spari nella notte del conformismo

Mese: Dicembre 2024

Si chiude un’epoca in Siria. Quale futuro dopo la rivolta?

 

In dieci giorni la Siria laica governata dalla famiglia Assad non c’è più. Si chiude un’epoca sotto il fuoco incrociato delle milizie islamiche bene equipaggiate e addestrate. Siamo alle battute finali di uno scontro che vede protagonisti soprattutto la Turchia, gli Stati Uniti, l’Iran, la Russia e Israele che hanno trasformato la Siria in un territorio di scontro che punta alla definizione di nuovi equilibri di potere nel Medio Oriente.

È una storia iniziata nei primi mesi del 2011 all’epoca delle prime rivolte in Siria trascinate delle cosiddette “primavere arabe”. Da lì si è innescata una miccia che ha provocato uno stato di tensione permanente nella composita società civile siriana. Una guerra civile strisciante e parzialmente assopita nel 2015 con l’intervento militare di Russia, Iran ed Hezbollah che hanno evitato il collasso definitivo del governo di Bashar Al Assad e delle strutture statali. Da quel momento per la Siria è cominciata una nuova storia: lo Stato non ha mai recuperato la piena sovranità, dato che alcune di queste milizie, islamiste e curde, hanno continuato ad avere il controllo di alcune porzioni di territorio.

Alla fine è arrivata la resa dei conti e la rivolta che ha rapidamente rovesciato il governo, sembra essersi sviluppata da intese combinate prima ancora degli spari sul campo di battaglia. Dopo l’ingresso ad Aleppo, l’esercito siriano non ha fatto altro che ritirarsi e arrendersi.

Sono tante le incognite sul futuro della Siria divisa in fazioni che si guardano con diffidenza, seppure a parole, già si parla di intesa e unità.

Chi sono i principali protagonisti di questa vittoria?

Il maggiore sforzo militare sul campo è stato sostenuto dai combattenti di Hayat Tahrir Al Sham (Hts) sostenuti dalla Turchia con il loro leader Mohammed al-Jolani il più mediaticamente esposto tanto da rilasciare interviste dove manda segnali concilianti, con inviti alla calma e ad evitare vendette. Al Jolani figura ambigua dal passato controverso, arrivato a Damasco, si è inginocchiato e ha baciato la terra del quartiere dove era cresciuto, ovviamente con il fotografo a immortalare la scena. Abu Havrebbe preso le distanze dall’islam fanatico ha appena dichiarato: “Non sostituiremo un potere con quello di un altro” e ha garantito il rispetto di tutte le minoranze, tanto da avere incontrato i capi delle comunità cristiane con la mediazione del vicario apostolico di Aleppo. Ricordiamo che la Siria è un mosaico di etnie, gruppi e orientamenti religiosi: islamici sunniti e sciiti, alawiti, cristiani, arabi, drusi, armeni, curdi. curdi. Solo il tempo ci dirà se questa nuova immagine sia il risultato di una tattica di comunicazione o un’autentica volontà di cambiamento. Dietro l’apparente unità d’intenti, lo schieramento ribelle è unito solo nella vittoria ma diviso sul futuro. Sembra prevalere l’Hts ma altri gruppi potrebbero prendere il sopravvento e molto dipende dagli sponsor stranieri che li sovvenzionano.

Quello che stiamo osservando somiglia a una transizione ordinata: quasi tutti i funzionari pubblici sono rimasti per ora al loro posto, così come il primo ministro Mohammed Ghazi Al Jalali, rimasto a Damasco, ha già avuto contatti con i capi della rivolta per preparare il passaggio di poteri. Solo la famiglia Assad già fuggita a Mosca e i collaboratori più stretti hanno lasciato il paese dopo essere stati adeguatamente avvisati. Ci sono tutti gli elementi per una crisi pilotata dove ognuno degli attori politici ha avuto adeguate garanzie.

Al momento Muhammad al-Bashir sarà incaricato di formare un nuovo governo per gestire la fase di transizione. Lo riporta Al-Jazeera, secondo cui il nome è emerso durante un incontro tra il comandante del dipartimento operativo dell’opposizione armata, Ahmed Al-Sharaa, lo stesso Al-Bashir, e l’ultimo primo ministro Muhammad Ghazi Al-Jalali. Al nuovo capo dell’esecutivo spetterà il compito di definire le modalità del trasferimento dei poteri ed evitare che la Siria precipiti nel caos.

L’impatto sull’Europa del nuovo corso politico americano. Scenari possibili.

 

La netta vittoria di Donald Trump ha evidenziato una nuova tendenza di politica estera basata su un approccio, l’unilateralismo, e un metodo, la transazione. Sarà su queste basi che Washington agirà in campo internazionale. Sapevamo da più di un anno cosa sarebbe accaduto e nei circoli di potere europei dovranno confrontarsi con gli effetti potenziali delle politiche annunciate dalla futura amministrazione a partire dal 2025. Per questo motivo è molto importante stabilire a cosa potrebbe somigliare uno scenario apparentemente sfavorevole per gli europei e proviamo a tracciarne i contorni e descrivere le risposte necessarie affinché l’Europa recuperi quella maturità geopolitica smarrita da tempo.

Il tempo stringe

La prima urgenza, la questione del sostegno all’Ucraina e della gestione politica del conflitto, si porrà in modo acuto. Occorre prepararsi all’ipotesi di una sconfitta di Kiev dalle dimensioni e proporzioni tutte da scoprire. Infatti, sebbene il fronte non sia crollato, la dinamica delle operazioni sul campo di battaglia, sono favorevoli alla Russia. Mosca trovandosi tutto sommato in una posizione di vantaggio non ha alcuna intenzione di adottare una posizione troppo conciliante, nonostante il conflitto abbia dei costi enormi sul piano economico e militare.

Trump e i suoi sostenitori hanno chiaramente annunciato di volere un piano di pace al più presto possibile. I contorni sono ancora incerti. C’è da aspettarsi, nell’ipotesi di una vittoria russa sul campo, richieste che comprenderanno probabilmente la secessione dei territori ucraini occupati o uno status di forte autonomia, la neutralità piena dell’Ucraina, le dimissioni del governo Zelensky e l’ufficializzazione di sfere d’influenza russe, con un controllo serrato su Georgia, Bielorussia e Moldavia.

In altre parole, a breve termine occorre prepararsi alla possibilità di dislocare truppe europee sulla linea di confine russo-ucraina proprio per garantire la stabilità degli accordi di pace. Senza contare le critiche alle principali nazioni europee, Germania, Francia e Italia soprattutto, che non hanno fatto abbastanza per agire politicamente sul conflitto, per attivare le necessarie forze di dissuasione e che dopo un timido tentativo di agire in autonomia, si sono piegate alle indicazioni americane. È passato troppo tempo ma non è ancora troppo tardi per provare a rimediare, ma servirebbe un cambio di mentalità e un pensiero strategico che definisca una volta per tutte l’interesse europeo.

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