New York. Alla galleria Leo Castelli è una fredda giornata di gennaio del 1958, e si sta preparando una mostra per il mese successivo dell’artista Robert Rauschenberg. Jackson Pollock è morto in circostanze drammatiche da poco più di un anno e l’ambiente dell’arte internazionale sembra in confusione. Qualcuno suggerisce la riprese del Dadaismo, coniando il termine New Dada, ma è un critico inglese, Lawrence Alloway, a proporre una nuova forma d’arte.
Sempre a febbraio pubblica un articolo su Architectural Design, intitolato The Arts and the Mass Media, dove utilizza l’espressione Pop, riferita a una cultura fatta di immagini banali legate al consumo di massa, di stereotipi, semplificazioni, in cui le merci hanno più rilievo degli oggetti d’arte e i fumetti offrono una narrativa migliore dei romanzi: è la cultura popolare di massa che diventa più rilevante della cultura “alta” e ufficiale.
La Pop Art è l’arte che nasce a partire da questa situazione. Da quel momento pop sarà utilizzato e abusato in mille modi.
Rauschenberg espone i combinepaintings, opere cui applica fotografie, brani di immagini pubblicitarie e soprattutto oggetti veri tratti dalla quotidianità, come un ombrello, la ruota di un auto o la bottiglia di una Coca Cola. Le cose sono inserite in opere dipinte con materiali colorati, con effetti gocciolanti, eseguiti con una tecnica brusca.
Sono ancora definiti quadri, ma somigliano più a degli assemblaggi impropri tridimensionali, in cui l’oggetto semplice si presenta per ciò che è, un brandello della vita comune dentro un’opera artistica, inserito senza una logica precisa.
Gli esiti di questa scelta sono particolari: il MoMa, il Museum of Modern Art di New York, tempio delle avanguardie storiche, in un primo momento rifiuta le donazioni di opere dell’artista perché realizzate con materiali deperibili dei quali non è in grado di garantire la conservazione. I lavori di Rauschenberg non sono una novità in senso assoluto ma si inseriscono in una consuetudine propria di alcune avanguardie artistiche del primo Novecento: il collage cubista, le composizioni futuriste fino al ready made dadaista, che consisteva nella manipolazione di oggetti concreti.
Rauschenberg è considerato il grande sintetizzatore di questi precedenti, tanto che alla Biennale di Venezia del 1964 viene proclamato il vero padre della Pop Art. Intanto la parola comincia a diffondersi e nuovi artisti si fanno largo.
Nel 1961 Claes Oldenburg presenta finti prodotti in un negozio autentico, un esercizio abbandonato nel Lower East Side riempito di 120 sculture riproducenti mercanzie con tanto di prezzo. Di lì a un anno lo scenario sarà completamente mutato, ad opera di artisti che portano i nomi di James Rosenquist, Roy Lichtenstein, Tom Wesselmann, George Sagal, Robert Indiana e Andy Warhol. Lichtenstein sceglie l’iconografia del fumetto e della grafica pubblicitaria per ingrandirla a dismisura e riportarla sulla tela senza mediazioni estetiche con una pittura secca, uniforme, il più possibile simile all’inchiostratura dell’editoria popolare, simile al retino tipografico. Rosenquist è un cartellonista e illustratore, mescola immagini quotidiane e pubblicitarie, spesso su supporti trasparenti, Segal gioca con il calco di gesso di persone reali, realizzando scene particolari. Oldenburg dopo i rifacimenti di oggetti e cibi, passa al loro ingrandimento esagerato, laccato, volgarmente splendente, con materiali molli o rigidi. Lo stile è kitsch: fette di torta, mozziconi di sigarette, utensili da lavoro, confezioni di cosmetici, cucchiai e macchine da scrivere, sono riprodotte in dimensioni abnormi.
Andy Wahrol, dopo una personale alla Ferus di Los Angeles basata su riproduzioni fedeli di scatole di minestra Campbell, presenta a New York ingrandimenti e ripetizioni seriali di oggetti comuni, come bottiglie di Coca Cola, oppure ritratti serigrafici di personaggi famosi come Mao Tze Tung e Marilyn Monroe. Nel giro di pochi anni diventa stesso una specie di personaggio-icona, circondato da un seguito di artisti disparati e tirapiedi in cerca di qualche minuto di celebrità.
La Pop Art è l’arte perfetta, elementare per un pubblico che accede al consumo di massa e vi si riconosce immediatamente; questi quadri attraggono perché riproducono i loro soggetti, perché ama la pubblicità e le merci.
Gli artisti Pop fanno irrompere una vitalità volgare e prepotente priva di alibi snobistici, l’orgoglio sciatto di chi si identifica culturalmente con una serie di immagini di rapido consumo. Il potenziale di questo messaggio “scandaloso” viene intuito da Wahrol che più di tutti è in grado di riassumere gli effetti profondi della cultura Pop.
Il suo talento è di non cercare di mettere alcun talento nella realizzazione di opere, ma di adattare i meccanismi dello star system, che dominano la cultura di massa permettendole di sognare, al mondo dell’arte.
Se Picasso è riuscito a diventare un punto di riferimento grazie a un talento inarrivabile, unito a una lucidità straordinaria, Wahrol ha dispiegato pari talento, pari lucidità e tenacia nel diventare l’artista più famoso: egli ha compreso che la questione non è essere considerato il nuovo Michelangelo o Tiziano, ma la nuova Marilyn Monroe, la Coca Cola vivente. Icone commerciali che diventano nuovi miti in grado di mobilitare l’attenzione e trasformare l’artista medesimo in un simbolo.
La strategia di Wahrol è di essere riconosciuto artista a prescindere e non in conseguenza del suo valore artistico. Qui sta la sua grande intuizione che parte da un semplice ragionamento: il destino delle opere dei grandi artisti del passato è trasformarsi in icone di tipo pubblicitario riprodotte in milioni di esemplari, come per esempio la Gioconda di Leonardo. Tanto vale scegliere soggetti della contemporaneità, trasformandoli in icone attraverso il marketing dell’immagine. È Warhol a sostenere, con genio da copywriter, che l’artista non deve possedere alcuna bravura tecnica, deve essere del tutto indifferente alle immagini che crea, e l’unica unità di misura del valore dell’arte è la fama che essa conferisce al suo autore, tale da farlo trattare al pari delle star della musica rock o del cinema, e il valore economico, in grado di garantire il rispetto e l’apprezzamento generali.
«La Business Art è il gradino subito dopo l’arte – scrive Warhol -. Dopo aver fatto la cosa chiamata arte, o comunque la si voglia chiamare, mi sono dedicato alla Business Art». E se qualcuno attribuisce all’arte un valore etico, di insegnamento o esempio o testimonianza, la nuova parola d’ordine sarà l’amoralità, l’indifferenza a qualsiasi aspettativa di messaggio del quale l’opera si faccia portatrice.
L’artista assume immagini patinate da rotocalco, oggetti da supermercato, per diventare egli stesso immagine da rotocalco, prodotto di massa. Così, il concetto di un valore specifico e autonomo implicito nella pratica dell’arte viene completamente ribaltato.
Tutto è disvalore, in sé, e si qualifica solamente qualora sia in grado di ottenere attenzione e amplificazione dai meccanismi mondani. Tra una lattina Campbell comprata in negozio e la stessa firmata da Andy Wahrol, c’è una differenza di valore attribuita in base a un codice di riconoscimento sociale e non all’oggetto lattina, di per sé identico. Prima è una semplice lattina, poi è la lattina firmata dal personaggio famoso e pertanto il suo valore è mutato. In effetti è ciò che accade in quegli anni negli ambienti della Pop Art.
Il MoMa acquista subito opere di Wasselmann, Oldenburg e Warhol e così fanno i grandi collezionisti. I prezzi aumentano velocemente passando da qualche centinaio di dollari ai 60mila pagati per un Warhol nel 1970. Ciò fa notizia, ciò fa dell’arte delle merci la merce culturale perfetta. Tale meccanismo mentale e mediatico di identificazione è ben spiegato da Andy Warhol: « … Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca Cola, sai che anche il Presidente beve Coca Cola, Liz Taylor beve Coca Cola, e anche tu puoi berla. Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca migliore di quella che si beve il barbone all’angolo della strada. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu».