Autore: Revolver Page 2 of 15

Ernst Jünger

Ernst Jünger (29/03/1895–17/02/1998)

«Dobbiamo riconoscere che siamo nati in una plaga di ghiaccio e di fuoco. Il passato è tale che non si può mantenere legami con esso, e la realtà in divenire è tale non ci si può preparare ad essa. Questa plaga presuppone in chi vi dimora, come atteggiamento, il massimo grado di scetticismo pronto alla guerra. Non è concesso trovarsi in quelle parti del fronte che sono da difendere; occorre essere là dove si attacca. Per disporre delle riserve sufficienti, occorre essere consapevoli che sono riserve invisibili, al riparo, più sicure che se fossero protette da una volta blindata. […]

È possibile possedere una fede senza dogma, un mondo senza dèi, un sapere senza massime, una patria che non corra il rischio di essere occupata da alcuna potenza mondiale? Sono domande che impongono all’individuo di verificare il livello di qualità del proprio armamento. Non c’è carenza di militi ignoti; più importante è il regno ignoto, sulla cui esistenza non sono necessarie informazioni»

Divagazione tra le nuvole di fumo

lo scrittore milanese Andrea G. Pinketts con l’inseparabile sigaro toscano

 

Quando Sir Walter Raleigh, portò il tabacco dall’America all’Inghilterra nel XVI secolo, fu come aprire la porta di un passaggio segreto che conduceva in un raffinato territorio di piaceri terreni e vita indipendente. Ma senza saperlo, scatenava la lotta interiore ed esteriore prodotta dal fumo che è ancora in corso, tra il dire “sì” e il dire “no”. Il fumo è ozio. Privo di qualsiasi funzione pratica e per questo odiato dagli esaltatori del tempo produttivo. Può, nel silenzio, attivare un’energia creativa oppure stimolarci a praticare la nobile arte della conversazione. La “pipa – scrisse William Thackeray – “estrae saggezza dalle labbra del filosofo e chiude la bocca allo sciocco; produce uno stile di conversazione contemplativo, pensoso, benevolo e non affettato”.

La propaganda antifumo, unita alle tasse punitive sui fumatori con tanto di avvertenze dei ministeri della Salute e brutte immagini che rovinano l’estetica dei pacchetti, descrive bene il carattere dei moralisti della domenica. Esiste una forma di sottile segregazione dei fumatori da parte dei non fumatori che trasforma questi ultimi in orgogliosi predicatori puritani pieni di sé.

Noi ci dilettiamo nelle terre del tabacco mentre loro, desiderano solo un paradiso asettico, carico di redenzione, ordinato e tremendamente tedioso. Tocca a noi amanti del sigaro diventare dei cospiratori per rimettere le idee a posto.

“L’uomo misura il vago tempo con il sigaro” scrisse Jorge Luis Borges

Il sigaro è il risultato di una scelta, non è popolare, né democratico, nasce come prodotto di massa ma poi diventa altro. Il sigaro è aristocratico ma chi lo fuma ha il piacere di stare in mezzo al popolo. Il panegirico sulla cultura del tabacco non ci interessa, noi coltiviamo una libertà beffarda che si prende gioco dei volti corrucciati e degli sguardi disgustati. Più che metafisico, il nostro discorso è “metà fisico” perché c’è un momento in cui avverti la fisicità del sigaro e un altro in cui si verifica l’astrazione.

Il sigaro richiede un profondo rispetto. Esiste un momento in cui lo scegli e contemporaneamente sembra che sia lui a sceglierti. Il sigaro dovrebbe fumarselo solo chi lo merita, ma non possiamo esagerare. Il sigaro è indipendente, la sua cenere, di un colore grigio ferro, è solida come se opponesse una cordiale resistenza alla propria fine. Il sigaro ti consente di osservare il mondo con il giusto distacco, di viverci dentro e di prendere la giusta misura di tutto quello che ti sta intorno. Il sigaro ha un odore che resta, ti consente di allontanarti temporaneamente dal mondo restandovi saldamente, ti permette di uscire dalla scena che poco prima avevi allestito.

Il sigaro ti crea un involucro di nebbia, di profumi e di aromi molto personale. Sviluppa un inedito pathos della distanza e tiene lontani i salutisti molesti. Prometeo ha donato il fuoco agli uomini sfidando gli Dèi. Le vestali custodivano a Roma il fuoco sacro nel Tempio di Vesta. Noi sacerdoti del sigaro celebriamo una liturgia gaudente con una precisa ritualità di gusto e tatto.

 

Pensieri e parole sull’Occidente

 

Occidente. Mito di fondazione, un riferimento che parte da lontano quando l’Europa era ancora silenziosa e non cominciava a muoversi nel territorio suggestivo della Storia. Erodoto racconta che gli spartani chiamati in soccorso dagli Ioni minacciati dal re persiano Ciro, inviarono al Gran Re un messaggero per intimare: “Che della terra greca nessuna città egli danneggi, perché essi non lo sopporteranno”. L’imperatore, informatosi su chi fossero gli interlocutori rispose di non temere uomini “che hanno un luogo in mezzo alla città, scelto appositamente e che in esso si ritrovano”.
Ciro il Grande non capiva il senso e il significato dell’agorà, piazza e centro vitale che nei secoli ha ininterrottamente indentificato il cuore pulsante dell’Occidente. Da qui la vocazione “dinamica” dell’Europa, spazio geografico e di civiltà, con un profilo identitario definito che si rinnova ma che non può essere alterato e deformato troppo. Il tempio come struttura architettonica, luogo simbolico di ciò che sta dentro l’Europa e ciò che è estraneo ad essa.
L’Occidente è la civiltà della visione. Oggi esistono molti “occidenti” e quello che chiamiamo “sistema occidentale” è probabilmente la degenerazione dell’Occidente.

Secondo Harold Bloom, l’Occidente è soprattutto un “canone” che collega autori, pensatori, le opere, i classici che fanno la tradizione. Il carattere dominante di questo “canone occidentale” è il suo essere arte della memoria, dignità estetica, esuberanza espressiva, capacità di rigenerarsi e di aprirsi alle possibilità. Il tutto tenendo presente che esiste un confine che definisce la fisionomia di quel territorio chiamato “civiltà occidentale”. È un campo di gioco e trasmissione, non un elenco rassicurante di autori e opere, ma una struttura con una base stabile, capace di mutare in senso dinamico senza alterarsi al punto di sgretolarsi.

Il linguaggio originario dell’Occidente è quello dell’Europa. Coincide con un’identità dinamica e non fossile, una fucina sempre attiva a partire dalla storia di Roma, del Mediterraneo, fino alle remote terre del Nord. L’auspicio è di ritrovare lo spirito autentico dell’Occidente e depurarlo da ogni scoria distruttiva.

Jack Kerouac, il fenomeno “beats” e l’accoglienza in Italia

 

Ezra Pound una volta disse, “Il tipo umano che ha costruito l’America era nomade”. Negli anni ‘50, Jack Kerouac descriveva così quel tipo umano: “Nomadi con il sacco sulle spalle, vagabondi del Dharma, che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondizia, tutti prigionieri di un sistema di “lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma”, ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia, o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino”. Un discorso che vale più di un manifesto politico. In queste parole si scorge il tratto caratteristico della beat generation: fenomeno esistenziale e culturale molto vitale, apparso nella giovane America del dopoguerra e trasmesso a un’Europa disincantata.

Jack Kerouac è stato uno dei profeti  di questa generazione, il più controverso e contraddittorio, il più amato e disprezzato. Il migliore, forse il più lucido, nonostante le sue mastodontiche bevute. Tanto per cominciare, come precursore riconosciuto del movimento beat, Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Nato il 12 marzo 1922 a Lowell, nel Massachussets, ha espresso in pieno lo spirito dell’epoca, il senso di ribellione e le contraddizioni di un ambiente giovanile irrequieto. Sebbene non avesse la patente, adorasse il baseball, l’America e sua mamma e fosse sarcastico con i “capelloni”, rappresenterà sempre l’icona di una vita profondamente inquieta e sfrontata. On the road (sulla strada), il suo romanzo più famoso, raccontava in slang e in forma autobiografica le peripezie di uno scrittore, Sal Paradise, che attraversa gli Stati Uniti con l’autostop.

Il fenomeno beat fu meravigliosamente caotico. In mezzo c’è di tutto, spinte utopiche ed edoniste con un tratto di conservatorismo libertario: Ginsberg, per dire, fondeva l’erotismo di Walt Whitman al nichilismo buddhista; Burroughs era un dadaista lisergico; a Gary Snyder piacevano i canti dei nativi americani, qualcuno “giocava” con il marxismo, quasi tutti adoravano David Thoreau (quello di Walden) e ascoltavano il jazz. E Jack Kerouac? Era un buon cristiano. Cresciuto in una famiglia profondamente cattolica, disprezzava tuttavia quel bigottismo assai diffuso nell’America degli anni Trenta e Quaranta. Che tipo di rivolta è stata quella dei beats? Sicuramente non era interpretabile con le categorie classiche della politica. Quando in un’intervista televisiva chiesero a Kerouac che cosa stesse cercando, lui semplicemente rispose: “Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto”. Anche se poi si finiva per cercarlo nei paradisi artificiali, nella libertà sessuale o nel sax di Charlie Parker, la meta ultima del viaggio in stile beat generation era la ricerca del Divino e dell’Assoluto.

Arriviamo

Stiamo lavorando per voi

 

Si chiude un’epoca in Siria. Quale futuro dopo la rivolta?

 

In dieci giorni la Siria laica governata dalla famiglia Assad non c’è più. Si chiude un’epoca sotto il fuoco incrociato delle milizie islamiche bene equipaggiate e addestrate. Siamo alle battute finali di uno scontro che vede protagonisti soprattutto la Turchia, gli Stati Uniti, l’Iran, la Russia e Israele che hanno trasformato la Siria in un territorio di scontro che punta alla definizione di nuovi equilibri di potere nel Medio Oriente.

È una storia iniziata nei primi mesi del 2011 all’epoca delle prime rivolte in Siria trascinate delle cosiddette “primavere arabe”. Da lì si è innescata una miccia che ha provocato uno stato di tensione permanente nella composita società civile siriana. Una guerra civile strisciante e parzialmente assopita nel 2015 con l’intervento militare di Russia, Iran ed Hezbollah che hanno evitato il collasso definitivo del governo di Bashar Al Assad e delle strutture statali. Da quel momento per la Siria è cominciata una nuova storia: lo Stato non ha mai recuperato la piena sovranità, dato che alcune di queste milizie, islamiste e curde, hanno continuato ad avere il controllo di alcune porzioni di territorio.

Alla fine è arrivata la resa dei conti e la rivolta che ha rapidamente rovesciato il governo, sembra essersi sviluppata da intese combinate prima ancora degli spari sul campo di battaglia. Dopo l’ingresso ad Aleppo, l’esercito siriano non ha fatto altro che ritirarsi e arrendersi.

Sono tante le incognite sul futuro della Siria divisa in fazioni che si guardano con diffidenza, seppure a parole, già si parla di intesa e unità.

Chi sono i principali protagonisti di questa vittoria?

Il maggiore sforzo militare sul campo è stato sostenuto dai combattenti di Hayat Tahrir Al Sham (Hts) sostenuti dalla Turchia con il loro leader Mohammed al-Jolani il più mediaticamente esposto tanto da rilasciare interviste dove manda segnali concilianti, con inviti alla calma e ad evitare vendette. Al Jolani figura ambigua dal passato controverso, arrivato a Damasco, si è inginocchiato e ha baciato la terra del quartiere dove era cresciuto, ovviamente con il fotografo a immortalare la scena. Abu Havrebbe preso le distanze dall’islam fanatico ha appena dichiarato: “Non sostituiremo un potere con quello di un altro” e ha garantito il rispetto di tutte le minoranze, tanto da avere incontrato i capi delle comunità cristiane con la mediazione del vicario apostolico di Aleppo. Ricordiamo che la Siria è un mosaico di etnie, gruppi e orientamenti religiosi: islamici sunniti e sciiti, alawiti, cristiani, arabi, drusi, armeni, curdi. curdi. Solo il tempo ci dirà se questa nuova immagine sia il risultato di una tattica di comunicazione o un’autentica volontà di cambiamento. Dietro l’apparente unità d’intenti, lo schieramento ribelle è unito solo nella vittoria ma diviso sul futuro. Sembra prevalere l’Hts ma altri gruppi potrebbero prendere il sopravvento e molto dipende dagli sponsor stranieri che li sovvenzionano.

Quello che stiamo osservando somiglia a una transizione ordinata: quasi tutti i funzionari pubblici sono rimasti per ora al loro posto, così come il primo ministro Mohammed Ghazi Al Jalali, rimasto a Damasco, ha già avuto contatti con i capi della rivolta per preparare il passaggio di poteri. Solo la famiglia Assad già fuggita a Mosca e i collaboratori più stretti hanno lasciato il paese dopo essere stati adeguatamente avvisati. Ci sono tutti gli elementi per una crisi pilotata dove ognuno degli attori politici ha avuto adeguate garanzie.

Al momento Muhammad al-Bashir sarà incaricato di formare un nuovo governo per gestire la fase di transizione. Lo riporta Al-Jazeera, secondo cui il nome è emerso durante un incontro tra il comandante del dipartimento operativo dell’opposizione armata, Ahmed Al-Sharaa, lo stesso Al-Bashir, e l’ultimo primo ministro Muhammad Ghazi Al-Jalali. Al nuovo capo dell’esecutivo spetterà il compito di definire le modalità del trasferimento dei poteri ed evitare che la Siria precipiti nel caos.

L’impatto sull’Europa del nuovo corso politico americano. Scenari possibili.

 

La netta vittoria di Donald Trump ha evidenziato una nuova tendenza di politica estera basata su un approccio, l’unilateralismo, e un metodo, la transazione. Sarà su queste basi che Washington agirà in campo internazionale. Sapevamo da più di un anno cosa sarebbe accaduto e nei circoli di potere europei dovranno confrontarsi con gli effetti potenziali delle politiche annunciate dalla futura amministrazione a partire dal 2025. Per questo motivo è molto importante stabilire a cosa potrebbe somigliare uno scenario apparentemente sfavorevole per gli europei e proviamo a tracciarne i contorni e descrivere le risposte necessarie affinché l’Europa recuperi quella maturità geopolitica smarrita da tempo.

Il tempo stringe

La prima urgenza, la questione del sostegno all’Ucraina e della gestione politica del conflitto, si porrà in modo acuto. Occorre prepararsi all’ipotesi di una sconfitta di Kiev dalle dimensioni e proporzioni tutte da scoprire. Infatti, sebbene il fronte non sia crollato, la dinamica delle operazioni sul campo di battaglia, sono favorevoli alla Russia. Mosca trovandosi tutto sommato in una posizione di vantaggio non ha alcuna intenzione di adottare una posizione troppo conciliante, nonostante il conflitto abbia dei costi enormi sul piano economico e militare.

Trump e i suoi sostenitori hanno chiaramente annunciato di volere un piano di pace al più presto possibile. I contorni sono ancora incerti. C’è da aspettarsi, nell’ipotesi di una vittoria russa sul campo, richieste che comprenderanno probabilmente la secessione dei territori ucraini occupati o uno status di forte autonomia, la neutralità piena dell’Ucraina, le dimissioni del governo Zelensky e l’ufficializzazione di sfere d’influenza russe, con un controllo serrato su Georgia, Bielorussia e Moldavia.

In altre parole, a breve termine occorre prepararsi alla possibilità di dislocare truppe europee sulla linea di confine russo-ucraina proprio per garantire la stabilità degli accordi di pace. Senza contare le critiche alle principali nazioni europee, Germania, Francia e Italia soprattutto, che non hanno fatto abbastanza per agire politicamente sul conflitto, per attivare le necessarie forze di dissuasione e che dopo un timido tentativo di agire in autonomia, si sono piegate alle indicazioni americane. È passato troppo tempo ma non è ancora troppo tardi per provare a rimediare, ma servirebbe un cambio di mentalità e un pensiero strategico che definisca una volta per tutte l’interesse europeo.

Di banane e Cattelan: la banalità artistica al servizio del potere.

Platone sapeva meglio di noi cos’è l’arte, e giustamente la temeva, perché il potere dell’immaginazione è quanto di più vicino, nell’uomo, a un fuoco distruttore e trasformatore. Nella “Repubblica” gli artisti erano valutati con diffidenza proprio perché considerati un pericolo per l’ordine. Invece oggi, l’arte viene osservata e trattata con estrema leggerezza e superficialità, tanto da attribuire il valore di opera artistica a qualunque cosa. Marcel Duchamp quando nel 1917 firmò il famoso orinatoio “R.Mutt” era consapevole che quell’oggetto non fosse un’opera d’arte, ma il suo intento era quello di sbeffeggiare il concetto di opera artistica secondo i canoni dell’accademia ufficiale.

Edgar Wind, illustre studioso d’arte e anche sottile decifratore del pensiero occidentale, ci ha spiegato come l’arte occidentale sia diventata autonoma e sovrana proprio nel momento in cui le è stato sottratto il suo vero potere. Così l’arte autonoma, coperta di inutili onori, si è trovata ad essere relegata in uno spazio ornamentale e marginale della realtà.

L’arte può essere celebrativa, devozionale, narrativa, estetica e provocatoria, ma nel suo spirito più originario è qualcosa che dovrebbe provocare un’effrazione rispetto al reale e mutare la prospettiva. Altrettanto vero che non possiamo negare il condizionamento dell’arte da parte dell’economia e del mercato. L’opera d’arte si immerge nella società e in qualche maniera coglie lo spirito dei tempi. Nei secoli c’è sempre stata una contrapposizione tra conservatori e innovatori, modi diversi di concepire l’arte.

Recentemente la casa d’aste Sotheby’s ha venduto a New York per 6,2 milioni di euro, “Comedian” opera di Maurizio Cattelan, consistente in una banana attaccata al muro con del nastro telato. Qualche curatore d’arte, ha subito dichiarato che non è una banana ad essere stata acquistata, ma un “concetto”.

Proprio l’abuso di queste parole, l’utilizzo sconfinato, conferma di come l’arte abbia completamente ceduto al mercato, al capitalismo glamour per soddisfare qualche capriccio di ricchi e viziati compratori.

Maurizio Cattelan è un artista, un prodotto mediatico o un geniale provocatore? Del “provocatore” non ha niente.
Dare forza alle frivolezze di un pubblico di consumatori, è un’azione da abile mercante. Chi provoca davvero mette in discussione la società e il sistema, scardina soprattutto le certezze del suo ambiente. Cattelan è solo un propagandista di sé stesso che tenta di stupire in ogni modo ma il cui unico obiettivo è alimentare una remunerativa speculazione commerciale. Siamo di fronte allo spettacolo della merce. Meglio pensare di trovarci di fronte al “niente”, la totale assenza di significati.

Un “niente” capace di generare profitti che galleristi, organizzatori e critici si ostinano a definire Arte.  A questo punto vale ciò che scrisse Jean Braudillard: “L’arte contemporanea specula sul senso di colpa di quanti non capiscono niente di ciò che essa produce, e non hanno capito che non c’era assolutamente niente da capire”.

Cattelan è una delle comparse di quel grande apparato nascosto dietro la parola “Cultura” che amministra il sapere, sorveglia e governa il pensiero per farlo coincidere con gli interessi dei gruppi di potere dominanti. Da parte nostra c’è solo l’irrisione e il sabotaggio beffardo.

Donald Trump, il ritorno

 

 

“Più che l’imprevisto, è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto” – questo aforisma di Nicolas Gomez Davila – descrive bene la sequenza di reazioni provocate dalla vittoria di Donald Trump e dai commenti sconclusionati di un ceto intellettuale progressista che non sa più che spiegazione darsi, dopo avere confuso i propri desideri con la realtà, senza sforzarsi minimamente di comprendere quello che è accaduto, se non limitandosi, con la mentalità del tifoso, a lanciare maledizioni contro il cielo.

La dimensione del successo di Trump e della sua capacità di avere organizzato un contropotere di élites riposizionatesi all’interno del movimento repubblicano, ha definitivamente disintegrato il vecchio sistema nel campo politico, economico e sociale.

L’ambiente politico conservatore si è unito ad alcuni settore del capitalismo più avanzato, questa classe di “ipercapitalisti” che mette in discussione le vecchie rendite di potere, interviene e partecipa attivamente nella gestione politica degli apparati statali.

È una dimensione nuova, un momento di svolta. Staremo a vedere.

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non cambierà drasticamente la traiettoria della competizione strategica con la Cina – il perno centrale della politica estera di Washington, l’area dell’indo-pacifico, dove oggi si svolge la competizione più importante.

E lo ripetiamo, l’Europa deve cogliere l’occasione per rendersi più autonoma, definire e difendere il proprio interesse politico e militare e intervenire in maniera più decisa nelle aree di conflitto, non essere più un osservatore un po’ in disparte. Dalla Storia non si sfugge.

Controllo e illusione della libertà

Siamo immersi dentro un grande dispositivo di gestione della vita formattato con parametri securitari.

Sono questi che regolano in maniera onnipervasiva il funzionamento quotidiano di questa mega macchina che abbiamo creato e che adesso non sappiamo più come smontare o controllare.

Domani potremo votare in massa chi vogliamo, ma faremo una grande fatica ad abolire l’ideologia securitaria, il sogno dispotico burocratico-sanitario, la società dell’ipercontrollo, della classificazione a tutti i costi, la pianificazione integrale della vita e dei corpi da parte di quelle istituzioni e aziende assoldate dai governi per trovare soluzioni permanenti a problemi transitori.
Ovunque si riduce lo spazio dell’esistenza quotidiana, del tempo e dei territori liberati dal denaro e dal mercato.
«tutto è permesso ma niente è possibile».

Sembra una contraddizione ma è la sintesi più precisa del funzionamento dei nostri sistemi dove le proibizioni vengono spacciate per scelte libere: la mega macchina che con i suoi input ci vuole impedire di immaginare altri mondi e altri futuri. Tutto sotto la stretta sorveglianza di un apparato culturale, onirico, pubblicitario che proietta tutto il giorno l’illusione della libertà.

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