevitabile conflitto interno ed esterno alle società e il liberalismo, come metodo di limitazione dello stesso potere politico e filosofia della libertà poggiata sull’individuo.

Heffer rifiuta tutte quelle interpretazioni “universaliste” che considerano la storia come un ineluttabile progresso volto a delineare quello che con un’immagine carica d’ironia, il sociologo americano Christopher Lasch chiamava “il paradiso in terra”.

D’altronde la convinzione di potere esportare dei modelli occidentali al resto del mondo, senza considerare i caratteri peculiari degli altri popoli, si è rivelata piena di difetti alla prova dei fatti. La storia non è destinata ad esaurirsi con la vittoria totale delle democrazie. Per quanto riguarda il liberalismo, l’espressione va intesa in senso più ampio e non con riferimento a una specifica dottrina moderna. Heffer assume una posizione di sintesi tra il liberalismo classico del Novecento e le critiche rivolte a questo da due autori come Max Weber e Carl Schmitt.

Il liberalismo classico, infatti, intende limitare ed irreggimentare nel più ampio modo possibile il conflitto per il potere politico imbrigliandolo nella dimensione giuridica, cioè in regole fondamentali e inderogabili da chi detiene il potere e nella contrattazione tra le parti, basata su dialogo e scambio. Su questo punto la storia dimostra il contrario: il conflitto per il potere non può essere espunto dalla dinamica politica, la conflittualità delle idee non si può addomesticare con le formule giuridiche buone per tutti ma solo per un tempo breve e limitato. Heffer appartiene a quella schiera di studiosi che mettono sempre in conto la possibilità dell’avvento di movimenti politici che rompono certi equilibri, nel bene e nel male, così come non è detto che un sistema in apparenza liberale non possa degenerare nel suo contrario.

La politica può produrre, con una certa regolarità, effetti che destabilizzano l’ordine politico. Citando ampiamente il saggio famoso di Edward Gibbon “Declino e Caduta dell’Impero Romano”, dimostra come un sistema di potere possa indebolirsi, decadere e collassare. Questo perché le regole costituzionali, garanzia di libertà personali, e l’organizzazione statuale che a partire dal diciannovesimo secolo ebbero un grande sviluppo, hanno dato prova di non riuscire mai ad imbrigliare completamente la politica, a neutralizzarne alcuni effetti disordinati, così come non sono sempre garanzia di protezione da poteri esterni, tecnocratici, in grado di condizionare l’ordine politico.

I sistemi costituzionali e gli equilibri dello scacchiere geopolitico, sono sempre esposti alla tempesta delle trasformazioni imposte dal politico, dall’insondabile conflittualità in tutte le sue forme più o meno razionali. Heffer nella sua analisi del potere non si conforma totalmente a Schmitt che riconduce tutto allo Stato, ma considera la presenza del politico come qualcosa che trascende questa realtà, qualcosa di necessario che sta dentro e fuori dall’entità statuale, si dipana in molteplici livelli senza risolversi una volta per tutte.

Questo affresco sulla realtà dei fatti intorno al conflitto politico, ci offre molti spunti. Max Weber ormai un secolo fa, ricordava come lo Stato rappresentasse un grande processo di razionalizzazione del potere politico in Occidente che è avvenuto prevalentemente attraverso due vettori: il monopolio legittimo della violenza e il dispiego dei suoi effetti sopra un territorio limitato. Questo percorso si è raffinato con la creazione di una burocrazia centralizzata, un esercito e altri elementi di comando che sopravvivono alle stagioni politiche. Lo Stato come edificio giuridico, va oltre la vita dei suoi vertici politici. Con una analisi ancora più elegante, il grande storico Ernst Kantorowicz riferendosi ai “due corpi del Re” li descriveva come uno fisico, carismatico e l’altro giuridico, impersonale e pubblico.

Nella concezione realista espressa dal libro c’è anche un richiamo implicito al problema della degenerazione delle democrazie in Stati totalitari, secondo la visione espressa da Bertrand de Jouvenel in Del Potere. Storia naturale della sua crescita. L’intellettuale francese mostrava con chiarezza il percorso di accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli Stati totalitari del XX secolo e argomentava efficacemente sul fatto fondamentale per cui la democrazia, quando la penetrazione sociale dello Stato è profonda, non è in grado di fornire alcuna garanzia di tutela delle libertà individuali. Ciò, in particolare, quando tendevano a prevalere quelle correnti di pensiero, legate alla tradizione del diritto positivo, secondo cui tutto il diritto discendeva dall’autorità politica e per cui questa si trovava ad essere allo stesso tempo formalmente vincolata al diritto che solo essa stessa poteva creare. Un sofisma che si presta a forme di dispotismo nella società.

Spostandoci nel campo delle relazioni internazionali, Heffer considera tribunali, regole ed enti sovranazionali come la rappresentazione dell’ordine politico globale, creato dai vincitori in una determinata fase storica. Istituzioni fragili che esprimono dei semplici rapporti di forza tra Stati. Interessanti sono anche le considerazioni relative al rapporto tra politica e religione. Per l’Occidente il percorso di razionalizzazione del potere, ha significato anche secolarizzare le istituzioni pubbliche e passare dal patto-giuramento sacralizzato con Dio al patto tra cittadini come elemento fondamentale alla base del potere spersonalizzato dello Stato.

L’Italia deve ritornare nella Storia

L’attuale congiuntura geopolitica apre delle finestre di opportunità, ma per coglierle dobbiamo mutare il nostro rapporto con il mondo e smetterla di pensarci destinati all’eteronomia. Le intemperie del presente ci obbligano a pensare diversamente, cullati da troppi decenni sulla certezza che a garantire la nostra sicurezza sarebbe stato qualcun altro, specialmente l’alleato americano, adesso che la superpotenza si sta lentamente disimpegnando in certe aree, tocca a noi cambiare mentalità. Essere “amici di tutti e nemici di nessuno”, ci condanna a una rassicurante irrilevanza. L’Italia produce ancora un pensiero tattico-strategico?

La domanda non riguarda qualcosa di astratto. Occorre interrogarsi su come la nazione si muove nell’arena internazionale, specialmente nel Mediterraneo. La strategia non è un elemento arbitrario, non va creata ex novo, ma è data dalla combinazione di vari fattori che rispondono a una necessità: cosa fare per sopravvivere a partire dall’elemento geografico. L’Italia deve cercare di aumentare la sua profondità difensiva, influenzare di più i territori limitrofi per evitare che altre potenze li utilizzino per attaccarci o più realisticamente, costringerci a muoverci in una determinata direzione. A che punto siamo?

La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovraestesa e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa del dilemma principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.

Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono.

In Germania le difficoltà si avvertono: la rottura traumatica del vincolo con la Russia mette Berlino in una situazione complicata, tra svolte epocali annunciate ma senza quel ritmo veloce che l’epoca impone. La Francia ha perso quote di potere in Africa e probabilmente la Françafrique è più un richiamo romantico all’interno di una grandeur che resiste ma si indebolisce. In estrema sintesi, siamo in quella che si definirebbe una fase di transizione egemonica. Il vecchio sistema è ancora lì e il nuovo ordine fatica a prendere forma.

 

Nel frattempo in Ucraina, in Palestina e nel Mar Rosso sono aperte le ostilità. Time is out of joint, “Il tempo è scardinato”, scrive Shakespeare nell’Amleto e il riferimento è allo scardinamento dei canoni. È proprio questo mutamento a fornire occasioni per l’Italia. Il disimpegno americano ci permetterebbe di proporci come soggetti riconosciuti nel Mediterraneo cui dobbiamo la nostra sopravvivenza. La crisi tedesca potrebbe darci l’opportunità per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità, certe corbellerie sul bilancio e tutti quei dossier che definiscono l’ordine europeo nei palazzi di Bruxelles. Da ultimo, l’indebolimento della Francia ci candida automaticamente a soggetto politico euroafricano perché non avendo un passato coloniale paragonabile a quello di Parigi, potremmo proporci come nazione interlocutrice dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci innanzitutto come hub energetico inaggirabile, regolando i flussi migratori, ma soprattutto, arginando i movimenti russi e cinesi che si attivano in contrasto all’Europa in quel continente. Non c’è motivo per cui Roma non debba approfittare di questa situazione oggettiva. Essere i satelliti dell’impero americano, non significa assumere un atteggiamento remissivo così come non si può seguire la tendenza all’equilibrismo esasperato.

 

La lunga transizione

 

In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.

La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.

Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.

Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.

Aspettando l’Europa

Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Gli errori dell’Europa sono una questione di grammatica

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache. L’Unione Europea è stata costruita sull’aspettativa che l’esercizio della sovranità nazionale si sarebbe dissolto in poco tempo. Il referendum britannico ha piantato un altro chiodo nella bara di questa convinzione.

La genesi dell’euro e vecchi dogmi da criticare

Dal 2002, la maggior parte di noi europei spende una moneta, cui non corrisponde alcuno stato. Caso unico al mondo, quel che dovrebbe essere la massima espressione della sovranità, continua a non avere un sovrano. C’è un controllore, la Banca Centrale Europea, senza un contrappeso politico, altra stravaganza di una situazione dalle conseguenze imprevedibili. Il destino dell’euro come moneta orfana di un governo è scritto nel suo codice genetico. Come altre unioni monetarie del passato, quella europea è stata giustificata con ragioni tecniche, ma è basata su logiche puramente politiche. Forse ve l’hanno raccontato molte volte, ma l’euro è soprattutto un desiderio dei francesi e dell’allora presidente Mitterand, dopo la riunificazione della Germania nel 1990, che minacciava di ricreare una propria politica di potenza al centro dell’Europa, in virtù di un forza economica notevole grazie alla supremazia del marco e a un solido sistema industriale. Da qui l’idea, di proseguire in fretta e furia, verso la moneta unica nell’illusione di imbrigliare la Germania, ottenendo esattamente il risultato opposto. L’euro per i tedeschi ha avuto l’effetto di una svalutazione competitiva, consentendogli un aumento delle esportazioni e del potere decisionale attraverso la forza economica.
Senza un qualche tipo di unione politica, si è deciso di sparpagliare la sovranità monetaria a tutti, praticamente a nessuno. Anche perché, se l’euro fu fatto, in un certo senso, contro la Germania, fu con questa che si dovette discutere al momento di scrivere le nuove regole che così imposero una banca centrale unica che ricalcasse nello stile e nella mentalità la Bundesbank tedesca, senza il controllo di nessuna autorità politica.
Quello di Maastricht è un testo strano, le cui pagine riflettono appieno la genesi franco-tedesca del progetto monetario europeo. Ai principi illuministici, mutuati direttamente dal mito della rivoluzione francese, si alternano passaggi di tecnica monetaria, che risentono fortemente delle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, particolarmente in voga in certi ambienti finanziari tedeschi vicini al governo. L’idea principale risiede nel sacro terrore dell’inflazione e nella funzione deflazionistica del ruolo della Banca Centrale, il cui mandato consiste nel tenere semplicemente sotto controllo l’andamento dei prezzi. Una ferrea disciplina monetaria. Questa politica deflazionistica è troppo rigida e, soprattutto, poco compatibile con le economie dell’Europa meridionale, storicamente meno efficienti e più avvezze alle svalutazioni. Non diciamo niente di nuovo. Le unioni monetarie generano squilibri notevoli, come spiegato bene dal cosiddetto “ciclo di Frenkel”. (1) Non è chiaro fino a che punto, nella fase di gestazione dell’euro, quali fossero le posizioni nell’elites europee, al di fuori della Germania. A giudicare dalla loro condotta, l’errore è stato quello di considerare il Trattato di Maastricht come un semplice accordo politico, nella sua genesi e soprattutto nell’applicazione. Un accordo flessibile, suscettibile di ogni genere d’interpretazione, a tal punto da illudersi di poterlo aggirare. Non vi sembra il momento giusto per contestare certi dogmi?

NOTA

Il ciclo di Frenkel si compone di sette fasi.

1. All’interno di un’area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali e dunque non ci sono più vincoli protezionistici al trasferimento finanziario tra i singoli paesi.

2. Siccome i capitali circolano liberamente, inizia un afflusso di risorse dai Paesi del “centro” verso quelli della “periferia”. I paesi del “centro”, sono quelli più forti finanziariamente perché hanno svalutato il cambio entrando nell’unione valutaria (la Germania col passaggio all’euro è come se avesse “svalutato” il vecchio marco). I paesi della periferia invece, hanno dovuto rivalutare il cambio per entrare nell’area valutaria comune (es. l’Italia ha rivalutato la lira passando all’euro). Ovviamente i paese più solidi del “centro” trovano vantaggioso trasferire capitali in periferia perché i tassi di interesse di quest’ultima, sono più alti e in ogni caso si tratta di prestiti dove non c’è il rischio del cambio monetario (essendo unica la moneta, ma lo stesso discorso vale con monete diverse, ma di pari valore).

3. L’afflusso di capitali (soldi in prestito) alimenta la domanda delle famiglie e delle imprese della periferia, generando crescita dei consumi e degli investimenti. Di conseguenza aumenta il PIL e migliorano i conti pubblici perché aumenta il gettito fiscale connesso all’espansione economica.

4. L’aumento dei consumi e degli investimenti favorisce la crescita del Prodotto Interno Lordo ma anche l’inflazione (troppo credito equivale a troppa moneta in circolazione). Nell’economia periferica che cresce, aumentano i prezzi, i debiti privati, il credito al consumo e spesso aumentano i valori immobiliari. Tutta questa crescita è di fatto una “droga” somministrata dall’arrivo di capitali dal “centro” e ciò si riscontra proprio dall’aumento del debito privato che cresce più rapidamente di quello pubblico, che nella terza fase tende a diminuire.

5. Uno shock interno o esterno fa scoppiare la bolla del debito privato. Non c’è più garanzia di restituzione e a questo punto i paesi del centro bloccano i rifornimenti alla periferia. (esempio di shock la crisi dei mutui subprime negli Usa nel 2008)

6. A questo punto venendo a mancare la liquidità dal centro, si innesca un corto circuito per cui i Paesi della periferia vanno in “recessione”. Il debito pubblico aumenta e contemporaneamente calano i consumi e gli investimenti. Cala il PIL e il rapporto deficit/pil peggiora e si attuano politiche di restrizione fiscale (tagli di spesa e aumento delle tasse) che di solito, peggiorano la situazione.

7. Il peggioramento dei conti pubblici rende la situazione insostenibile per la periferia che non ha alternative se quella di sganciarsi dall’unione valutaria a meno che, gli squilibri non vengano corretti con un intervento politico (nel nostro caso le istituzioni europee)

Page 1 of 3

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén